martedì 31 marzo 2020

Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono

«Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite». A queste sue parole, molti credettero in lui.»

Siamo arrivati al martedì della quinta settimana di quaresima, ultima prima della settimana santa. Nel Vangelo Gesù, rispondendo alla domanda «Tu chi sei?», manifesta quanto più chiaramente possibile la Sua identità messianica e la Sua divinità.
Anche noi, come i contemporanei di Gesù, siamo invitati a chiederci: chi è veramente quest’uomo? Nel brano di oggi il Maestro, ci provoca, ci scuote: per diverse volte, riferito a se stesso, usa il nome di Dio: Io sono. Era impensabile che qualcuno, sano di mente, si attribuisse questo nome! Il solo pronunciare il nome di Dio era gravissimo, un abominio, un orribile peccato.
Per provare la sua identità, Gesù chiede a chi lo ascolta di guardare le sue opere, di individuare nel suo comportamento l'opera di Dio. In questi giorni di deserto anche noi siamo invitati ad individuare le opere del Padre nella nostra vita, a vedere la Sua presenza nella nostra quotidianità.
Quante volte anche noi, invece, come Israele nel deserto, misconoscendo le opere salvifiche di Dio, ci lasciamo andare a lamentele e mormorazioni (prima lettura). In questo particolare  momento di deserto che stiamo vivendo, qualcuno mi ha confidato di avere scoperto: «Prima eravamo felici e non ce ne accorgevamo!».
Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono. Come antidoto al veleno della mormorazione, reso manifesto nel deserto dai serpenti, Mosè fa un serpente di bronzo innalzato su di un’asta. Noi siamo invece chiamati ad elevare lo sguardo a Cristo Crocifisso per riconoscere in Lui il Dio Amore che nulla si risparmia pur di salvarci.
Fr. Marco

domenica 29 marzo 2020

Va’ e d’ora in poi non peccare più



«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». (Gv 8, 1-11)

Il Vangelo del quinto lunedì di quaresima, presentandoci il  caso di una donna colta in “flagrante adulterio”, ci mostrarci la Misericordia di Dio che ci rende nuove creature.
Scribi e Farisei la conducono a Gesù la donna peccatrice perché sia lui ad emettere la sentenza. Ciò che li muove non è, però, lo zelo per la legge. Si tratta evidentemente di una trappola: se questo “maestro”, che mangia con i peccatori, perdona l’adultera, potranno accusarlo di contravvenire alla legge; se, al contrario, la condanna, si sarà allineato all’interpretazione più severa della legge, contraddicendo il suo comportamento precedente, e perderà il consenso del popolo (di cui scribi e farisei sono gelosi).
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Già in questo atteggiamento di scribi e farisei trovo motivo di riflessione. Può capitare anche a noi di puntare il dito verso un nostro fratello o sorella che sbaglia. Magari ci appelliamo a “una questione di principio”; forse osiamo addirittura parlare di “correzione fraterna”; ma è veramente questo a muoverci? Siamo veramente interessati a promuovere l’osservanza dei comandamenti? Ad aiutare il fratello o la sorella a non sbagliare più? Magari le nostre motivazioni siano altre: gettare fango sul peccatore perché possa splendere la nostra “giustizia”; mettere a tacere chi la pensa diversamente da noi ecc.
«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Il Maestro non cade nella trappola che gli viene tesa: non nega il peccato della donna, ma chiama gli accusatori a prendere coscienza della comune condizione di peccato da cui, purtroppo, nessun uomo è esente. L’adulterio, inoltre, è un peccato fortemente simbolico: spesso Israele è accusato dai profeti di adulterio, di avere il cuore lontano dal suo Dio (Cfr. Osea 2 e Ezechiele 16). Anche il gesto di scrivere sulla polvere ha sapore profetico: nel libro del profeta Geremia si legge: “Sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te, poiché essi hanno abbandonato il Signore, la fonte dell’acqua sprizzante” (Ger 17, 13b).
Gli accusatori di questa donna non sono forse anch’essi colpevoli di adulterio verso il loro Signore? Implicitamente Gesù chiede a ciascuno dei suoi ascoltatori di esaminare se hanno realmente il diritto di accusare o se, piuttosto, devono anch’essi appellarsi alla Misericordia di Dio.
Se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Cominciando da chi ha una più lunga storia di infedeltà, gli accusatori rinunciano all’accusa. Rimangono “la misera e la Misericordia”(S. Agostino).
Il Signore non giustifica il peccato, ma salva la peccatrice donandole il perdono, prima ancora che lei lo chieda, insieme all’ingiunzione: non peccare più. Il proposito di non peccare più (che facciamo nell’Atto di Dolore) è una tensione importante: non possiamo rassegnarci alla nostra miseria; siamo chiamati a rialzarci e a riprendere il cammino di sequela del Maestro. Gesù è capace di rinnovare la nostra vita; il nostro passato, gettato nel braciere della sua misericordia, non è più un peso. Guardando con speranza al futuro, allora, tendiamo sempre ad una maggiore fedeltà al Dio fedele e misericordioso.
fr. Marco

sabato 28 marzo 2020

Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me non morirà in eterno


«Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio.» (Ez 37,12-14)

«Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.» (Rm 8,8-11)

«Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà”. Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”». (Gv 11,1-45)

