martedì 29 novembre 2022

Novena dell'Immacolata. secondo giorno: Maria modello di fede per i discepoli

«Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.» (Rm 10,9-18)

«Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,18-22)

Oggi, festa di S. Andrea, nel Vangelo ascoltiamo la chiamata dei primi discepoli. Questi uomini avevano probabilmente già ascoltato il Signore annunciare il Regno, per questo ora sono disposti a lasciare tutto per mettersi alla sua sequela nel discepolato.

Anche a noi, come ai discepoli, oggi Gesù dice «Venite dietro a me». Se, come S. Andrea e i suoi compagni, crediamo alla Sua Parola, allora siamo chiamati a farci suoi discepoli, a manifestare la nostra fede non solo a parole, ma con i fatti, con una vita che corrisponda a ciò che crediamo. Prendendo lo spunto dal Vangelo, oggi intendo parlare di Maria modello di fede per i discepoli.

S. Agostino, afferma: “Maria santissima fece la volontà del Padre e la fece interamente; perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo, anziché Madre di Cristo.

È nell’obbedienza fiduciosa, infatti, che si manifesta in maniera più alta la santità di Maria, quella santità che noi siamo chiamati non solo a contemplare, ma ad imitare. Come i bambini imparano a comportarsi osservando come si comporta la loro mamma, così anche noi siamo chiamati ad imparare ad essere discepoli osservando come si è comportata la nostra Madre celeste.

Maria è colei che ha creduto nell’adempimento della Parola di Dio. che ha saputo fare posto alla volontà di Dio nella propria vita. Non pensiamo che la fede di Maria sia stata facile o scontata: vide il figlio suo fragile e indifeso nella stalla di Betlemme e lo credette il Creatore del mondo; lo vide minacciato da Erode e costretto alla fuga in Egitto e non cessò di credere che era il re dei re; lo vide nascere dal suo grembo e lo credette eterno. Lo vide povero, bisognoso di cibo e lo credette Signore dell'universo; lo vide coricato sul fieno bisognoso di tutto e lo credette onnipotente.  Lo vide, infine, morire vilipeso e crocifisso, ma benché negli altri vacillasse la fede, Maria continuò a credere fermamente che egli era Dio. «Vicino alla croce di Gesù stava sua madre» (Gv 19,25).  Maria stava salda nella fede, che conservò incrollabile, nella divinità di Cristo (S. Antonino).

Proprio sotto la croce, inoltre, emerge la grandissima fede di Maria: al contrario di Pietro, che già all’annuncio della passione si ribella (Cfr. Mt 16, 22), di Maria sotto la Croce non ci è riportata alcuna parola di ribellione. Maria sa stare al suo posto: dietro il Maestro e Signore.

Quante volte anche noi vorremmo insegnare al Signore come essere Dio! quante volte anche noi preferiamo pensare secondo il mondo e non secondo Dio. Impariamo da Maria la fede dei veri discepoli, di coloro che sanno riconoscere il Signore e obbedire a Lui piuttosto che alla logica del mondo.

Come possiamo, però, imitare questa fede di Maria? La fede è insieme dono e virtù. È dono di Dio in quanto è una luce che Dio infonde nell’anima; imploriamo il Signore che per intercessione di Maria aumenti la nostra fede. La fede, tuttavia, è anche virtù che siamo chiamati a mettere in pratica. Perciò la fede ci deve servire da regola non solo per credere, ma anche per agire. Questo è l'avere una fede viva, cioè il vivere secondo quel che si crede: «Il mio giusto vive di fede» (Eb 10,38). Così visse la Beata Vergine, a differenza di coloro che non vivono secondo quel che credono e la cui fede è morta; come dice san Giacomo: «La fede senza le opere è morta» (Gc 2,26).

La fede, inoltre, è quell’atteggiamento necessario perché la Grazia porti in noi il suo frutto: solo avendo fede (una fede viva e fattiva) vedremo le meraviglie di Dio nella nostra vita.

Contemplare la fede di Maria, infine, ci ricorda che la fede è contemporaneamente personale e comunitaria. Maria ci insegna che l’atto di fede è sì personale: un rapporto da persona a persona. È un fidarsi di Dio e un affidarsi completamente a Dio. Ma la fede di Maria è anche comunitaria. Ella non crede in un Dio soggettivo, personalizzato. Crede invece al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Ella si inserisce umilmente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della Nuova Alleanza, come Abramo era stato il primo credente dell’antica alleanza. Maria, probabilmente, non avrebbe creduto all’angelo, se questi le avesse rivelato un Dio diverso dal  Dio del suo popolo Israele. 

