domenica 31 ottobre 2021

Una moltitudine immensa, che nessuno può contare

 « … ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7, 2-4.9-14)

«… noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1Gv 3,1-3)

«Beati i poveri in spirito, … Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.» (Mt 5, 1-12)

La Parola di Dio della solennità di Tutti i Santi ci presenta una moltitudine immensa: sono tutti i nostri fratelli e sorelle nella fede che hanno realizzato la loro vita conformandosi a Cristo. Non solo i santi che la Chiesa ha canonizzato, cioè posti a modello, misura (canone), per noi, ma anche quelli anonimi che nel silenzio della loro quotidianità hanno saputo vivere la logica delle beatitudini e non si sono conformati alla mentalità del mondo.

Questa solennità è soprattutto per loro. Ma è anche per noi, per ricordarci che siamo tutti chiamati alla santità, alla beatitudine, a vivere secondo la dignità di figli di Dio facendo emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio per eccellenza. 

La salvezza appartiene al nostro Dio … così grida la moltitudine immensa riconoscendo che la realizzazione della nostra vita, la santità, è prima di tutto un dono gratuito di Dio e non merito dei nostri sforzi. Ciò che il Padre chiede a noi è solo di accogliere questo dono e farlo fruttificare. Ecco dove entra in campo il nostro impegno: nel fare sì che la Grazia non venga vanificata; nell’essere pronti a comprendere e fare la volontà di Dio nell’attimo presente; nel rifiutare la logica dell’egoismo, dell’edonismo, del potere e dell’avere, per assumere, invece, la logica dell’altruismo, dell’amore gratuito e disinteressato che si fa servizio e perdono.

…  Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione … ; Beati i perseguitati per la giustizia …  vivere come Figli di Dio, però, conformarsi alla logica del Beatitudini, non è mai accetto al mondo la cui logica è totalmente altra. Per questo i santi di tutti i tempi hanno affrontato la persecuzione. A volte si è trattato di persecuzione violenta come quella di Diocleziano (cui si riferisce l’autore dell’Apocalisse) o quella subita dai martiri di tutti i tempi (ancora oggi tanti  nostri fratelli subiscono il martirio, per esempio in Siria, Iraq e Nigeria), Più spesso, però, soprattutto qui in Occidente si tratta di una persecuzione subdola tesa a screditare la Chiesa e i suoi ministri; ancora più frequente è l’insinuazione che il nemico dell’umanità ci mette nel cuore, anche attraverso i nostri fratelli, che “la santità non fa per noi”, “che non c’è niente di male a scendere a compromessi … d’altronde, bisogna aggiornarsi!”; “Se Dio veramente ti amasse, non permetterebbe questa sofferenza …” ; tutte cose che ci allontanano dalla nostra piena realizzazione e ci riducono a vivere una vita senza senso, una vita che non è Vita tanto che non di rado sentiamo i nostri fratelli lamentarsi: “Ma è vita questa?”. Guardando all’esempio dei santi, non temiamo la persecuzione del mondo che, non avendo riconosciuto il nostro Maestro, non potrà certo accettare la vita secondo i Suoi insegnamenti, ma perseveriamo nell’adempimento della Volontà di Dio, nell’accoglienza della Sua Grazia, e giungeremo a quella Gioia piena che il Signore è venuto a regalarci.

In questa giornata della santificazione universale, infine, voglio riportarvi un pensiero di San Paolo VI: «Siate santi in tutta la vostra condotta … L’esortazione … che vi rivolgiamo, non è fuori luogo, non è iperbolica; e non è anacronistica rispetto allo stile di vita, che il costume moderno impone a tutti; la santità non è cosa né di pochi privilegiati, né di cristiani dei tempi antichi; è sempre di moda; vogliamo dire è sempre programma attuale ed impegnativo per chiunque voglia chiamarsi seguace di Cristo.» (Udienza Generale 7 luglio 1965) Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 29 ottobre 2021

Il primo è: “Ascolta, Israele!

 

«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, ... tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. … Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.» (Dt 6,2-6)

«Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.» (Eb 7,23-28)

«Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». (Mc 12,28-34)

La Parola di Dio della trentunesima domenica del Tempo Ordinario, ci presenta lo spirito di tutta la legge e i profeti: la relazione con Dio. 

«Ascolta … Amerai …» Il primo e fondamentale comandamento, che compendia tutta la legge e i profeti è, infatti, vivere la relazione d’amore con l’unico Signore, l’unico vivo e vero, l’unico capace di salvarci, di donarci la Vita. Mi ha colpito, meditando questa Parola, la sottolineatura dell’unicità di Dio.

«Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» Quante volte mettiamo la nostra vita sotto altre “signorie”: il lavoro, il benessere, la casa … Non di rado, per queste realtà elevate ad idoli sacrifichiamo noi stessi e ciò che di più prezioso abbiamo (tempo, affetti …). Da questi idoli cerchiamo una Vita che però non possono darci. Più spesso ancora è il nostro Io a volersi ergere a signore: abbiamo la pretesa di essere signori della nostra vita, di decidere da soli ciò che è bene e ciò che è male. Spesso vogliamo che anche i fratelli si pieghino alla nostra signoria: vogliamo comandare, sottomettere gli altri a noi. Nessuno, tuttavia, può darsi da solo la Vita che cerca («… chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?» Mt 6,27).

Solo il Signore nostro Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, può darci la Vita. Ecco allora l’esigenza di vivere sotto la sua Signoria, di ascoltare e mettere in pratica i suoi comandamenti. Non da schiavi, però, ma da figli che si sanno amati dal Padre e che corrispondono a questo amore. Un amore “assoluto”, pieno, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza, che non lascia spazio ad altri idoli, che detronizza il nostro Io.

È possibile, però, corrispondere all’immenso e gratuito amore di Dio? Un Amore che ci ha pensati e voluti dall’eternità, che ci ha chiamati all’esistenza, che ci ha salvati donando tutto se stesso sulla croce, che ogni giorno si consegna nelle nostre mani nell’Eucarestia … Nessuno può dare a Dio il corrispettivo per i suoi immensi doni. Ecco perché Gesù oggi aggiunge una seconda parte al comandamento dell’amore: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».

Solo amando i fratelli che il Signore mi mette accanto, amandoli come “un altro me stesso”, è possibile amare il Dio vivo e vero. Amando i fratelli che mi stanno accanto, infatti, amo il Padre che li ha pensati e creati per amore; amo il Figlio che li ha salvati dando se stesso per ciascuno di essi e ha voluto identificarsi con i più piccoli e fragili (« … l’avete fatto a me» Cfr. Mt 25,40); amo lo Spirito Santo che tutti ci pervade e ci rende un solo corpo.

Se faremo così, attingeremo alla Sorgente della Vita, avremo una Vita che il  mondo non conosce e non può darci: vivremo la Vita dei risorti e non avremo più alcun timore. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 22 ottobre 2021

«Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»

«“Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il  cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla.» (Ger 31,7-9)

«Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: “Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek”». (Eb 5,1-6)

«Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.» (Mc 10,46-52)

​ La liturgia della Parola della trentesima domenica del tempo ordinario, si apre con un messaggio di speranza: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Oggi infatti Gesù ci viene presentato ancora una volta come il salvatore, colui che viene a cercare e salvare “il cieco e lo zoppo”, quanti sono ridotti a mendicare la vita. Il Salvatore viene a radunare tutta l’umanità per farla entrare nella pienezza della Vita.

Nella pagina di Vangelo ascoltiamo che Gesù sta recandosi a Gerusalemme, la città santa simbolo della comunione con Dio, e attraversa Gerico, la città simbolo di peccato e della resistenza a Dio (Cf. Gs 6,1-21), consegnata da Dio a Giosuè. Non è un caso se nella parabola “del buon samaritano” il tale incappato nei briganti sta scendendo da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,25-37): ritengo che si possa interpretare Gerico come la città dell’autoaffermazione contro Dio.

Mentre Gesù sta uscendo da Gerico, Bartimeo, cieco e ridotto a mendicare lungo la strada, lo riconosce e comincia a chiamarlo con il titolo messianico di Figlio di Davide. Bartimeo è simbolo dell’umanità che, volendo affermare se stessa resistendo a Dio, si trova cieca, lontana dalla Luce della Vita, e mendicante. Pur nella sua cecità, tuttavia, quest’uomo riconosce in Gesù l’unico che può salvarlo, che può strapparlo dalla sua miseria e restituirgli la Luce che aveva perduto: « … che io veda di nuovo!».

«Coraggio! Àlzati, ti chiama!» Se Bartimeo può riconoscere Gesù, però, è perché per primo Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, come dirà Luca nel racconto di Zaccheo (Lc 19,1-10). All’uomo nella miseria Gesù chiede di farsi coraggio e, lasciando le proprie misere sicurezze (la coperta), rispondere alla chiamata per lasciarsi risollevare dalla propria condizione e vivere la vita dei risorti (alzarsi è il verbo della resurrezione).

«Che cosa vuoi che io faccia per te?» Ancora una volta Gesù si mostra come colui che non è venuto per farsi servire ma per servire con quel servizio regale che è proprio di Dio perché proprio dell’Amore. Con questa domanda, nondimeno, Gesù vuole anche che Bartimeo completi la sua “confessione di fede”: lo aveva riconosciuto figlio di Davide, quindi il messia atteso, e rabbunì (mio maestro); ora manifestando la sua richiesta deve riconoscerlo Signore. Solo Dio, infatti, avrebbe potuto restituirgli la vista. Chiedere a Gesù di farlo tornare a vedere, equivale quindi a riconoscerlo Dio e manifestare fiducia in lui.