Siamo ormai prossimi agli eventi pasquali e la Parola di Dio della quinta domenica di quaresima, dopo averci presentato Gesù come Colui che ci dona l’acqua viva, l’unica che può soddisfare la nostra sete di Vita, di verità e di bene (lo Spirito Santo che è effuso in noi) e come Luce del mondo che ci fa riconoscere l’opera di Dio e la Sua volontà, ci presenta Gesù, come la risurrezione e la vita, colui che sconfigge la morte e ci dona la Vita.
Tutta la liturgia della Parola di questa domenica, infatti, ci presenta Dio come Colui che chiama il suo popolo ad uscire dal sepolcro (I lettura) e che dà la vita ai nostri corpi mortali (II lettura). Nella pagina evangelica, inoltre, Gesù mostra il suo essere vero Uomo e vero Dio: mostra la sua umanità commuovendosi per il dolore di Marta e Maria; mostra la sua divinità nel proclamare «Io sono la risurrezione e la vita» parole confermate col fare uscire dal sepolcro e restituire la vita a Lazzaro.
Gesù è il Dio amante della vita e, allo stesso tempo, pienamente uomo che sperimenta la vita umana con le sue gioie e i suoi dolori. L’evangelista Giovanni sottolinea che Gesù ama i suoi amici, la famiglia di Lazzaro, Marta e Maria, presso i quali sta volentieri condividendo le loro gioie e le loro sofferenze. Gesù vive pienamente le emozioni umane: dinanzi la morte dell’amico e il lutto di Marta e Maria, Gesù è molto turbato, si commosse profondamente  e scoppiò in pianto. Davvero Gesù è colui che ama la vita: sta per compiere un grande miracolo, ma non può fare a meno di piangere di fronte al sepolcro di Lazzaro.
Lazzaro, vieni fuori! Il miracolo non è solo atto di amore fraterno, bensì un segno, una manifestazione della divinità di Gesù e dell'amore di Dio per l'uomo. «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri» aveva detto Dio per bocca del profeta Ezechiele.
Il Segno ha una finalità universale: non è solo per i suoi tre amici, ma si rivolge a tutta l'umanità; Gesù infatti precisa di avere compiuto il miracolo della risurrezione di Lazzaro non solo per lui, ma per tutti, 
«per la gente che mi sta attorno, perché credano che Tu mi hai mandato».
«… chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» Che Dio abbia il potere di vincere la morte è già affermato nell’Antico Testamento in alcuni passi del quale troviamo pure la fede nella resurrezione dell’ultimo giorno (per es. Dn 12,2) a cui accenna Marta nel Vangelo odierno. Il Vangelo di questa domenica, però, va oltre questa speranza futura perché vede già date in Gesù “la risurrezione e la vita” che sono così attuali. Gesù è venuto a donarci la Vita. Lui è la Risurrezione la Vita, mediante il Battesimo, resi partecipi del Suo mistero Pasquale, noi siamo morti e risorti con Lui; ha avuto inizio in noi la Vita Nuova, Vita nello Spirito che il mondo e la morte non ci possono togliere. Cristo ci ha donato la Vita, noi dobbiamo, però, accoglierla, compiere questo passaggio dalla morte alla Vita, credendo in Lui (Gv 11,26), cioè fidandoci di Lui, e quindi osservando i suoi comandamenti, cioè amandoci gli uni gli altri (cfr. per es. Gv 15,12): «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte.» (1Gv 3,14)
Chi crede in Gesù, quindi, chi rinasce in Lui nel Battesimo, non deve più temere la morte perché vive una Vita che è altra rispetto alla vita biologica, vive la vita nello Spirito. A questo punto però penso sia bene chiederci: io credo che Gesù è la risurrezione e la vita? Vivo secondo la carne o secondo lo Spirito? Come ci ricorda oggi la seconda lettura, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Nel Vangelo di Matteo Gesù ci dona il criterio per fare discernimento in noi prima che negli altri: «dai frutti li riconoscerete» (Mt 7,16) e, come già citato, primo dei frutti della Vita è l'amore dei fratelli. Scrivendo ai Galati S. Paolo elenca quali sono le opere della carne e quali il frutto della Spirito: «sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,19-23). Per "opere della carne" non si intende, quindi, solo e soprattutto ciò che riguarda la sfera sessuale (come a volte semplicisticamente si crede). È opera della carne anche tutto ciò che ha a che fare con l’orgoglio (che è idolatria del proprio io) e che porta divisione.
Per capire se viviamo secondo la carne o secondo lo Spirito, allora, non ci resta che da vedere quali opere/frutti produciamo. Se dovessimo scoprire di essere tra quelli che vivono sotto il dominio della carne, convertiamoci finché ne abbiamo la possibilità: accogliamo lo Spirito e lasciandoci convincere del nostro peccato in modo da consegnarlo alla Misericordia del Padre e, abbandonando le opere della carne, camminiamo secondo lo Spirito. Saremo tra quanti credono in Lui e non moriranno in eterno.
Fr. Marco

venerdì 27 marzo 2020

Nessuno mise le mani su di lui


«Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato così!”». (Gv 7,40-53)

Nel Vangelo di questo sabato della quarta settimana di quaresima ascoltiamo le reazioni alle Parole pronunciate da Gesù alla festa delle capanne. La gente si divide. Questa divisione serve in questo momento al Padre per proteggere il Figlio suo: non era ancora giunta la sua ora (Gv 7,30).
Molti della folla credono in Lui. Altri, invece, rimangono nel loro dubbio e nelle loro confusioni. Uno dei capi dei Giudei, Nicodemo, ha la forza di ricordare che la loro Legge garantisce ad ogni uomo il diritto alla difesa. Prima lo si ascolta, gli si consente di potersi discolpare, poi lo si potrà condannare. I sacerdoti invece partono da un pregiudizio e si chiudono alla possibilità di conoscere: «dalla Galilea non sorge profeta!».
I capi dei Giudei e i sacerdoti vogliono che Gesù venga arrestato e mandano le guardie a catturarlo. Queste, tuttavia, tornano indietro a mani vuote. Dinanzi a Gesù rimangono rapiti, conquistati dalla sua dottrina: «Mai un uomo ha parlato così!». La sua parola non è una parola come tutte le altre. È diversa, unica. Mai altri hanno parlato come Lui.
Anche in questa ammirazione per Gesù si manifesta l'opera provvidente del Padre: Gesù non può essere arrestato in questo momento, deve fare le opere che il Padre gli ha dato da compiere. Veramente si realizza per Gesù quanto rivela il libro della Sapienza sul Giusto perseguitato: «Le anime dei giusti ... sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. ...» (Sap 3,1-9).
Questa fede nella custodia e nella protezione del giusto deve essere di ogni discepolo di Gesù. La sua vita è nelle mani di Dio. A lui è affidata la sua causa (I lettura)
In questo momento storico particolare penso sia importante avere questa consapevolezza. Il discepolo di Cristo, l'unico Giusto che a Lui ci ha conformato nel Battesimo, sa riconoscere l'opera del Padre in ciò che accade. Quando rimaniamo uniti a Cristo, alla Sua Parola, Lui sarà il nostro scudo, corazza, protezione e difesa. Sarà il Padre il potente Governatore della nostra vita. Gesù vive di questa purissima certezza.
Fr. Marco

giovedì 26 marzo 2020

Costui sappiamo di dov’è



«“Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”». (Gv 7, 1-2.10.25-30)

Il Contesto della pagina evangelica del Venerdì della quarta settimana di quaresima è l’inizio della festa della Capanne, festa solennissima in cui si faceva memoria delle opere salvifiche compiute da Dio in favore del suo popolo nei quarant’anni nel deserto. L’evangelista Giovanni colloca qui l’ennesimo tentativo di Gesù di farsi riconoscere a partire dalle “opere”.
Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono … È proprio la presunzione di conoscerlo, tuttavia, ad impedire ai contemporanei di Gesù di riconoscerlo come il Cristo, il Messia atteso, l’inviato dal Padre. Ancora una volta si manifesta il pericolo, che anche noi corriamo, che la “presunta conoscenza” impedisca la conoscenza reale, l’accoglienza della novità, dell’inedito. Al contrario, forti della nostra “conoscenza” tenderemo ad eliminare ciò che non rientra nei nostri schemi.
Ciò avviene nei confronti di Dio, che pretendiamo di ingabbiare nei nostri paradigmi, ma non di rado accade anche nei confronti dei fratelli, che Egli ci pone accanto, e degli avvenimenti che Egli ci dona da Vivere come sua parola nella nostra storia: la presunzione di inquadrare ed etichettare situazioni e persone, aggravata dalla rigidità nel rivedere i propri giudizi, rende difficile che Dio possa manifestarci la Sua grandezza, che possa fare cose nuove. Accade come quando un fratello ci sta parlando, ma noi non lo ascoltiamo, perché “sappiamo” già quello che ci dirà e, mentre lui parla, abbiamo già chiaro ciò che risponderemo. Abbiamo perso la possibilità dell'incontro: non abbiamo incontrato lui, ma ci siamo rapportati con l'immagine che noi abbiamo di lui
Torna nella Parola di oggi l’appello all’ascolto, a farsi spazio accogliente della novità, a non filtrare la novità di Dio che si manifesta nella nostra storia e nei fratelli che abbiamo accanto, pretendendo di ingabbiarli nei nostri schemi. Ascoltiamo, allora, ciò che il Padre ha da dirci in questo deserto nel quale ci ha condotti per parlare al nostro cuore. Rimaniamo docili alla Sua Volontà e vedremo le meravigliose opere che solo Lui può compiere.
Fr. Marco

mercoledì 25 marzo 2020

Come potete credere, voi che non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?


«Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato.» (Gv 5,31-47)

Il Vangelo del giovedì della quarta settimana riprende dalla risposta di Gesù alla accusa dei farisei in seguito alla guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà: «… Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita ... Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. ... E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?»
È un pericolo che corriamo anche noi quello di ascoltare le Scritture, la testimonianza dei profeti, per servirci di esse, per la "nostra gloria", e non per incontrare Dio. Questo è ciò che è accaduto alla maggioranza degli scribi e farisei, contemporanei di Gesù. Anche a noi può capitare di essere talmente certi della nostra interpretazione da non cambiare idea nemmeno davanti a Dio! Davanti al miracolo di un paralitico guarito, di un uomo che dopo trentotto anni ricomincia a vivere, i farisei vedono solo la violazione del comandamento del riposo sabatico. Quanto è difficile per chi crede mettersi in discussione!
In questa quaresima di deserto che ci ha tolto tante cose che davamo per scontate, proviamo a scuotere le nostre certezze per rinforzarle, per distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio. Non temiamo di perdere la fede: usando l'intelligenza, nel solco dell'autentica tradizione cristiana, possiamo capire cosa davvero è essenziale e cosa è temporaneo. Torniamo alla relazione sincera con Dio, all'ascolto autentico della Sua Parola.
Che non succeda anche a noi di rigettare la novità di Dio in nome di Dio.
Fr. Marco

martedì 24 marzo 2020

«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola»


«Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, perché Dio è con noi» (Is 7,10-14; 8,10)

«“Ecco, io vengo a fare la tua volontà”. Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Eb 10,4-10)

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te” … Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei.». (Lc 1,26-38)

Il Vangelo della solennità dell’Annunciazione si apre con la scena dell’Angelo Gabriele che entrando da Maria la saluta dicendo: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». Il saluto angelico presenta Maria come destinataria della pienezza del favore divino, ma anche come piena di quella grazia e bellezza che è la santità, la conformità al progetto di Dio. Non a caso la Chiesa chiama Maria “tutta bella” (tota pulchra) con le parole del Cantico (cfr. Ct 4, 1).
In Maria questa grazia, consistente nella santità, ha una caratteristica che la pone al di sopra della grazia di ogni altra persona, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento: è una grazia incontaminata. La Chiesa cattolica esprime ciò con il titolo di «Immacolata» e quella Orientale con il titolo di «Panaghìa» (Tutta santa). L’una mette più in risalto l’elemento negativo della grazia di Maria, che è l’assenza di ogni peccato, anche di quello originale; l’altra soittolinea l’elemento positivo, cioè la presenza in lei di tutte le virtù e di tutto lo splendore che da ciò promana.
Parlando del titolo “piena di grazia” dato dall’angelo a Maria, però, dobbiamo evitare  di cadere nell’equivoco di insistere più sulla grazia di Maria che sulla grazia di Dio. Bisogna ricordare che tale grazia di Dio, di cui Maria è stata ricolmata, è anch’essa una “grazia di Cristo”, cioè il favore e la salvezza che Dio concede ormai agli uomini, a causa della morte redentrice di Cristo.
Assumere questa prospettiva rende la vicenda di Maria straordinariamente significativa per noi, restituisce Maria alla Chiesa e all’umanità.
Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II la categoria fondamentale con la quale si spiegava la grandezza della Madonna era quella del “privilegio” o dell’esenzione. Si pensava che Maria fosse stata esentata non solo dal peccato originale e dalla corruzione, ma si arrivava anche a pensare che fosse stata esentata dai dolori del parto, dalla fatica, dal dubbio, dalla tentazione, dall’ignoranza e, infine, anche dalla morte vista come conseguenza del peccato. Non ci si rendeva conto che, in questo modo, si dissociava completamente Maria da Gesù, che, pur essendo senza peccato, volle sperimentare a nostro vantaggio la fatica, il dolore, l’angoscia, la tentazioni e la morte. Le categorie del privilegio e dell’esenzione, portate all’estremo, presentavano la Madre di Dio come una creatura in genere disincarnata e idealizzata che poco ha a che fare con le nostre quotidiane lotte. Qualcuno da venerare e contemplare, ma troppo distante da noi per potere essere un modello da imitare.
Dopo il Vaticano II, la categoria fondamentale con la quale si parla  della santità unica di Maria non è più quella del privilegio, ma quella della fede. Maria ha camminato, anzi ha “progredito” nella fede (Lumen Gentium 58). Questa è la vera grandezza di Maria: è colei che liberamente e per fede ha aderito al progetto di Dio; un progetto singolarissimo che le ha chiesto più che a ogni altra creatura.
Di Gesù, nel Nuovo Testamento, si dice che noi «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15); e che, «pur essendo figlio, egli imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8). Queste parole, per analogia, si possono applicare anche a Maria che si è fatta perfetta discepola del Figlio; potremmo dire, addirittura, che esse costituiscono la vera chiave di comprensione della sua vita.
Come Gesù imparò l’obbedienza, cioè la esercitò e crebbe in essa, grazie alle cose che patì, così anche Maria imparò la fede e l’obbedienza cioè crebbe in esse grazie alle cose che patì; cosicché noi possiamo dire di lei, con tutta fiducia: non abbiamo una madre che non sappia compatire le nostre infermità, la nostra fatica, le nostre tentazioni, essendo stata ella stessa provata in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato.
Ciò detto, perché la solennità odierna non sia solo la celebrazione di qualcosa che non ci tocca, siamo chiamati a lasciarci plasmare dal mistero che celebriamo. L’annuncio dell’Angelo a Maria e il suo fiat, sono l’aurora della redenzione: il Verbo di Dio entra nel mondo per santificarlo. Ecco perché la liturgia odierna ci consegna queste parole nella seconda lettura: Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
Naturalmente, come abbiamo visto la prima creatura ad essere santificata è Maria che, per questo, sotto la croce ci viene consegnata come madre e modello da cui imparare a dire il nostro sì al progetto d’amore del Padre e, quindi, a metterci alla sequela di Cristo. Da dove iniziare? Da una contemplazione che diventa desiderio di imitazione, di fare, credere e amare come lei.
Maria è bella perché crede e ama, è tutta amore. Tutto viene dall’amore di Dio. La risposta della creatura è indispensabile nell’amore, al sì di Dio fa eco quello di Maria. Come a Nàzareth, anche oggi un sì è capace di sedurre Dio con le nostre vicende e di far scendere il Cielo sulla terra.