Contemplando Maria, allora, impariamo a credere personalmente, ma nella Chiesa. Con il mio personale atto di fede io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori.

Novena dell'Immacolata:.Primo giorno. L’Umiltà di Maria specchio dell’Umiltà di Dio

«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.» (Is 11,1-10)

«Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» (Lc 10, 21-24)

Oggi la prima lettura, tratta dal profeta Isaia, ci presenta gli umili inizi del regno messianico di cui Cristo Gesù è la piena realizzazione. Nella pagina evangelica Gesù rende lode al Padre perché ai piccoli ha rivelato il suo regno.

La sapienza di questo mondo cerca la grandezza e l’appariscenza: vuole mettersi in mostra e si gonfia di orgoglio. Il Signore, però, è sempre il “totalmente altro” che non si lascia imbrigliare nei nostri schemi e si presenta umile. L’Onnipotente sceglie di manifestarsi nella debolezza. Il mondo cerca l’apparenza, i gesti eclatanti, Dio, al contrario ama e sceglie per sé la via dell’umiltà.

Il Nuovo Testamento ci presenta proprio questa come la caratteristica fondamentale dell’auto-rivelazione di Dio: il Signore dell’universo si fa bambino minacciato da Erode; è considerato il figlio del carpentiere e alla fine della sua vita si consegna per essere inchiodato a una Croce. La logica del Vangelo ci rivela che la vera grandezza sta nel sapersi fare piccoli per far posto agli altri nella nostra vita.

Anche Maria, naturalmente, rientra in questa logica: una fanciulla di Nazareth, che facilmente passerebbe inosservata, è eletta dal Signore come nuova Arca dell’Alleanza.

L’umiltà, ci fa notare S. Bernardo, «è fondamento e custode delle virtù». Senza umiltà, infatti, non vi può essere alcun'altra virtù in un'anima. È per questo che Gesù venne a mostrarcela con il suo esempio e volle che specialmente in essa noi cercassimo d'imitarlo: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Come fu la prima e più perfetta discepola di Gesù Cristo in tutte le virtù, così Maria lo fu anche nell'umiltà, per cui meritò di essere esaltata sopra tutte le creature.

Il primo atto dell'umiltà di cuore è avere una giusta conoscenza di se e saper stimare gli altri. Il superbo, al contrario, non ha una giusta conoscenza di se: o si stima superiore agli altri, o non riconosce ciò che il Signore ha operato nella sua vita perché pretende di essere sempre più grande di quello che è; il superbo, inoltre, non è capace di stimare gli altri. Maria, maestra di umiltà, seppe sempre esattamente che ciò che il Signore aveva operato in  Lei era da attribuire alla Grazia divina e non si stimò mai al di sopra di nessuno.

L'umile, inoltre, rifiuta le lodi per sé e le riferisce tutte a Dio. Maria si turbò nel sentirsi lodare dall'angelo Gabriele e quando santa Elisabetta le disse: «Benedetta tu fra le donne... A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?... Beata colei che ha creduto...» (Lc 1), la Vergine, attribuendo tutte quelle lodi a Dio, rispose con l'umile cantico: «L'anima mia magnifica il Signore». Come se dicesse: «Elisabetta, tu lodi me, ma io lodo il Signore a cui solo è dovuto l'onore. Tu ammiri che io venga a te; io ammiro la divina bontà: “il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore”. Tu mi lodi perché ho creduto; io lodo il mio Dio che ha voluto esaltare il mio niente: “perché ha guardato l'umiltà della sua serva”» (Lc 1,46-48). 

È proprio degli umili, infine, il servire, e Maria non esitò ad andare a servire Elisabetta per tre mesi. Dice dunque san Bernardo: «Elisabetta si meravigliava che Maria fosse venuta, ma ancor più si stupisca che sia venuta non per essere servita, ma per servire».

A testimonianza dell’umiltà di Maria, inoltre, va ricordato il fatto che sono pochissime le parole che il vangelo ci riporta di Lei; tanto discreta fu la sua presenza in mezzo ai discepoli che si corre il rischio di crederla assente nella narrazione delle vicende del Signore.

Contemplando l’umiltà della nostra Madre Celeste, allora, se veramente vogliamo essere riconosciuti come suoi devoti, imitiamo questa sublime virtù che Maria ha incarnato in pienezza sull’esempio del Cristo. Quanto sono care a Maria le anime umili! San Bernardo scrive: «La Vergine riconosce e ama quelli che la amano ed è vicina a coloro che la invocano, specialmente a quelli che vede conformi a sé nella castità e nell'umiltà». Perciò il santo esorta tutti coloro che amano Maria ad essere umili: «Sforzatevi di emulare questa virtù, se amate Maria».