«Va’, la tua fede ti ha salvato» A questo punto, guarito, Bartimeo che ha incontrato la Luce vera che viene nel mondo (cf. Gv 1,9), non può che mettersi gioiosamente alla sequela.
Anche noi siamo invitati quest’oggi a fare lo stesso percorso: riconoscendoci bisognosi della misericordia del Padre, siamo chiamati a lasciare le nostre misere sicurezze a cui tanto facilmente attacchiamo il cuore, e fidandoci di Gesù, metterci alla Sua sequela e vivere la Vita dei Risorti. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 15 ottobre 2021

Chi vuole diventare grande si faccia servo

«Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.» (Is 53,10-11)

« … non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.» (Eb 4,14-16)

«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,35-45)

​Questa domenica, XXIX del tempo ordinario, la Parola di Dio ci fa crescere nella conoscenza di Cristo, ci rivela qualcosa del nostro Maestro perché noi possiamo conformarci a Lui.

Nella I lettura ascoltiamo un passaggio fondamentale del Carme del Servo Sofferente (Is 52,13-53,12): un uomo che, accogliendo in sé la volontà divina, si fa solidale con i peccatori assumendo su di sé la conseguenza del loro peccato. In conseguenza di ciò ottiene la salvezza per sé e per coloro che per i quali intercedeva («per le sue piaghe siamo stati guariti»). È facile per noi vedere in quest’uomo una profezia di Cristo: è Lui il Servo che fa della Sua vita un offerta, che accoglie su di sé tutto il male del mondo inchiodandolo ad una croce perché a noi possa venire la Vita.

Nella pagina del Vangelo, mentre Gesù si sta dirigendo a Gerusalemme e istruisce i discepoli su quello che dovrà subire, assistiamo alla “vanagloriosa” richiesta di Giacomo e Giovanni: incapaci di comprendere ciò che Gesù sta annunciando, chiedono al Maestro un posto di gloria. Il tono della richiesta sembra quasi di pretesa: «vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».

Davanti a tale richiesta, contrariamente agli altri dieci (forse altrettanto “vanagloriosi”), Gesù non si scandalizza, ma orienta correttamente il desiderio di grandezza che emerge dal cuore dell’uomo, insegna ancora una volta, prima con l’esempio e poi con la parola, che il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire …: «Che cosa volete che io faccia per voi?». La risposta del Maestro è quella di chi, pienamente libero, si mette al servizio in maniera regale.

«… chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore …». Veramente grande, infatti, non è chi siede per farsi servire, chi domina i fratelli soggiogandoli, chi viene apertamente ricoperto di onori; veramente grande è, invece, colui che si pone al servizio dei suoi fratelli, chi ama gratuitamente, chi è capace di accogliere e perdonare le miserie dei propri fratelli facendosi solidale con loro. Veramente grande, infine, è colui che imita il Maestro il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Un’offerta che ancora si perpetua nel sacramento dell’Eucarestia: Gesù si fa pane spezzato per noi e ci invita ad unire la nostra vita alla Sua nell’offerta per la salvezza del mondo.

La “grandezza” proposta secondo la logica del Vangelo è una grandezza che il mondo non può capire. Una grandezza ardua: ci chiede di morire a noi stessi, di anteporre al nostro Io l’amore per Dio e per fratelli. Per questo oggi l’autore della Lettera agli Ebrei viene a confortarci: il nostro Maestro conosce per le nostre debolezze e ci chiede solo di attingere alla Sua forza, alla Grazia che ci raggiunge nei sacramenti, per conformarci a Lui e giungere a quella gloria che da sempre ha preparato per noi.

Fra Marco

sabato 9 ottobre 2021

Gesù, fissando lo sguardo su di lui, lo amò

 


«Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto» (Sap 7,7-11)

«Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.» (Eb 4,12-13)

«Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” … “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» (Mc 10,17-30)

La parola di Dio della XXVIII Domenica del TO, ci invita ad indirizzare i nostri cuori verso le cose eterne che sole possono saziare la nostra “fame di vita”.

La pagina evangelica di oggi ci presenta un “tale” che sembra avere tutto quello che si potrebbe desiderare: possiede molti beni ed una vita “ricca di virtù” di cui va fiero («queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»); quest’uomo, tuttavia, non è un uomo felice, realizzato, sente che gli manca qualcosa: cerca la “Vita eterna”, quella Vita Piena che non avrà mai fine e che sa di dovere attendere come un dono (parla di “ereditare”).

