venerdì 26 febbraio 2021

Il Padre non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi.

 «…  Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”» (Gen 22,1-2.9.10-13.15-18)

«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-34)

« … E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. … Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.» (Mc 9,2-10)

La liturgia della Parola della seconda domenica di quaresima, continuando il percorso spirituale iniziato domenica scorsa nel deserto della tentazione con Gesù, ci conduce sul Tabor, il monte sul quale il Maestro ci fa intravedere la fine del cammino: la gloria della Resurrezione.

L’evangelista Marco introduce la pericope odierna con una notazione temporale, omessa dalla liturgia, che collega la trasfigurazione agli eventi che la precedono: «sei giorni dopo». Nei versetti precedenti l’evangelista aveva raccontato la “confessione” di Pietro, il primo annunzio della passione e l’enunciazione, da parte del Maestro, delle “esigenze del discepolato” (Mc 8, 27-38). Ora, sei giorni dopo questi eventi e in conseguenza di essi, Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre testimoni privilegiati, su un alto monte e mostra loro la sua gloria.

È il monte a fare da immediato collegamento tra la prima lettura e il Vangelo. Abramo sale sul monte con Isacco, il figlio amato, per sacrificarlo in obbedienza al Signore. Gesù, invece, sul monte è trasfigurato e conversa con Mosè ed Elia (rappresentanti la Legge e i Profeti). L’evangelista Marco non riferisce l’argomento della conversazione. Solo Luca ci dice che «parlavano del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme» (Lc 9,31) cioè della sua Passione, Morte e Resurrezione.

Insieme al tema della glorificazione viene introdotto il tema della Passione: per giungere alla gloria che oggi Gesù ci fa intravedere, è imprescindibile passare per la Croce accolta e abbracciata in obbedienza e per amore. Una donazione d’amore che, contrariamente a ciò che accade per Isacco, giunge fino alla fine (Cfr. Gv 13,1), fino al dono della vita. Come ci ricorda la seconda lettura di oggi, infatti: il Padre non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi.

Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo! La manifestazione della Gloria di Dio giunge al suo culmine con la “nube” e la “voce dal Cielo” che, richiamandosi a quella del battesimo (Mc 1,11), dà inizio alla seconda parte del Vangelo di Marco. La Voce, infatti, conferma e completa la confessione di Pietro (Mc 8,29) ed esorta all’ascolto dell’insegnamento di Gesù e, quindi, alla sua sequela. L’oggetto di tale ascolto è costituito da ciò che precede e segue immediatamente: l’annuncio della Passione e l’esigenza della sequela sulla via della Croce vissuta come donazione d’amore.

Questi è il Figlio mio, l’amato. Vorrei sottolineare questo amore che il Padre attesta verso il Figlio che è incamminato sulla via della Croce e al quale la Croce non verrà risparmiata. Quante volte, quando ci troviamo nella sofferenza, prestando ascolto alle insinuazioni del maligno, abbiamo dubitato dell’amore del Padre! 

«Chi di voi al figlio che gli chiede un pane, darà  una pietra? … Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a quelli che gliele chiedono!» (Mt 7,9-11). Il fatto che il Padre permetta che attraversiamo la sofferenza non deve farci dubitare del Suo amore. La Croce, la donazione della vita per Amore, infatti, è imprescindibile, è l’unica Via per giungere alla gloria della Resurrezione.

Se anche noi, seguendo il Maestro, sapremo prendere ogni giorno la nostra Croce e donare la vita per amore facendo delle nostre sofferenze un’offerta, allora, divenuti conformi a Cristo, anche per noi il Padre potrà dire “Questi è il Figlio mio, l’amato”.

… non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Continuiamo, allora il nostro cammino con la consapevolezza che il nostro Maestro è con noi. Lui è il Signore, il Figlio amato; anche se sceglie di nascondere la Sua divinità, anche nell’ordinarietà della nostra vita, non dubitiamo della Sua vicinanza e percorriamo la strada che Lui ci ha mostrato.