Fr. Marco (rileggendo Cantalamessa, “Maria uno specchio per la Chiesa”)

lunedì 23 marzo 2020

Vuoi guarire? Àlzati, prendi la tua barella e cammina


«“Vuoi guarire? […] Àlzati, prendi la tua barella e cammina”. E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare. […] “Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”» (Gv 5,1-16)

Il Vangelo del martedì della quarta settimana di quaresima ci presenta il terzo dei sette segni presentati dall’evangelista Giovanni.
Ancora una volta è Gesù a prendere l’iniziativa: passando accanto alla piscina di Betzatà, in mezzo ad un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici, nota un uomo malato da trentotto anni ed abbandonato. Trentotto anni sono veramente tanti, una vita. Forse quest’uomo è disilluso, si sente abbandonato («non ho nessuno …»), forse non ha neanche più la forza di sperare in una guarigione.
Ed ecco che Gesù gli rivolge una domanda: « Vuoi guarire?» La risposta potrebbe sembrare ovvia, eppure non è così. Quest’uomo non risponde direttamente alla domanda di Gesù, ma si commisera e, implicitamente, accusa “gli altri” di averlo abbandonato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina …». Mi sembra che quest’uomo, ormai prostrato dalla sofferenza, si deresponsabilizzi, come a dire: «Non è colpa mia se non guarisco, non ho nessuno, mi hanno abbandonato, gli altri sono più veloci di me …». Quante volte anche noi, dinanzi le nostre miserie, dalle quali magari ci piacerebbe liberarci, tendiamo a deresponsabilizzarci: «Non è colpa mia … sono fatto così … sono loro che …».
Oggi, a quest’uomo e a noi, il Maestro dice: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». Ancora una volta Gesù chiede fiducia nelle sue parole.
Àlzati. È il verbo della risurrezione. Gesù non compie alcun gesto. Non immerge l’uomo nella piscina. Chiede solo a quest’uomo di fidarsi, di prender posizione assumendosi la sua responsabilità.
Prendi la tua barella. Penso di potere affermare che, incontrato il Maestro e salvati da Lui, sia importante mantenere la memoria di che cosa il Signore ha fatto per noi, di dove ci trovavamo prima.
Cammina. È il verbo che indica il percorso da compiere alla sequela di Cristo. Il cammino implica una fatica, il lasciare le proprie sicurezze, per seguire Colui che conosce la mèta.
 Anche a noi oggi Gesù chiede «Vuoi guarire? Vuoi risollevarti dalla tua miseria? Vuoi cominciare a Vivere veramente?» Sta a noi dare la risposta, scegliere se fidarci delle sue parole o continuare a commiserarci accontentandoci di stare ai margini della Vita senza mai sperimentarla a pieno.
Fr. Marco

Quell’uomo credette alla Parola e si mise in cammino

«Gesù gli disse: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete”. Il funzionario del re gli disse: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia!. Gesù gli rispose: “Va’, tuo figlio vive”. Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.» (Gv 4,43-54)

Il Vangelo di oggi, lunedì della quarta settimana di quaresima, si apre con la notazione che Gesù dalla Samaria torna in Galilea. Lì i suoi corregionali lo accolgono: erano stati anch'essi a Gerusalemme per la pasqua (Gv 2,13-25)  e avevano visto la cacciata dei venditori dal Tempio e, soprattutto, i segni che egli compiva (Gv 2,23). Gesù è consapevole che un Profeta non riceve onore nella sua patria: ciò che cercano non è la Parola di Dio, ma i prodigi, i miracoli.
Gesù si ferma a Cana e lì incontra un funzionario del re Erode il quale gli chiede di scendere a Cafarnao per guarire suo figlio in pericolo di vita. Non a caso l'evangelista usa il verbo “scendere”; al primo e più immediato significato geografico, si accosta il significato simbolico dell'incarnazione: il Verbo si è fatto carne ed ha posto la sua tenda in mezzo a noi. Egli è sceso, non ha considerato un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo (Cfr Fil 2,6-7) per la nostra salvezza, per aprirci la Via al Padre, fonte della Vita.
Gesù sa che i suoi connazionali sono curiosi di vedere segni e prodigi, per questo solo dopo l'insistenza del funzionario, lo esaudisce senza, però, dargli alcun segno ed invitandolo implicitamente di fidarsi della Sua Parola: «Va’, tuo figlio vive».
A volte anche noi, come i Galilei, chiediamo al Signore segni e prodigi: non ci basta la Sua Parola, vogliamo “vedere”, cerchiamo il prodigioso, l’emozionante. Non ci basta la Parola di Dio, cerchiamo messaggi e visioni …
Il funzionario di Erode credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Si fida della Parola di Gesù e dalla Parola si fa mettere in movimento. Proprio lungo il cammino, ecco che giunge il segno che sembrava essere stato negato a quest’uomo: i suoi servi gli vengono incontro ripetendogli esattamente le parole di Gesù: «Tuo figlio vive». Interrogati, poi, confermano che proprio nell’ora in cui Gesù pronunziava quelle parole, il figlio guariva. Ecco che ora, dopo il primo atto di fiducia, arriva la pienezza della Fede e la conversione: credette lui con tutta la sua famiglia.
Anche a noi oggi Gesù chiede di fidarci, di lasciarci mettere in movimento dalla sua Parola. Solo così vedremo i cieli nuovi e la nuova terra che egli è venuto ad inaugurare (I lettura).
Fr.Marco

sabato 21 marzo 2020

Andò, si lavò e tornò che ci vedeva

«Il Signore replicò a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”». (I Sam 1, 4.6.7.10-13)

«Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. … Non partecipate alle opere delle tenebre … ma piuttosto condannatele apertamente.» (Ef 5,8-14)

«… sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe”, che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. … “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”» (Gv 9, 1-41)