Credo che non sia un caso se l’evangelista non identifica in alcun modo questo tale: incarna le attese di ogni uomo la cui speranza ha bisogno di orizzonti ampi e non può ridursi al solo orizzonte materiale. La stessa speranza che ispirò l’autore sapienziale a implorare il dono della Sapienza (I lettura): una guida sicura nella vita che ci dia le giuste coordinate per Vivere veramente. Questa Sapienza viene data al Popolo di Israele sotto forma della Legge: le Dieci Parole destinate a guidare il comportamento del popolo eletto e a custodire l’Alleanza con Dio. È a questa sapienza che Gesù inizialmente rimanda il suo interlocutore: … Tu conosci i comandamenti.

… Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Il “Tale”, però, non è soddisfatto dalla risposta di Gesù, non gusta ancora la Vita Piena. Il Maestro, allora, lo invita ad uscire dal suo inganno e a liberarsi dall’idolatria che gli impedisce di osservare realmente i comandamenti: lo invita a vendere i suoi beni dimostrando che non sono essi il suo dio (osservando realmente i primi tre comandamenti che riguardano l’amore per Dio), e a dare il ricavato ai poveri (osservando i restanti sette riguardanti l’amore per il prossimo). Solo allora sarà disponibile alla sequela, a “perdere” la vita abbandonando ogni sicurezza precedente, per vivere la Vita lasciandosi guidare dalla Luce della Fede, dalla fiducia nel Maestro Buono. La sapienza antica, infatti, pur non essendo mai stata abrogata, è adesso superata dalla “Sapienza personificata”: è Gesù adesso che noi siamo chiamati a seguire per giungere alla Pienezza della vita. Sappiamo qual è il triste esito di quest’incontro: il Tale “possedeva molti beni”, o meglio era posseduto da molti beni, quindi, pur con la morte nel cuore (scuro in volto e rattristato), torna alla misera vita di prima.

«Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». … «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Anche a noi oggi il Maestro chiede di abbandonare le nostre fallaci sicurezze per metterci alla Sua sequela, per divenire Suoi discepoli lasciandoci guidare la Lui. Anche noi siamo invitati ad entrare nella verità di noi stessi: non siamo capaci di salvarci da soli! Per quanti beni accumuliamo e per quanto bene crediamo di fare, non siamo in grado di darci da soli la Vita piena che desideriamo. Dinanzi a questa verità che potrebbe scoraggiarci, il Maestro ci conforta: nulla è impossibile a Dio! Se sceglieremo di rispondere alla Sua chiamata, e di lasciarci guidare da Lui rinunciando alle nostre false sicurezze, sperimenteremo anche noi quel centuplo che il Maestro promette, insieme all’incomprensione da parte del mondo, a coloro che lo seguono.

Fr. Marco

lunedì 4 ottobre 2021

Imparate da me che sono mite e umile di cuore - solennità di S. Francesco

 

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 25-30)

In questa solennità di San Francesco d’Assisi, vorrei cercare di tratteggiarne l’identità a partire dal vangelo che è stato proclamato. Gesù nel Vangelo rende grazie al Padre perché ha rivelato i misteri del Regno ai piccoli, a quanti non si gonfiano della loro presunta sapienza e si rendono quindi disponibili ad accogliere la Buona notizia del Regno.

San Francesco d’Assisi è stato sicuramente uno di questi “piccoli”. Il Poverello di Assisi, infatti sceglie per sé e per i suoi frati la Minorità. Rinuncia alla sapienza del mondo tanto da essere considerato folle. Sceglie di rinunciare ad ogni “superiorità” e di stimare sempre gli altri come superiori a sé. Vuole che i suoi frati siano detti e siano realmente minori. Fa questa scelta spinto dall’imitazione di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero per noi”. Se il Figlio di Dio si fa uomo e piccolo, quanto più noi suoi discepoli siamo chiamati a farci piccoli, a riconoscere la nostra reale piccolezza e a consegnarla nelle Sue mani perché Lui posa compiere grandi cose.

La scelta della minorità porta Francesco  a fare anche la scelta della povertà come rinuncia ad ogni potere, ad ogni idolatria e ad ogni autosufficienza. La povertà del Serafico Padre è certamente motivata dall’imitazione di Cristo, ma anche dalla sua comprensione di quanto qualunque ricchezza ci separa rendendoci autosufficienti. La ricchezza, inoltre, va difesa e questo fa sì che non vediamo più in chi ci sta accanto un fratello, ma un nemico. Facciamo attenzione, però, che la ricchezza rifiutata da Francesco è dentro l’uomo, non fuori dall’uomo: si può essere ricchi anche della propria povertà quando la si usa come arma per sentirsi superiori ai fratelli. Quella di Francesco, invece, è una reale povertà interiore che diventa visibile anche esteriormente.