Fr. Marco

sabato 20 febbraio 2021

Quaranta giorni nel deserto tentato da Satana

«Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra.» (Gen 9,8-15)

«Cristo … nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.» (1Pt 3,18-22)

«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.» (Mc 1,12-15)

​La Parola di Dio della prima domenica di Quaresima ci conduce nel deserto della tentazione con Gesù. Il deserto è il luogo dell’intimità con Dio (per es. Os 2,16), ma è anche il luogo della tentazione. È nel deserto, infatti che, sperimentando la propria debolezza, l’uomo può comprendere ciò che è essenziale per la sua vita.

Nella prima lettura tratta dal libro della Genesi, abbiamo ascoltato dell’alleanza che Dio ha stabilito con Noè e, in lui, con l’umanità intera, dopo la distruzione del diluvio causato dal peccato dell’uomo. È un nuovo inizio, una nuova alba del mondo.

Anche s. Pietro, nella seconda lettura, ci parla di un nuovo inizio: i battezzati, rinati dalle acque di cui quelle del diluvio erano immagine, sperimentano la salvezza che li introduce in una nuova vita.

La pagina del Vangelo, infine, segue immediatamente il racconto del battesimo di Gesù al Giordano. La Voce dal Cielo aveva proclamato Gesù il Figlio prediletto in cui il Padre si è compiaciuto; e subito lo Spirito lo sospinse nel deserto: Gesù ha bisogno di restare in intimità con il Padre.

Nel deserto rimase quaranta giorni tentato da Satana. Immediato è il riferimento ai quarant’anni di Israele nel deserto. Quaranta indica il tempo della preparazione attraverso la prova. Israele, messo alla prova, cade nella mormorazione per la mancanza di cibo, di acqua ecc. Anche Gesù nel deserto è tentato, ma, restando unito al Padre e accogliendo pienamente la Sua volontà, vince la tentazione. L’evangelista Marco ci presenta Gesù come il Nuovo Adamo: in armonia con il creato (le bestie selvatiche) e servito dagli angeli perché obbediente al Padre.

Vorrei soffermarmi brevemente sul valore della tentazione. In Deuteronomio 8,2 si parla di Israele condotto nel deserto e messo alla prova per sapere quello che ha nel cuore. Anche nel racconto sapienziale di Giobbe (vedi 1,6-12) al satana (l’avversario, l’accusatore) viene concesso di mettere alla prova Giobbe per scoprire se realmente ama Dio o solo i doni di Dio. La tentazione, allora se da una parte ci mette in pericolo di cadere nel peccato, dall’altra ha il prezioso valore di farci scoprire chi siamo, cosa abbiamo nel cuore, di cosa siamo capaci sia in positivo che in negativo; ci dona la misura del nostro amore a Dio, ci fa scoprire a che punto siamo nel nostro cammino spirituale. È una funzione fondamentale: come il viandante deve fare bene il punto della sua posizione per potere procedere senza perdersi, così noi dobbiamo scoprire cosa abbiamo nel cuore, chi siamo realmente, per potere procedere verso l’incontro con il Padre e realizzare realmente la nostra Vita. Per questo Gesù vero Dio, ma anche vero uomo, ha voluto come noi essere tentato, attraversare la prova.

 Dopo che Giovanni fu arrestato. Da notare che l’evangelista Marco, per indicare l’arresto di Giovanni, usa il termine “consegnato” alludendo in maniera profetica, fin dagli inizi del ministero pubblico, alla Passione di Cristo. Gesù, vinta la tentazione e avendo accolto pienamente la volontà del Padre, inizia il suo ministero pubblico: annunzia il “compimento del tempo”, l’adempimento delle promesse, l’avvento del Regno.

Per entrare nel Regno, nell’alleanza definitiva che il Padre vuole stabilire con l’umanità intera, è necessario, però, convertirsi e credere, o meglio: convertirsi per credere alla buona notizia della salvezza; fidarsi del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e rinunciare ai nostri idoli: l’avere, il potere, l’illusione di salvarsi con le proprie forze …

È per questo che all’inizio di questa quaresima anche noi veniamo chiamati ad “entrare nel deserto”, a vivere un periodo di più intensa intimità con il Padre e a rinunciare a ciò che ci allontana da Lui o pretende di sostituirlo nel darci la Vita. Siamo chiamati a sperimentare che solo Lui è capace di darci ciò che veramente ci sazia.