La IV domenica di quaresima (in laetare), l’antifona d’ingresso ci
invita a rallegrarci e la liturgia della Parola ci presenta la simbologia della Luce. Quest’anno, in cui la quaresima è caratterizzata da una dimensione di deserto più immediatamente percepibile per l’assenza delle liturgie che altri anni l’hanno scandita, penso che l’invito a lasciarsi raggiungere dalla Luce per potere comprendere il senso della prova che stiamo attraversando e poterci rallegrare del fatto che questo in “deserto” non siamo soli, ma il Signore è con noi,  sia quanto mai opportuno.
La luce, infatti, è simbolo della gioia, della vita; è ciò che ci permette di distinguere le cose, di dare un senso a ciò che abbiamo davanti; è ciò che ci permette di orientarci e prendere la giusta direzione. Al buio, invece, tutto risulta confuso e capita spesso di sbagliare direzione. La tenebra è il simbolo della tristezza, del caos, del non senso, della morte. Ecco perché fa paura.
La pagina evangelica di oggi si colloca nel contesto della Festa delle Capanne caratterizzata, tra i nostri mesi di settembre e ottobre, dall’abbondanza di luminarie. In questa festa piena di luci, Gesù si presenta come la Luce del mondo. La luce nella quale i ciechi tornano a vedere, ma che manifesta la cecità di coloro che la rifiutano. I quarantuno versetti che compongono il brano evangelico di oggi sono ricchi di simboli e tematiche. Ritengo, tuttavia, che sia importante, facendoci guidare dalle altre due letture, fare emergere il tema battesimale.
I discepoli pongono a Gesù una domanda sulla relazione tra peccato e malattia: chi ha peccato perché quest’uomo sia nato cieco? Il Maestro non si pronunzia sul legame peccato-malattia, ma evidenzia che la sofferenza/cecità è costitutiva dell’uomo lontano da Dio. Dopo la disobbedienza delle origini, ogni uomo che nasce è “malato”, “cieco”, bisognoso di una luce che non può darsi dal solo. È Gesù il “medico celeste” che viene a guarire la radice delle nostre infermità. Nel cieco-nato, quindi, possiamo riconoscere ogni uomo bisognoso della Luce per comprendere il senso della propria esistenza.
Per operare la guarigione del cieco, il Signore si serve del fango: avviene come una nuova creazione (cfr. Gen 2,7). Come nella creazione descritta in Genesi, infatti, Gesù “separa” la luce dalle tenebre (cfr Gen 1,1-5) per ridurre il Caos (il non senso della vita) al Cosmo: una vita piena di senso in cui tutto è ordinato al giusto fine.
La guarigione del cieco-nato è simbolo anche di ciò che è avvenuto in noi: nelle acque del battesimo anche noi siamo stati ri-creati, siamo stati guariti, siamo stati illuminati, ci sono stati aperti gli occhi per vedere e riconoscere il Signore che opera nella nostra vita. Anche noi siamo diventati “inviati” (cfr. il nome della piscina) a portare questa luce al mondo con le nostre opere da figli della luce.
La luce della fede che ci è stata donata nel battesimo, infatti, scaccia la paura generata dalle tenebre. Conosciamo la Verità, sappiamo di avere un Padre che ci ama al di là di ogni nostra immaginazione. La luce che è in noi, inoltre, ci permette di vedere la realtà con occhi nuovi, capaci di scorgere il senso profondo delle cose; capaci di vedere non l’apparenza, ma il “cuore” della realtà (cfr. I lettura), così da riconoscere la Volontà d’amore del Creatore e vivere nel giusto modo le realtà create. Per questo, in un mondo sempre più preda del libertinaggio in cui tutto viene stravolto e piegato al piacere egoistico, possiamo e dobbiamo senza timore denunciare il non senso delle “opere delle tenebre”, di quelle che s. Paolo chiama opere della carne: «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5, 19-21). Gesù stesso ci ha messi in guardia «Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra.» (Lc 11,35).
Fr. Marco.

venerdì 20 marzo 2020

Chi si umilia sarà esaltato

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

​Oggi, sabato della terza settimana di quaresima, il Maestro ci presenta la “regina” delle virtù: l’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli. Ritengo sia il caso di chiarire che l’umiltà è una virtù particolare: come e più delle altre virtù, va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario.
Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà. Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere.
Nell’accostarci al Vangelo dobbiamo subito fare attenzione alla motivazione per cui il Maestro dice la parabola: «… per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé. Il vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, ancora, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo non ha bisogno di Dio.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto. L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.
Penso sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio cuore malato potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro metro di misura, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.
A questo punto sarebbe facile cedere alla tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari cadere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Facciamo però attenzione che troppo spesso somigliamo al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio: come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.
Fr. Marco

Il Signore nostro Dio è l’unico Signore

«Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». (Mc 12,28-34)

​In questo venerdì della terza settimana di quaresima, il Vangelo ci presenta il fondamento di tutta la legge e i profeti: la relazione con Dio. 
AscoltaAmerai … Il primo e fondamentale comandamento, infatti, è vivere la relazione d’amore con l’unico Signore, l’unico vivo e vero, l’unico capace di salvarci, di donarci la Vita. Mi ha colpito, meditando questa Parola, la sottolineatura dell’unicità di Dio. Lui è l’unico Signore.
Quante volte mettiamo la nostra vita sotto altre “signorie”: il lavoro, il benessere, la casa … Non di rado, per queste realtà elevate ad idoli sacrifichiamo noi stessi e ciò che di più prezioso abbiamo (tempo, affetti …). Da questi idoli cerchiamo una Vita che però non possono darci. Più spesso ancora è il nostro Io a volersi ergere a signore: abbiamo la pretesa di essere signori della nostra vita, di decidere da soli ciò che è bene e ciò che è male. A volte vogliamo che anche i fratelli si pieghino alla nostra signoria: vogliamo comandare, sottomettere gli altri a noi. Nessuno, tuttavia, può darsi da solo la Vita che cerca («… chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?» Mt 6,27).
Solo il Signore nostro Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, può darci la Vita. Ecco, allora, l’esigenza di vivere sotto la sua Signoria, di ascoltare e mettere in pratica i suoi comandamenti. Non da schiavi, però, ma da figli che si sanno amati dal Padre e che corrispondono a questo amore.
… con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Un amore “assoluto”, pieno,  che non lascia spazio agli idoli, che detronizza il nostro Io.
Come è possibile, però, corrispondere all’immenso e gratuito amore di Dio? Un Amore che ci ha pensati e voluti dall’eternità, che ci ha chiamati all’esistenza, che ci ha salvati donando tutto se stesso sulla croce … Nessuno può dare a Dio il corrispettivo per i suoi immensi doni. Ecco perché Gesù oggi aggiunge una seconda parte al comandamento dell’amore: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.

Solo amando i fratelli che il Signore mi mette accanto, amandoli come “un altro me stesso”, è possibile amare il Dio vivo e vero. Amando i fratelli che mi stanno accanto, infatti, amo il Padre che li ha pensati e creati per amore; amo il Figlio che li ha salvati dando se stesso per ciascuno di essi e ha voluto identificarsi con i più piccoli e fragili (« … l’avete fatto a me» Cfr. Mt 25,40); amo lo Spirito Santo che tutti ci pervade e ci rende un solo corpo, il Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa.
Se faremo così, attingeremo alla Sorgente della Vita, avremo una Vita che il  mondo non conosce e non può darci: vivremo la Vita dei risorti e non avremo più alcun timore. Il Signore ce lo conceda.
Fr. Marco

mercoledì 18 marzo 2020

Giuseppe, figlio di Davide, non temere

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (Mt 1,16.18-21.24)