Spoglio di tutto, Francesco affida con gioia la sua vita alle mani del Padre e questo lo porta a riconoscere in chi gli sta accanto un fratello. Avendo imparato da Cristo mite e umile di cuore, il Serafico Padre sa bene che il comandamento fondamentale, la “sintesi della legge e dei profeti” è l’Amore. Vive pienamente quest’amore per Dio e per i fratelli. Il titolo di “serafico” che la Chiesa gli ha attribuito richiama, infatti, i Serafini: le creature angeliche che ardono d’amore per Dio. Francesco sceglie quindi di vivere l’amore e di farsi fratello di ogni creatura. Francesco vuole che l’ordine da lui fondato sia una fraternità. Ritengo sia significativo, però, il fatto che raramente nei suoi scritti parli di “fraternità” e innumerevoli volte parli di “fratelli”: la fraternità in astratto non esiste! Esistono degli uomini e delle donne che scelgono di farsi fratelli e sorelle di chi il Signore pone loro accanto. È questa la fraternità francescana: riconoscere l’unica paternità di Dio e per questo scegliere di farsi fratelli di ogni uomo amandolo per primo come noi ci sappiamo amati dal Padre. Solo quando ciascuno di noi si farà fratello o sorella dell’altro ci sarà tra noi vera fraternità.

Anche l’obbedienza per Francesco trova la sua radice nella minorità. Mettendo la sua vita nella sequela di Gesù e intenzionato a prendere il suo giogo sopra di sé, Francesco mette realmente la sua vita sotto la Signoria di Cristo. Riconoscendo gli altri come superiori a sé, inoltre, vive in continuo ascolto della volontà di Dio che può manifestarsi attraverso qualunque dei suoi fratelli. L’obbedienza di Francesco, naturalmente, si fa estrema nei riguardi della Chiesa e di ogni suo rappresentante in cui vede una mediazione diretta e privilegiata della voce di Dio. Solo in questo modo Francesco poté realizzare la restaurazione della Chiesa che anche altri avevano inutilmente tentato. La Chiesa ai tempi di Francesco è una Chiesa che va in rovina, in cui solo con grande fatica si riconosce la Sposa di Cristo: i vescovi vivono come principi e come loro sono più impegnati in cose temporali che in cose spirituali. I sacerdoti spesso sono quasi analfabeti e vivono una dubbia morale. È questa la Chiesa che Francesco è chiamato a restaurare dall’interno, ed è questa la Chiesa alla quale Francesco vuole obbedire perché sa che, nonostante tutto, in essa il Signore continua a parlare.

Celebrando questa solennità, fratelli e sorelle, guardiamo a ciò che San Francesco ha fatto della sua vita, seguiamo il suo esempio nella disponibilità a compiere il progetto d’amore del Padre per noi e come lui mettiamo realmente la nostra vita sotto la Signoria di Cristo. In tal modo saremo realmente discepoli di Cristo e seguaci di Francesco, uomini e donne pienamente realizzati, strumenti di Dio per edificare giorno dopo giorno il Regno dei Cieli. Il Signore ce lo conceda per intercessione di S. Francesco nostro Serafico Padre.

Fr. Marco

sabato 2 ottobre 2021

Non sono più due, ma una sola carne


 «Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”». (Gen 2,18-24)

«Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.» (Eb 2,9-11)

«In quel tempo, … domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. …  Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne.» (Mc 10,2-16)

Questa domenica, XXVII del tempo ordinario, ​la liturgia della Parola si apre con una solenne dichiarazione di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo». L’uomo, infatti, creato a immagine e somiglianza del Dio Amore che è in se stesso relazione, è creato per la relazione e solo nella relazione trova la sua realizzazione.

Una relazione, però, con qualcuno che gli corrisponda (letteralmente “come di fronte”) e con il quale vivere una comunione vitale: i due diventeranno una carne sola. Una relazione, quindi, “paritaria” e non “strumentale” come potrebbe essere quella con gli animali che l’uomo concorre a “creare” stappandoli dall’anonimato, ma che non gli corrispondono. Ecco allora la creazione della donna e il grido di giubilo dell’uomo: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne

Purtroppo, a causa del peccato, l’uomo ha perso di vista la verità sulla relazione a tutti i livelli, con Dio, con la donna e con la creazione, e ha reso i doni di Dio “oggetto di rapina” di cui appropriarsi anche con la violenza. Anche il “tu” della relazione, viene “cosificato”, reso un oggetto da possedere. Da qui la pretesa di “prendere” moglie (magari “pagandola” al padre) e lasciarla quando non soddisfa più. Ai tempi di Gesù si dibatteva se l’uomo potesse ripudiare la moglie “per qualsiasi motivo” (Cfr. Mt 19,3). Oggi il dibatto è stato tristemente risolto con l’unico progresso che sia la moglie che il marito possono lasciarsi “per qualsiasi motivo”.

Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Il Maestro, nel vangelo, oggi è chiaro nel denunciare la durezza di cuore di chi si pone la questione la ripudio. Una questione che assume tutta un’altra prospettiva nella “pienezza dei tempi” in cui si realizza la profezia di Ezechiele: «toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26). Se l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (Cfr. Rm 5,5), se Egli adesso Ama in noi, allora siamo chiamati a realizzare il progetto originario del Padre al quale oggi Gesù ci rinvia: una relazione autentica, libera e paritaria con un tu che mi corrisponda (non che mi sia uguale); una relazione che rende i due una sola carne. Da sempre la tradizione ha visto qui il duplice richiamo all’indissolubilità del matrimonio e all’apertura feconda verso la vita (i due diventeranno una carne sola) di cui più immediata, ma non esclusiva, manifestazione sono i figli.

La relazione autentica, però, l’Amore, ci porta ad uscire da noi, a non porre più in noi il nostro centro, a rinnegare se stessi (cfr. Mt 16,24). Credo sia per questo che oggi la seconda lettura richiama il sacrificio salvifico di Cristo sulla croce. Dalla croce, infatti, dalla piena manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo, siamo stati redenti. Dalla croce siamo anche invitati a imparare ad Amare prendendo anche noi ogni giorno la nostra croce, facendo della nostra vita un dono d’amore a chi il Signore ci ha messo accanto. Solo in questa autentica relazione d’amore, che ha il suo centro fuori di noi, troveremo la nostra piena realizzazione: «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).

Fr. Marco

Terzo giorno del triduo di S. Francesco - Minorità


 «In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,2-16)

Dalla Vita seconda di S, Francesco di Tommaso da Celano (FF 729):

«Vedeva che alcuni desideravano ardentemente le cariche dell'Ordine, delle quali si rendevano indegni, oltre al resto, anche per la sola ambizione di governare. E diceva che questi non erano frati minori, ma avevano dimenticato la loro vocazione ed erano decaduti dalla gloria. Confutava poi con abbondanza di argomenti alcuni miserabili, che sopportavano a malincuore di essere rimossi dai vari uffici, perché più che l'onere cercavano l'onore.

Un giorno disse al suo compagno: " Non mi sembrerebbe di essere frate minore se non fossi nella disposizione che ti descriverò. Ecco – spiegò – essendo superiore dei frati vado al capitolo, predico, li ammonisco, e alla fine si grida contro di me: “Non è adatto per noi un uomo senza cultura e dappoco. Perciò non vogliamo che tu regni su di noi, perché non sei eloquente, sei semplice ed ignorante”. Alla fine sono scacciato con obbrobrio, vilipeso da tutti. Ti dico: se non ascolterò queste parole conservando lo stesso volto, la stessa letizia di animo, lo stesso proposito di santità, non sono per niente frate minore".

E aggiungeva: " Il superiorato è occasione di caduta, la lode di precipizio. L'umiltà del suddito invece porta alla salvezza dell'anima. Perché allora volgiamo l'animo più ai pericoli che ai vantaggi, quando abbiamo la vita per acquistarci meriti?". »

Oggi, festa degli angeli custodi, entriamo già nella liturgia domenicale. Per quest’omelia mi soffermerò sulla seconda parte del Vangelo, l’invito ad accogliere il Regno come bambini.

A chi è come loro appartiene il Regno di Dio. Ciò che ci chiede il Maestro è la semplicità e la minorità dei bambini, il loro sapersi piccoli e dipendenti, il loro essere fiduciosi. Ci accoglie il Regno come un bambino, infatti, sa di avere un Padre che provvede a lui; si fida incondizionatamente di questo Padre di cui sa di avere bisogno; riconosce la propria dipendenza, la propria costitutiva povertà, il fatto di non potersi dare la vita da solo, e la vive senza angoscia perché fiducioso nell’amore del Padre.

Francesco, perfetto discepolo e imitatore di Cristo che «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7),  ha ben compreso l’importanza di farsi piccoli per entrare nel Regno dei Cieli, per questo sceglie di essere “minore”. La Minorità è la via per cui Francesco si sente chiamato a seguire il Divino Maestro. Ed è questa la caratteristica che lui reputa distintiva della sua fraternità: l’essere minore, il farsi piccolo per amore, per fare spazio a Dio e al fratello.