Fr. Marco.

mercoledì 17 febbraio 2021

Ritornate a me con tutto il cuore

Il tempo della Quaresima, tempo forte di conversione, inizia il Mercoledì delle Ceneri con l’esortazione: «Convertiti e credi al Vangelo». [L’altra formula: «Ricordati che sei polvere e polvere tornerai» invita a guardare al fine ultimo della nostra vita così da orientarla ad esso].

Questo invito alla conversione è ripreso dalla prima lettura tratta dal libro del profeta Gioele: «Ritornate a me con tutto il cuore … laceratevi il cuore e non le vesti» (Gl 2,12). Il verbo ebraico Shub (“Ritornate”), infatti, è il verbo della conversione: veniamo invitati a tornare sui nostri passi, a cambiare strada, ad abbandonare le vie del peccato per tornare sulle strade del Signore. Prendendo coscienza che le strade che abbiamo intrapreso portano lontano dalla Vita, sentiamo la necessità di ritornare sui nostri passi.

Per meglio comprendere questa necessità è bene soffermarci brevemente a riflettere sulla realtà del peccato come ce la presenta la Parola di Dio. In ebraico esistono vari termini che traduciamo “peccato”, ma la parola  più comunemente tradotta con “peccato” – khata – letteralmente significa “smarrirsi”, “sbagliare direzione” (anche “fallire” o “mancare il bersaglio”). Lo stesso termine che indica i peccatori, infatti, indica pure gli smarriti: coloro che avendo abbandonato le piste carovaniere, che vanno da un’oasi all’altra nel deserto, si sono persi e sono destinati a morire di sete. Da qui l’urgenza di tornare sui propri passi, di convertirsi, per seguire la via della Vita, la sola che può portarci alla Fonte d’acqua viva.

Ritornate a me con tutto il cuore. La conversione che ci chiede il Signore, infatti, non può essere solo esteriore, apparenza, ma deve coinvolgere tutta la nostra realtà. Troppo spesso viviamo nel compromesso e ci ritroviamo frammentati in molteplici cose: proviamo a seguire più direzioni contemporaneamente cambiando continuamente direzione; siamo abbagliati da molteplici attrattive e in tal modo ci smarriamo. Oggi il Signore ci chiede di unificare tutta la nostra vita ponendola sotto la Sua Signoria. Perché tale conversione sia autentica e ci conduca sulle vie della Vita, essa deve essere libera  dalla ricerca del “proprio Io”, deve ricercare solamente la gloria di Dio.

È quello cui ci invita il Vangelo di oggi: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro …» (Mt 6,1). Nel riproporre i tre pilastri della spiritualità giudaica, Gesù, istruisce i suoi discepoli sul modo in cui praticarli perché portino frutti duraturi. Elemosina, preghiera e digiuno, infatti, trovano il loro valore più alto nel decentrare colui che le pratica.

Nel praticare l’elemosina sono portato ad accorgermi del bisogno del fratello, a usargli misericordia, dandogli, se non la precedenza, almeno la stessa attenzione che darei al mio bisogno. Praticando l’elemosina, inoltre, affermo con forza e fattivamente la convinzione che non saranno le cose che accumulo a darmi quella pienezza di vita che desidero; un’affermazione che è al contempo una liberazione dalla schiavitù delle cose.

La preghiera mi porta a decentrarmi perché mi fa riconoscere che non sono solo nella quotidiana fatica, ma ho un Padre che mi ama e che provvede a me; a Lui posso quindi chiedere aiuto e conforto, Lui devo ringraziare per ciò che mi concede ogni giorno e in Lui devo porre la mia filiale fiducia.

Il digiuno, infine, mi decentra liberandomi dalla schiavitù delle “passioni”: esercitandomi a dire no alla necessità del cibo, mi fortifico per resistere alla spinta delle mie disordinate passioni e imparo, passo dopo passo, a rinnegare me stesso mettendo Dio al primo posto.