Voglio concludere facendo mia la preghiera che S. Alfonso M. De’Liguori elevò alla Regina del cielo:

«Mia Regina, non potrò mai essere tuo vero figlio se non sono umile. Ma non vedi che i miei peccati dopo avermi reso ingrato verso il mio Signore mi hanno fatto diventare anche superbo? Madre mia, poni tu rimedio alla mia situazione: per i meriti della tua umiltà ottienimi di essere umile, divenendo così figlio tuo. Amen

sabato 26 novembre 2022

E' ormai tempo di svegliarci dal sonno: la nostra salvezza è vicina

 «“Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.» (Is 2,1-5)

«Fratelli … è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.» (Rm 13,11-14)

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti» (Mt 24,37-44)

​Questa domenica inizia il tempo liturgico dell’Avvento, un tempo caratterizzato dall’attesa e che dà il carattere a tutto l’Anno Liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta” (vedi per es. il Mistero della fede). I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore da attendere e a cui fare attenzione: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

Vegliate dunque … Tenetevi pronti. La pagina evangelica di oggi ci riporta quest’accorata esortazione del Maestro.  Attendendo la Sua venuta gloriosa, infatti, siamo invitati a “vegliare”. Al verbo vegliare possono corrispondere almeno tre atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: “stare svegli”, “stare vigili” (attenti) e “fare vigilia”.

Siamo invitati, quindi a “stare svegli”, a non lasciarci prendere dal torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. «Come furono i giorni di Noè … non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» All’inizio del brano evangelico, Gesù riporta l’esempio dei contemporanei di Noè: si erano lasciati “stordire” dalla vita presente e non hanno prestato ascolto agli avvertimenti ricevuti. Il diluvio li ha quindi trovati impreparati e sono stati perduti. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, a rassegnarci accontentandoci di ciò che viviamo senza aspettare più niente, senza speranza. Lo “stare svegli” significa, quindi, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Stare svegli, inoltre, significa essere pronti a riconoscere il Signore quando viene a visitarci, nel povero o nel malato, e accoglierlo.

Siamo invitati ad “essere vigili”, attenti a non cadere nelle trappole del diavolo che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). La più pericolosa tra queste trappole è l’insinuazione, nei momenti bui della vita, che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Vigiliamo: usiamo bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede: ne dovremo rendere conto; non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che mai ci abbandona e sempre si prende cura di noi; anche quando ci chiede di entrare con lui nella valle oscura, il Suo bastone e il Suo vincastro ci danno sicurezza. (cfr. Sal 22/23).

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La nostra attesa è caratterizzata dalla gioia: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia, è caratterizzato anche dalla necessità di “tenersi pronti”, di prepararsi all’incontro con il Signore, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della “penitenza” cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento, una penitenza che è un “convertirci”, un cambiare la direzione della nostra vita, un decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della “penitenza”, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio: in queste domeniche di Avvento, celebrando i (secondi) vespri, ci sentiremo rivolgere l’esortazione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Un esercizio di “conversione”, di decentramento: mettendo al centro dei nostri pensieri la gioia per la vicinanza del Signore, siamo invitati a non stare ripiegati su noi stessi e sulle inevitabili contrarietà della vita. Ritengo che il modo più immediato di mettere in pratica questa Parola, sia quello di avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Spesso, presi dalle difficoltà della vita e dai nostri malumori, non sarà semplice (chi mi conosce sa quanto sia difficile per me), ma … il Signore è vicino!

Fr. Marco

venerdì 18 novembre 2022

Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno

 «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». (2Sam 5, 1-3)

«Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.» (Col 1, 12-20)

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava […] E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”». (Lc 23, 35-43)

Oggi, ultima domenica del tempo ordinario, celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo. La pagina evangelica di oggi, tuttavia, ci presenta una regalità diversa da quella che intende il mondo: Cristo è un re che regna dalla Croce. È proprio in questo contesto così lontano dalla regalità mondana, però, che il “buon ladrone” è capace di riconoscere in quell’uomo crocifisso il Messia atteso, il re il cui regno non avrà mai fine: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Il “buon ladrone” è uno dei pochi personaggi del Vangelo di Luca che chiama il Signore per nome: Gesù, Dio salva. Proprio perché consapevole della propria miseria e che nessun uomo potrà salvarlo né potrà salvarsi da solo, questo malfattore può dire in tutta verità Gesù e affidarsi alla salvezza che viene da Dio. E Gesù manifesta la sua regalità concedendo la Grazia: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Altrove Gesù aveva affermato: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Sulla Croce, infatti, Gesù è veramente Re secondo il cuore del Padre: non si lascia condizionare, non si lascia sopraffare da tutta la cattiveria e il male del mondo; non subisce gli eventi, ma li vive trasformandoli in un’offerta d’Amore. Elevato sulla Croce per amore nostro, Gesù manifesta pienamente la sua regalità: vince contro il peccato del mondo offrendo la propria vita e perdonando i suoi crocifissori; vince contro il tentatore che, attraverso chi gli sta attorno, continua a chiedergli di salvare se stesso.