Nella solennità di S. Giuseppe, la pericope evangelica di Matteo che la liturgia ci dà la possibilità di scegliere, ce lo presenta come uomo giusto. Il giusto, secondo la tradizione veterotestamentaria, è colui che mette in pratica la Legge, che realizza la volontà di Dio. D'altronde, la virtù della giustizia si può sinteticamente esprimere come il “dare a ciascuno ciò che gli spetta”; e a Dio spetta l’obbedienza.
Penso, però, che vada chiarito che il dilemma di Giuseppe non riguarda il sospetto su Maria. Se avesse nutrito sospetti sull’onestà di Maria, proprio perché uomo giusto, obbediente alla Legge, non credo avrebbe esitato ad accusarla pubblicamente. Sono sicuro, invece, che nel raccontare al suo sposo ciò che le era capitato, Maria fosse talmente radiosa di luce divina da non potersi dubitare delle sue parole. Il dilemma di Giuseppe, quindi, nasce proprio dal fatto che crede alle parole di Maria e, riconoscendo in lei l’opera divina, non vuole intralciarla in alcun modo. Non sa, tuttavia, cosa fare perché si realizzi la volontà di Dio. Per questo medita di farsi da parte, ritenendo di non avere un ruolo in ciò che il Signore sta realizzando. In questo contesto, ecco che anche Giuseppe riceve un annuncio divino. Gli viene comunicato che ha un ruolo in ciò che sta avvenendo: dovrà dare un nome al bambino che nascerà, inserendolo così nella discendenza di Davide e realizzando la profezia messianica di 2 Sam 7,12-16. Giuseppe, allora, lungi dall’“essere di troppo” sarà il padre putativo e custode del Figlio di Dio, del Messia atteso, del Salvatore del mondo (Gesù significa Dio salva), del Dio con noi (Emmanuele).
Celebrare san Giuseppe, però, non può limitarsi a elencarne i meriti o, peggio, a vivere solo qualche tradizione ormai ridotta a mero folclore. Tutto ciò ha il suo valore, ma non può bastare. Celebrare la solennità dei santi, oltre che ad invocarne l’intercessione per le nostre necessità, serve a contemplare come essi hanno realizzato pienamente la loro vita per poterne seguire le orme.
Cosa possiamo, allora, imitare di S. Giuseppe? Sicuramente il suo essere giusto, il suo volere sempre realizzare la volontà di Dio. Anche noi come lui dovremmo chiederci in ogni occasione: «Qual è la volontà di Dio in questa situazione?».
Credo sarebbe importante imitarne il rispetto per l’opera che Dio sta compiendo nei nostri fratelli. Sarebbe bello se, come Giuseppe, sapessimo riconoscere l’opera che Dio sta compiendo in chi ci sta accanto e, quindi, ci accostassimo ad essa con delicatezza e ci impegnassimo a non ostacolarla.
Ancora, potremmo imitare la fede di s. Giuseppe, la capacità di fidarsi di ciò che il Signore gli ha rivelato. Quanto spesso il Signore ci fa comprendere ciò che dovremmo fare, ma noi diamo più ascolto alle nostre paure o ad altre considerazioni e mettiamo a tacere la voce di Dio!
Infine, cosa che sempre mi ha affascinato, sarebbe bello imitare il suo essere “uomo di azione” che non si perde in chiacchiere, ma fa come gli viene ordinato. Trovo quest’ultima caratteristica molto “francescana”: il Vangelo sine glossa. S. Francesco, come S. Giuseppe, non cerca “commenti” che rendano “più comoda” la Volontà di Dio, ma fa ciò che capisce e facendo capisce sempre meglio ciò che Dio vuole da lui e per lui.
Guardiamo con amore e ammirazione al Custode della Santa Famiglia e patrono della Chiesa universale. Invochiamone la potente intercessione, ma chiediamo anche la grazia di poterne imitare le virtù per realizzare anche noi il progetto d’amore che il Padre ha per noi.
Fr. Marco

Gesù, il pieno compimento della Legge


«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.» (Mt 5,17-19)

La pagina evangelica odierna costituisce una breve introduzione alla parte centrale del “Discorso della Montagna”. Sappiamo quanto fosse importante ai tempi di Gesù l’osservanza della Legge. Tra i primi cristiani c’era sicuramente chi proclamava che Gesù era venuto come liberatore ad annullare la legge di Mosè; chi sosteneva invece che il suo compito fosse di sotto­scrivere, fino nei minimi particolari, tutto ciò che vi era scritto. Al cuore del Discorso della Montagna, il Maestro afferma di non essere venuto ad abolire la legge o i profeti ma a dare compimento.
Viene riaffermata, quindi, la perenne validità della Legge (Toràh), purché interpretata secondo la volontà autentica di Dio, manifestata da Gesù. Egli è il compimento; bisogna perciò passare attraverso di Lui per entrare nel Regno dei Cieli, perché è in Lui ormai che anche il minimo comandamento prende senso. Il Maestro, infatti, non si attiene alle prescrizioni dei farisei e alla purità cultuale, ma propone una religiosità sincera (la “giustizia” superiore a quella degli scribi e farisei: v. 20), che scaturisce da un rapporto nuovo con Dio e con i fratelli.
La Legge, la giustizia, i profeti, assumono le loro vere dimensioni a partire da Gesù. Nell’antico Testamento queste realtà erano separate: la Legge manifestava il desiderio, la volontà di Dio, come iniziatore dell'alleanza e padrone della storia umana; la giustizia era il cammino dello sforzo dell'uomo per osservare questa volontà inscritta nella legge; l'adempimento dei profeti era l'espressione, nella storia, della fedeltà di Dio, proclamata dai profeti, esegeti della legge. Ora, Gesù dichiara con autorità che è venuto a dare pieno compimento alla legge e ai profeti. Dà compimento alla Legge nel senso che è divenuto Lui stesso Legge: manifestazione della volontà di Dio; Compie ogni giustizia perché realizza pienamente la Volontà del Padre; Dà compimento alle Scritture, alle profezie realizzando ciò che dicono di lui.
«Non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» Il compimento della Legge realizzato da Gesù non consiste solo nella pratica fedele e precisa dei comandamenti di Dio (la “giustizia” dei farisei), ma riguarda soprattutto l'atteggiamento profondo del cuore.
I contemporanei di Gesù (e forse in qualche modo anche noi) attendevano un Messia che portasse il compimento come fine dell’attesa e capovolgimento della situazione presente: la morte cesserà di esistere, i giusti non saranno più sconfitti ma trionfanti. Così lo preannunziavano gli inni che costellano tutta la letteratura apocalittica dell’Antico Testamento (per esempio Is 25,6-9). Il Signore Gesù, invece, compie ogni cosa condividendo la situazione pre­sente arricchita però della Sua presenza, della Sua parola e soprattutto del Suo Amore. Il Signore non ha fatto cessare la morte, ma dopo averla sperimentata lui stesso sulla Croce, l’ha superata con la gloria della Ri­surrezione.
Gesù è venuto a salvarci e a liberarci dalla schiavitù della Legge non abolendola, bensì compiendola in modo superiore, divino. La Legge, infatti, non salva nessuno. L’uomo, dopo il peccato ritiene male il bene e bene il male. Quando se ne accorge, ha già sbagliato e, cercando di giustificarsi, sbaglia ulte­riormente. La trasgressione diviene infine un’abi­tudine, quasi un imperativo, una spinta a fare ciò che è vietato: è la schiavitù del vizio tanto difficile quanto im­portante da ammettere.
Paradossalmente la Legge, con i suoi divieti e comandi, permette al Peccato di esprimere la sua potenzialità negativa, indicandogli cosa fare per articolarsi in peccati. Posta a tutela della vita, a causa del peccato non dà che morte. Dando pieno compimento alla Legge, diventando Lui stesso Legge, e assumendosi tutte le conseguenze delle innumerevoli trasgressioni, Gesù ci ha liberato dalla schiavitù della Legge. Dietro la Legge, che vieta ciò che sa di morte, infatti, c’è il Signore che dà la vita e risuscita dai morti; dietro la parola che condanna la trasgres­sione, c’è il Padre che perdona il trasgressore.
Gesù è il primo che vive l’Amore. La sua giusti­zia non è quella degli scribi e dei farisei: è quella “eccessiva”, sovrabbondante, del Figlio, uguale a quella del Padre, che fa entrare nel Regno. Gesù non è la fine, bensì il fine della Legge e dei profeti: non l’abolizione, ma il compimento. Vive infatti la Parola data a Mosè e richiamata dai Pro­feti: è il Figlio che compie la volontà del Padre.
Gli scribi insegnano la giustizia, i farisei la met­tono in pratica. Gesù insegna che per entrare nel Re­gno non basta conoscere ed eseguire la Legge. È necessaria una giustizia che superi i limiti della Legge: è quella del Padre, che ama, perdona e sal­va gratuitamente i suoi figli. È una giustizia “ecces­siva”, perché l’amore che la muove non conosce misura.
La Chiesa, quindi, non annuncia la Legge, ma il Vangelo, la buona notizia che siamo amati e salvati. Questo non ci autorizza, però, a trasgredire la legge: «Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo!» (Rm 6, 2.15)
«Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. … Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.» (Gv 13,15.34) La morte e resurrezione di Gesù, il Suo mistero pasquale nel quale siamo stati immersi il giorno del battesimo, hanno reso possibile che anche noi portiamo a pieno compimento la legge. I santi hanno percorso questa strada. Hanno compiuto la loro vita: l’hanno portata a pieno compimento.
San Francesco ci ammonisce: «è grande vergogna per noi servi del Signore il fatto che i santi operarono con i fatti e noi raccontando e predicando le cose che essi fecero ne vogliamo ricevere onore e gloria.» (Ammonizione VI) Tutti noi siamo chiamati a compiere la nostra vocazione: conformarci a Cristo pieno compimento della legge e dei profeti. Nessuno è escluso. Il Signore ce lo conceda.
fr. Marco