Queste opere di giustizia, questi esercizi penitenziali, tuttavia, perdono ogni valore se sono fatti al fine di essere ammirati: non ottengono più lo scopo di decentrarmi, ma mi centrano sempre più in me stesso nutrendo il mio Io e la mia Immagine.

Viviamo bene questo “momento favorevole”, l’oggi della salvezza (cfr. 2 Cor. 6,2),  e torniamo al Signore Dio nostro «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore» (Gl 2,13).

Buona Quaresima. fr. Marco

venerdì 12 febbraio 2021

«Se vuoi, puoi purificarmi!»


«Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,1-2.45-46)

« … così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.» (1Cor 10,31-11,1)

«Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.» (Mc 1,40-45)

​La Parola di Dio della sesta domenica del tempo ordinario, raccontandoci la guarigione di un lebbroso, ci presenta ancora Gesù come il compimento delle attese messianiche. Guarire la lebbra, infatti, era uno dei segni per riconoscere il Messia («I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» Mt 11,5).

La prima lettura, tratta dal libro del Levitico, ci presenta tutta la carica simbolica della lebbra: non è una malattia come le altre, ma è considerata una “piaga mandata da Dio” a causa dei peccati e, per questo, è una malattia che esclude dalla comunione col popolo di Dio. La lebbra è considerata l’immagine dell’effetto del peccato: la morte in una parvenza di vita. Proprio perché così strettamente legata al peccato, solo Dio può guarire dalla lebbra e solo i sacerdoti possono attestare l’avvenuta guarigione. Il lebbroso, inoltre, era obbligato a gridare “impuro, impuro!” e ogni pio israelita si guardava bene dall’avvicinarsi ad uno di essi dato che avere qualsiasi contatto con un lebbroso era causa di impurità.

Nel Vangelo di oggi, tuttavia sia il lebbroso che Gesù contravvengono a questa norma rituale: il lebbroso, testimoniando una grande fede, si inginocchia davanti a Gesù riconoscendolo come il Signore che, se vuole, può purificarlo. Gesù, senza fare alcun conto della propria incolumità o del fatto che sarebbe diventato ritualmente “impuro”, osa toccare il lebbroso. Anche in questo comportamento il Vangelo di oggi ci svela chi è Gesù: è il Messia atteso, ma è soprattutto il Signore misericordioso che “non è venuto per i sani, ma per i malati”; è il Signore che si muove a compassione per le miserie dell’umanità.

Gesù ci è mostrato, inoltre,   come il “Servo di YHWH” che si è «caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori» (Is 53, 4). Dopo la guarigione del lebbroso, infatti, la situazione iniziale appare rovesciata: inizialmente Gesù è il maestro che va nei villaggi e insegna, mentre il lebbroso è escluso dal consesso umano e costretto a tenersi lontano dai villaggi. Alla fine della pericope, invece, il lebbroso guarito va in giro annunziando la gloria di Dio, mentre Gesù è costretto a restare fuori dai villaggi e in luoghi deserti.

«Se vuoi, puoi purificarmi!» Facendo nostra la preghiera del lebbroso del Vangelo, impariamo da lui a riconoscerci anche noi bisognosi di purificazione e a riporre la nostra fiducia nel Signore che può e vuole purificarci, liberarci dal nostro peccato. Impariamo dal Signore, come ci invita a fare S. Paolo nella seconda lettura, a mettere da parte, se necessario il nostro interesse, per andare incontro al fratello bisognoso. Credo che soprattutto oggi, in questo contesto di pandemia, sia concreto il pericolo di scivolare oltre la legittima e doverosa prudenza, in una paura che ci fa allontanare dall’altro. Spinti dalla paura che ci fa preoccupare solo di noi, permettiamo al nostro peccato di chiudere il nostro cuore nell’aridità del deserto.

S. Francesco, l’alter Christus, nostro serafico padre, seppe davvero seguire le orme del Maestro nell’atteggiamento di misericordia verso le miserie umane e soprattutto verso i lebbrosi. È noto, dalle biografie il “bacio al lebbroso”. Nel suo Testamento lo stesso Francesco ci spiega cosa lo ha mosso: « … quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia». Parafrasando S. Paolo nella seconda lettura di oggi, oso dire: facciamoci imitatori di S. Francesco come lui lo fu di Cristo. Così facendo, anche noi, lebbrosi guariti e peccatori purificati, diventeremo annunziatori e testimoni della gloria di Dio e contribuiremo alla venuta del Regno.