Salva te stesso: un invito che torna tre volte in questa breve pagina del vangelo. È la prospettiva egoistica ed egocentrica che regola il mondo. Attraverso i capi, i soldati e uno dei malfattori crocifissi con Lui,  il tentatore continua a suggerire a Gesù di preferire l’egoismo all’amore;  continua a suggerire l’illusione di salvare se stesso non fidandosi dell’amore del Padre. Gesù, però, non cade nell’inganno e con una libertà veramente regale si offre per Amore.

Celebrando la regalità di Cristo, però, oggi siamo chiamati a fare memoria anche della “nostra” regalità, di quella regalità di cui Gesù ci ha resi partecipi.

Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Nella prima lettura le tribù d’Israele fanno una professione di appartenenza a Davide che richiama il libro della Genesi (cfr. Gen 2,23). Un’espressione che allude ad un’appartenenza intima. Sappiamo che Davide è “un’immagine” (un typos) di Gesù Re Messia. Anche noi possiamo dire a Gesù Cristo “Ecco noi siamo tue ossa e tua carne”. Come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura, infatti, la Chiesa è il corpo di Cristo. Noi tutti siamo innestati in Cristo per il battesimo. Proprio per questo ogni battezzato è con Cristo re, sacerdote e profeta.

Come Cristo, che oggi contempliamo re, anche noi siamo chiamati a vivere la nostra regalità sul peccato, sulle passioni, sul giudizio del mondo. Anche noi abbiamo ricevuto quella libertà regale che ci permette di trasformare la nostra vita in un’offerta d’amore. Non viviamo come schiavi delle nostre passioni e dei piaceri passeggeri; facciamo il bene senza lasciarci condizionare dal giudizio del mondo (“che penseranno?”); non lasciamoci ingannare dall’illusione: “se non ci salviamo da noi, saremo persi”; è esattamente il contrario: «Chi perderà la vita per causa mia, la salverà» (cfr. Mt 16,25).

Celebrando Cristo re dell’universo, riconosciamo la Signoria di Cristo sulla nostra vita. Obbediamo a Lui per sperimentare la pienezza della regalità nella nostra vita. Impariamo dal nostro maestro Gesù Cristo la regalità “a gloria di Dio Padre” (Cfr. Fil 2,11).

Fr. Marco

mercoledì 16 novembre 2022

Santa Elisabetta d’Ungheria, prega per noi.

«La donna veramente vedova e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra all'orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già morta.» (1 Tm 5,3-10)

 «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». (Mt 25,31-40)

 La contemplazione della figura di santa Elisabetta d’Ungheria ci ha mostrato in questi giorni del triduo come la nostra santa seppe amare autenticamente Dio e per questo seppe amare i fratelli. È questo il primo e più grande comandamento (Cfr. Mt 22,36-39) e ciò che il Maestro chiede ai suoi discepoli: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35-35).

La Vita di Santa Elisabetta ci mostra come questo amore per Dio e per i fratelli non tolga nulla alla nostra vita, anzi la renda Piena, e come non ci ostacoli nell’adempimento dei doveri del nostro stato, ma ci aiuti a viverli portando frutti di vita eterna. Elisabetta ama realmente il suo Signore al di sopra di tutto e tutti ed è da quest’amore che scaturisce la capacità di donare amore a tutti coloro che aveva accanto. Proprio perché vive la profonda intimità con Dio, proprio perché Dio è il suo tutto e percepisce profondamente l’amore di Dio per lei, Elisabetta è configurata a Cristo diventando manifestazione dell’amore di Dio per i fratelli.

Vorrei, inoltre, sottolineare come la Carità che ci richiede oggi la pagina di vangelo non sia “pelosa”, interessata: i giusti cui viene rivolta la lode si meravigliano che il Re consideri fatti a sé i gesti d’autentico amore che loro hanno compiuto; non cercavano di “meritarsi il paradiso”, ma amavano i fratelli come se stessi e come essi si sono sentiti amati da Dio. È questo amore autentico che Santa Elisabetta ci addita con il suo esempio.