martedì 17 marzo 2020

Quante volte dovrò perdonare?

«“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”» (Mt 18,21-35)

La Parola di Dio di oggi ci invita al perdono se vogliamo essere perdonati, ci insegna l’esigenza del perdono reciproco. Ci invita a dare al fratello una nuova possibilità. Il perdono, infatti, non è smemoratezza che spesso significa non voler guardare in faccia la realtà. Il perdono non è debolezza, e cioè non tener conto di un torto ricevuto perché chi l’ha commesso è più forte di noi. Il perdono non consiste neanche nel ritenere senza importanza ciò che è grave, o bene ciò che è male. il perdono non è indifferenza.
Il perdono è un atto di volontà e di lucidità, quindi di libertà, che consiste nell’accogliere il fratello e la sorella così com’è, nonostante il male che ci ha fatto, come Dio accoglie noi peccatori, nonostante i nostri difetti. Il perdono consiste nel non rispondere all’offesa con l’offesa, ma nel fare quanto ci dice S. Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12,21). Il perdono consiste nel donare al fratello che ha sbagliato la possibilità di un nuovo rapporto con te, la possibilità quindi, per lui e per te, di ricominciare la vita, di far sì che il male non abbia l’ultima parola.
Settanta volte sette. Un numero simbolico che indica la sovrabbondanza, il perdono illimitato. Pietro forse pensava di essere stato generoso nel perdonare “sette volte”: sette è il numero della pienezza, ma una pienezza finita, che ha un limite. Il Maestro, chiede, invece, che il perdono sia illimitato, come quello che il Padre è disposto a concederci. Interessante, poi, che alcuni codici riportino “settantasette volte” con un chiaro riferimento a Gen 4,24: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette». Lì dove l’uomo cerca la vendetta, il Signore chiede il perdono.
La parabola che segue spiega anche il motivo del perdono: siamo del Signore e a lui dobbiamo rendere conto delle nostre incorrispondenze, delle nostre ingratitudini … dei nostri peccati. Se prendessimo davvero coscienza di tutto l’amore che il Signore ogni giorno ci dona e delle nostre incorrispondenze, non potremmo che riconoscerci nel servo debitore di diecimila talenti che è impossibilitato a restituire. Gesù, nel Padre Nostro, ci ha insegnato a chiedere ogni giorno «rimetti a noi i nostri debiti». È il motivo per il quale cominciamo ogni nostra celebrazione con l’atto penitenziale, chiedendo perdono al Signore di tutti i nostri peccati. «… come noi li rimettiamo ai nostri debitori» Come possiamo, infatti, chiedere al Signore di perdonarci, se noi non siamo disposti a fare altrettanto con il nostro fratello? E che noi sia mo bisognosi di perdono, purtroppo è fuor di dubbio. Ce lo ricorda oggi la prima lettura tratta dal profeta Daniele (Dn 3, 25. 34-43).
Accogliamo, allora l’insegnamento di Gesù e perdoniamoci a vicenda di vero cuore per potere ricevere il perdono del Padre.
Voglio concludere con un aneddoto della vita di S. Pio da Pietrelcina. Si racconta che una volta un giovane andò a confessarsi da Padre Pio. Dopo aver fatto la sua lunga confessione generale, tra lacrime di compunzione e di gioia, il Santo cappuccino gli disse: «Figlio mio, il Signore ti vuol bene, un gran bene: nella sua infinita misericordia, ti ha perdonato tutti i peccati della tua vita passata. Ricordati sempre di questa grazia. Ora va' e fai anche tu lo stesso: sii generoso con il Signore e con gli altri».
Fr. Marco

lunedì 16 marzo 2020

Naaman, la fiducia e la profezia

«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, […]; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». (Lc 4,24-30)