 Fr. Marco

sabato 6 febbraio 2021

Il libero servizio dei figli di Dio

«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? … Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene» (Gb 7,1-4.6-7)

« … pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.» (1Cor 9,16-19.22-23)

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. … Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni … Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. … andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.» (Mc 1,29-39)

Nelle prime quattro domeniche del tempo ordinario, il Vangelo ci ha invitati alla conversione e ad accogliere Gesù come maestro e liberatore. In questa quinta domenica la Parola ci presenta il motivo per fare tutto ciò: perché la  nostra vita abbia un senso pieno.

Nella prima lettura ascoltiamo Giobbe che lamenta la mancanza di senso di una vita tutta dedita ad un “servizio mercenario” il cui salario risulta sempre insufficiente. Una vita vana che si riduce ad un soffio: breve, inconsistente e che non lascia traccia. Ha senso vivere una vita così?

La pagina evangelica odierna è tratta  dall’ultima parte di quella sezione del Vangelo di Marco che potremmo chiamare il “sabato di Cafarnao”: una giornata tipo in cui Gesù insegna, guarisce e prega.

Il Signore Gesù, infatti, è venuto a liberarci dalla schiavitù del peccato e delle passioni che ci costringono a spendere i nostri giorni per ciò che non è capace di “saziarci”. È venuto a donarci una vita abbondante e una gioia piena (cfr. Gv 10,10 e Gv 15, 11). Lo fa principalmente offrendoci se stesso come esempio di colui che si prende cura della vita in tutte le sue espressioni: insegnando, guarendo, liberando dai demoni; dando a tutti la Speranza perché gli uomini passino dalla schiavitù di un servizio fatto per costrizione (prima lettura) alla libertà del servizio dei figli, un servizio fatto per amore.

Nei primi versetti della pagina evangelica ascoltiamo il racconto della guarigione della suocera di Pietro che viene liberata dalla schiavitù della malattia e fatta “alzare”. Da notare che il Vangelo usa qui lo stesso verbo della resurrezione: la suocera di Pietro viene fatta “risorgere” dalla schiavitù della malattia; adesso può liberamente “servire”, fare della propria vita un dono sull’esempio di Colui che “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Cfr Mc 10,45).

È di questo stesso servizio che ci parla S. Paolo nella seconda lettura: tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. È evidente che per Vangelo qui si intende l’opera della redenzione di Cristo e il Regno che Egli è venuto ad instaurare. L’apostolo non serve come un mercenario, in funzione della ricompensa, ma per amore di Cristo e desiderando solo di partecipare a quel Regno che contribuisce ad instaurare. Quanta differenza con coloro che, ancora schiavi della logica del mondo e del peccato, si dicono cristiani e vivono la loro religiosità per ottenere da essa la protezione dalle intemperie della vita! O peggio, con coloro che usano del loro ministero nella Chiesa per ottenerne benefici!

… si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. L’esempio del Maestro, infine, ci insegna anche l’importanza della preghiera. Perché il nostro servizio possa essere un servizio filiale, perché possiamo riconoscerci ed essere riconosciuti come figli di Dio, è fondamentale la relazione con il Padre: l’ascolto della Sua Parola e il dialogo con Lui.  Una vita che non abbia un orizzonte di trascendenza che trascuri il suo legame con il Padre, difficilmente sarà una vita piena di senso, ma facilmente cadrà nella inconsistenza lamentata da Giobbe.  

Accogliamo, allora, questo invito di Cristo a farci ministri (servi) della vita in tutte le sue espressioni tutelandola soprattutto dove è più debole. Impariamo a dare un senso alla nostra vita facendone un dono a Dio e ai fratelli: è l’unico modo perché essa cessi di essere “come un soffio”, e diventi invece Vita piena che dura per l’eternità.

Fr. Marco