Come abbiamo ascoltato nel brano delle Fonti, il Poverello di Assisi sceglie di rinunciare ad ogni “superiorato”, visto come pericoloso per la salvezza eterna, per vivere la minorità. Francesco, tuttavia, non rinuncia al servizio di autorità: è consapevole che la fraternità ha bisogno di guide, ma sceglie e chiede ai suoi frati minori di vivere anche il servizio dell’autorità appunto come un servizio svolto per amore. Per questo vuole che la fraternità sia guidata da “ministri”, cioè “servi”. Il nostro amore vicendevole rende visibile l'amore di Cristo per noi, per questo deve essere veramente un “amore che serve”; deve conservarsi come un amore umile nel servizio reciproco.

L'umiltà nella sua essenza è riconoscere la propria povertà di fronte a Dio. L'uomo veramente umile, veramente povero di sé, che tutto ha consegnato a Dio, non si esalta per il bene che Dio opera per mezzo di lui.

Purtroppo l’umiltà oggi non è “di moda”. Ha un’accezione negativa; nella “società dell’apparire” l’umiltà non ha alcun senso. Non abbiamo più un giusto concetto di questa virtù cristiana. Poiché, tuttavia, la povertà e l’umiltà (che possiamo riassumere nella parola “minorità”) sono i pilastri fondamentali della nostra francescana sequela di Cristo, è importante comprenderla per viverla.

Siamo veramente umili quando siamo riconoscenti a Dio, oltre che per ciò che opera attraverso di noi, anche per tutto ciò che di bene Egli dice e opera per mezzo dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Questa gioia riconoscente è un importante aspetto dell'umiltà cristiana. Quanto più un uomo vive in riconoscente gioia davanti a Dio, tanto più è un autentico discepolo di Cristo. In questa umiltà mette radici quindi l'amore fraterno che Gesù ci ha lasciato come segno distintivo dell’essere suoi discepoli (Cfr. Gv 13,35)

Concludendo, non possiamo certo chiederci: ho l’umiltà? Rischieremmo di cadere nel peccato contrario inorgogliendoci per la nostra “umiltà”. Chiediamoci piuttosto: Sono io riconoscente a Dio, il Signore, per tutto il bene che Egli dice e opera per mezzo mio? Il Vero minore si riconosce in tutto beneficato dal "grande Elemosiniere", da Dio. In lui non c'è alcun posto per la ricerca della fama, dell'autocompiacenza e della superbia. Compiamo un ulteriore passo in avanti se ci domandiamo: Mi rallegro io per il bene che Dio dice e opera per mezzo dei miei fratelli e sorelle? Forse dovremmo imparare in primo luogo a vedere il bene degli altri e riconoscerlo con gratitudine a Dio. Spesso, purtroppo abbiamo un’attenzione particolare a vedere il male negli altri. Eppure Dio nella sua creazione ha fatto buona ogni cosa e ogni persona e può operare il bene per mezzo di chi vuole. Scoprire e riconoscere questo sarebbe un atto autentico di glorificazione a Dio, che non dovrebbe mancare nella vita dell'umile servo di Dio. Scoprire il bene nella vita degli altri e riconoscerlo senza invidia, con gioia è certamente uno dei passi più importanti verso l'autentico amore fraterno; perché esso ci apre alla giusta comprensione degli altri. Con ciò vengono anche sgomberati gli ostacoli che si trovano sulla strada della vita fraterna in comune. Da questa umiltà si sviluppa l'autentica "fraternitas", la società fraterna del Vangelo. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 1 ottobre 2021

Secondo giorno del triduo di S. Francesco - Chi ascolta voi ascolta me

 «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,13-16)

Dalle Ammonizioni di S. Francesco d’Assisi (FF 148-151):

«Dice il Signore nel Vangelo: " chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo", e " Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà". Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo colui che sottomette totalmente se stesso all'obbedienza nelle mani del suo superiore. E qualunque cosa fa o dice che egli sa non essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza. E se qualche volta il suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il superiore, volentieri sacrifichi a Dio le sue e cerchi invece di adempiere con l'opera quelle del superiore. Infatti questa è l'obbedienza caritativa, perché compiace a Dio ed al prossimo. … Vi sono infatti molti religiosi che, col pretesto di vedere cose migliori di quelle che ordinano i loro superiori, guardano indietro e ritornano al vomito della propria volontà. Questi sono degli omicidi e sono causa di perdizione per molte anime con i loro cattivi esempi.»

La pagina evangelica odierna continua il discorso di Gesù ai 72 discepoli mandati in missione e si apre con il monito di Gesù che esorta alla conversione esprimendo il suo dolore per la sorte di coloro che non si convertono. L’espressione tradotta “Guai”, infatti, significa soprattutto «povera te …».