​In questo lunedì della terza settimana di quaresima la Parola del Vangelo ci presenta le Parole di Gesù difronte il rifiuto della “sua gente” nella sinagoga di Nazareth. Il Maestro sa ciò che i presenti hanno nel cuore: non sono minimamente interessati alla relazione con Dio, alla riconciliazione con Lui, all’anno di Grazia (presentati da Gesù nei versetti precedenti); vogliono solo benefici materiali ed immediati: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!” (v 23).
Non a caso Gesù cita due grandi profeti rifiutati perché Israele aveva perso fiducia nel suo Dio. Elia (1Re) viene cacciato e minacciato di morte dal re Acab e sua moglie Gezabele perché Israele non confida più in Dio, ma chiede la fecondità, la prosperità del paese, dalle divinità pagane Baal ed Astarte. Mentre Israele si affida agli idoli, una vedova pagana è capace di credere alle parole del profeta e si affida a Dio per il suo sostentamento: condivide il poco che ha e questo le viene moltiplicato. Eliseo (2Re) viene cercato dal pagano Naamàn per guarire dalla lebbra e, senza neanche uscire dalla tenda per riceverlo, gli manda a dire di bagnarsi nel Giordano; dopo una prima riluttanza (si aspettava riti spettacolari), Naamàn decide di fidarsi e ottiene la guarigione.
Quanto spesso accade pure a noi di cercare segni prodigiosi, miracoli, apparizioni … Quanto spesso anche noi cerchiamo i doni di Dio e trascuriamo il rapporto con Lui, tanto che siamo disposti anche a rivolgerci agli "idoli" (il denaro, gli “amici potenti”, la magia ecc.) pur di ottenere ciò che vogliamo. Anche noi spesso non ci fidiamo di Dio! È per questo che non vediamo le Sue meraviglie nella nostra vita. Meraviglie “quotidiane”, ordinarie, ma che manifestano il Suo prendersi cura di noi.
Dio ci ama, ci ha pensati fin dall’eternità e si prende cura di noi. Ci chiede solo di fidarci di Lui, di non avere paura, e di essere suoi profeti e testimoni nel mondo. Profeti la cui parola deve essere autenticata dallo stesso “segno” che ha contraddistinto quella di Gesù: l’Amore autentico capace di donare tutto. Una carità spesso nascosta, feriale, ma capace di realizzare grandi cose, capace di realizzare pienamente la nostra vita (penso per esempio alla beata Madre Teresa di Calcutta, universalmente considerata santa per il “miracolo” del suo amore agli ultimi).
Gesù ci ha amati e ci ama donando la Sua vita per noi. Il Padre ci ama e ha pensato per noi un progetto di pienezza e di eternità. Fidiamoci.
Crediamo nel Suo amore per noi, accogliamo con fiducia il Suo progetto per la nostra vita, viviamo senza paura la nostra vita in obbedienza alla Sua Signoria: vedremo le meraviglie di Dio e giungeremo alla Pienezza della Vita.
Fr. Marco

sabato 14 marzo 2020

Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità


«Il Signore disse a Mosè: “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”». (Es 17, 3-7)

«… l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.» (Rm 5, 1-2.5-8)

«​“Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”». (Gv 4, 5-42)

La Parola della terza domenica di quaresima ci presenta il simbolo dell'acqua, simbolo potente e fortemente evocatore: immagine di purezza e soprattutto elemento essenziale per la nostra vita. Un simbolo che ci richiama l’origine della nostra vita cristiana: l’acqua del Battesimo per la quale siamo nuove creature.
Nel Vangelo tutto ruota attorno ad un pozzo e a due assetati. Gesù è solo, i discepoli sono andati al villaggio a prendere da mangiare. La donna che va a prendere acqua a mezzogiorno non ha nome, perché è colta a simbolo dell'intera regione e di tutti gli eretici che la Samaria rappresenta.
Gesù si accosta alla samaritana come un assetato. Nel dialogo, però, il Maestro fa emergere la “sete esistenziale” di questa donna, la sete d’amore per estinguere la quale aveva avuto “cinque mariti”. Proprio per venire a darci l’acqua viva, che sola è capace di estinguere la nostra sete, Gesù viene in mezzo a noi.
Come Israele nel deserto, infatti, l’umanità soffre la sete. Una “sete di vita”, “sete di senso”, la “sete d’amore” che, anche senza esserne consapevoli, è sete della vitale relazione con il Padre. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio che è Amore (cfr. 1Gv 4,8), ha “sete d’amore”: ha bisogno di amare ed essere amato per essere felice. Per estinguere questa sete, l’uomo spesso scava “cisterne screpolate” (cfr. Ger 2,13) credendo di potersi “dissetare” possedendo cose e persone. Ma, come dice S. Agostino, il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio. Solo la relazione con Lui può donarci quella Vita cui aneliamo.
Può capitare anche a noi, come Israele provati dalla sete e smarriti nel deserto della vita, di dubitare dell’amore di Dio e mormorare: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (I lettura).
Per dare una risposta a questo interrogativo esistenziale, oggi Gesù si mostra a noi mendicante del nostro amore. Sulla Croce dirà: «Ho sete»; oggi alla samaritana dice: «Dammi da bere».  Proprio per estinguere la Sua e la nostra sete, Gesù viene ad aprirci la “sorgente di acqua viva”. Non è a sproposito che, dopo che Gesù ha mostrato alla donna la sua “sete” rimasta insoddisfatta dai “cinque mariti”, la samaritana lo interroga sul luogo in cui adorare Dio. La risposta di Gesù le indica dove “dissetarsi”: «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». È Lui la Sorgente, è Lui la Verità, colui che ci rivela la vera immagine del Padre, colui che viene a donarci lo Spirito che in noi grida: “Abbà, Padre” (Cfr. Rm 8, 15 e Gal 4,6). È Lui la vera “roccia” che percossa dalla lancia sulla Croce fa scaturire la Grazia dei Sacramenti mediante i quali veniamo sempre più conformati a Lui.
«I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». Trovo particolarmente attuale questo versetto nel momento storico in cui, per contrastare il diffondersi dell’epidemia del COVID -19, ci è impedito di celebrare assieme. In questo versetto viene richiamato il “culto spirituale”, quello reso in forza dello Spirito Santo che, dopo l'ascensione di Cristo, dimora sempre con i discepoli. È un culto nella Verità, cioè conforme alla Volontà del Padre espressa in Cristo. Non necessita più di un “tempio di mura” (cfr Gv 2,20-21), perché il nuovo Tempio è il Corpo di Cristo, la Chiesa e al suo interno ogni Cristiano reso conforme a Cristo nel Battesimo. Il culto spirituale non è staccato dalla vita quotidiana che, anzi, è il suo “luogo proprio”: l'obbedienza al messaggio d'amore di Cristo, facendo di ogni nostro gesto un’offerta d’amore di sé stessi al Padre ed ai fratelli, è il nuovo culto spirituale in cui “tempio”, “offerta” e “sacerdote” coincidono in Cristo e nei suoi discepoli a Lui resi conformi nel Battesimo. È ciò che ci raccomanda S. Paolo nella Lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.» Rm 12,1
Rinati in Lui nel Battesimo, resi conformi al Figlio amato, adesso siamo “in pace con Dio” (II lettura). In noi è stata riversata l’acqua viva dello Spirito. Siamo divenuti tempio dello Spirito. Adesso è la nostra vita, chiamata a corrispondere alla Grazia per essere sempre più conforme a Cristo, il luogo in cui adorare il Padre.
Fr. Marco.