Ciò che viene rimproverato è il non avere accolto la Parola e, quindi, l'avere disobbedito ai ripetuti richiami di Dio. Il Maestro, rivolgendosi ai discepoli mandati in missione ad annunziare la Buona novella del Regno, afferma «Chi ascolta voi ascolta me». L’obbedienza a Cristo tramite l’obbedienza ai suoi inviati, allora diventa determinante per sperimentare la Vita.

È proprio dell’obbedienza conseguente alla conversione che intendo parlare oggi. Scegliendo Gesù come suo Signore, Francesco mette realmente la sua vita sotto la Signoria di Cristo e, riconoscendo gli altri come superiori a sé vive in continuo ascolto della volontà di Dio che può manifestarsi attraverso qualunque dei suoi fratelli. Certamente tutti vogliamo obbedire a Dio. Ci piace credere che sentendo la Sua Voce faremmo tutto. Egli, però, non entra visibilmente nella nostra vita. Il Padre si serve di strumenti umani, spesso anzi, “troppo umani”, precisamente dei superiori che egli ci ha dato attraverso l’autorità della sua Chiesa. È questa la situazione che talvolta rende l'obbedienza così difficile. Perciò l'obbedienza è veramente lasciare tutto, rinunciare anche a se stessi, lasciarsi condurre e guidare da uomini che sono i rappresentanti di Dio. Questa obbedienza è possibile soltanto nella fede: in quella fede che confida fermamente che Dio è operante nella Sua Chiesa e conduce i suoi attraverso i vari ministeri presenti in essa. Se noi glielo permettiamo, è Dio che conduce la nostra storia e lo fa anche attraverso i suoi ministri, attraverso coloro che la Chiesa ci dà come guide.

L'obbedienza chiesta da Gesù e dal suo servo Francesco, tuttavia, non è un’obbedienza “militaresca” che, se da una parte “violenta” la nostra libertà, a volte ci fa comodo perché ci deresponsabilizza, ci libera dalla fatica del decidere. L’obbedienza che ci è richiesta è un’obbedienza da figli. Noi dovremmo stare nell'obbedienza anche quando colui che è chiamato a guidarci non è presente, anzi, anche quando siamo completamente soli. Termine ultimo della nostra obbedienza, infatti, non è il “superiore”, ma Dio, il nostro solo Signore. Qui c'è naturalmente anche un pesante impegno per tutti coloro che dalla Chiesa vengono posti come “superiori”: essi devono esigere nell'obbedienza solo quello che è buono, cioè quello che è in consonanza con la volontà di Dio. Perciò obbedire è sicuramente più facile che comandare!

«E se qualche volta il suddito vede cose migliori e più utili per la sua anima di quelle che gli comanda il superiore, …». È certamente possibile che il suddito giudichi qualcosa meglio che il suo superiore. In tal caso Francesco afferma che è più importante e più prezioso obbedire che seguire le proprie opinioni o le proprie cognizioni. Il bene fatto nell’obbedienza è, per Francesco, più prezioso del meglio fatto senza obbedienza. Si tratta dell’adempimento della volontà di Dio, anche quando l’uomo perde se stesso. Qui sperimentiamo ancora che l'obbedienza piena è possibile solo in una fede solida, che crede cioè che Dio ha la nostra vita nelle sue mani e dispone e può condurre tutto meglio di quanto noi non possiamo sospettare. Dio sa meglio di noi ciò che è Bene e può portare ad effetto la Sua volontà attraverso chi vuole. Per questo dobbiamo abbandonarci pieni di fede alla Sua guida. Agendo così, l’obbedienza diventa certamente un sacrificio, in cui noi ci offriamo completamente a Dio, poiché rinunciamo ad ogni cosa e perdiamo noi stessi per amore suo. Non dimentichiamo, però, che questo sacrificio nell’obbedienza ci porta dentro al sacrificio di Cristo, «il quale umiliò se stesso fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil. 2,8). Perciò continua Francesco: «Questa è l’obbedienza caritativa, perché compiace a Dio e al prossimo». Chi è obbediente con Cristo in questo modo, prende parte al dono della redenzione di Cristo, alla sua opera di salvezza per tutti gli uomini, egli realizza con Cristo l'offerta della propria volontà, affinché Dio sia glorificato in ognuno. Per questo Francesco dice che compiace a Dio e al prossimo. L'obbedienza è il punto culminante di una vita di povertà spirituale, nel quale l'uomo abbandona tutto, e niente trattiene per sé. Nell’obbedienza l'uomo si lega per diventare libero per Dio e l’adempimento della sua santa volontà. Egli dice "No" a se stesso per dire liberamente "Sì" a Dio.

Fr. Marco