Come dicevamo ieri, Elisabetta a corte è stata considerata pazza. E lo è davvero: è pazza d’amore, di quella pazzia che il mondo non può comprendere, di quella stessa pazzia di cui fu accusato S. Francesco, ma che prima era stata del nostro Maestro e Signore.

Elisabetta è pazza d’amore e pur non lasciandoci nulla di scritto, con la sua stessa vita ci insegna a vivere il vangelo.

Elisabetta seppe perdere la vita per seguire Gesù (cfr. Mc 8,34-35): dimentica di sé, dei suoi stessi bisogni e della sua “rispettabilità” si diede tutta al Signore nella penitenza e nella carità fino a consumarsi all’età di 24 anni. Non ha sprecato la vita, ma l’ha vissuta pienamente e adesso gode di quella pienezza di vita che il mondo non conosce.

Desiderosa di seguire il suo Maestro e Signore, Elisabetta seppe lasciare tutto ciò che aveva, tutte le sue sicurezze materiali, consapevole che solo il Signore è capace di darci ciò di cui abbiamo veramente bisogno: il Suo Amore. Tutto il resto è utile e buono purché Lui sia il centro della nostra vita. Se al contrario Dio è assente nella nostra vita, non ci saranno ricchezze sufficienti a saziarci, nulla riuscirà a riempire il vuoto dentro di noi.

La forza interiore di Santa Elisabetta, però, trae origine dalla sua preghiera: intenso e continuo dialogo amoroso di un cuore di figlia con il Cuore del Padre. Da qui la necessità di un amore fattivo che diventa servizio ai bisognosi e sofferenti: alle sue ancelle e compagne diceva: «Dobbiamo rendere felici le persone». La vita di Santa Elisabetta si pone oggi a noi come una lezione affinché tutti possiamo imitarla. Santa Elisabetta d’Ungheria, prega per noi.

Fr. Marco

martedì 15 novembre 2022

Terzo giorno del Triduo - ELISABETTA PRINCIPESSA E PENITENTE MISERICORDIOSA

La pagina evangelica di oggi (Lc 19,11-28) ci esorta, tra le altre cose, a fare fruttare i “talenti”, i doni, che il Signore ci ha affidati. Anche in questo Santa Elisabetta d’Ungheria ci è modello. Come dicevamo ieri, Elisabetta già predisposta ai valori dello spirito venne introdotta da Fra Ruggero alla vita di penitenza secondo la spiritualità francescana; le fonti ci testimoniano due “professioni” di S. Elisabetta: una fatta da Principessa essendo ancora in vita il marito; l’altra fatta quando, ormai vedova, decide di dedicare il resto della sua via alla penitenza.

Già con la prima professione Elisabetta entrava nell’Ordine della Penitenza, ma vi entrava come Principessa e Langravia: non era raro che nobili, uomini e donne, entrassero in quest’ordine, pur senza abbandonare il loro ruolo sociale. Questa prima professione avvenne nelle mani di Corrado di Marburgo un visitatore e predicatore della crociata che Elisabetta scelse, d’accordo col marito, perché povero e austero. Non è certo che Corrado fosse un frate (il capitolo XII della RnB sembra anzi escludere questa possibilità: i frati non potevano ricevere donne all’obbedienza, ma solo consigliarle), ma sicuramente seppe ben guidare la novella Penitente sulla via che il Signore aveva tracciato per lei.

Con la Principessa professarono anche tre ancelle costituendo così una piccola fraternità guidata dal visitatore Corrado. Elisabetta, in questo periodo, pur dandosi alla penitenza ed esercitandosi nella carità, continua a svolgere il suo ruolo regale e, in assenza del marito, anche a governare.

È probabilmente in questo periodo che si deve collocare il gesto di vuotare i granai della contea per far fronte ai bisogni dei poveri in un periodo di carestia. Ed è probabilmente sempre in questo periodo che possiamo collocare il miracolo delle rose: mentre Elisabetta andava per la strada con il suo grembiule pieno di pane per i poveri, incontrò il marito o, più probabilmente, il cognato che le chiese cosa stesse portando. Lei aprì il grembiule e, invece del pane, comparvero magnifiche rose. Il Signore concesse così a Elisabetta di sfuggire temporaneamente alle ire della corte che sicuramente ha qualche difficoltà a comprendere le follie d’amore della Principessa penitente ormai da loro considerata una pazza.

Ciò nonostante Elisabetta non si fa fermare nei suoi slanci di carità e mette tutte le sue risorse al sevizio dei bisognosi: è in questo periodo che la Principessa contribuisce alla fondazione degli ospedali  di Eisenach e Gotha in cui presta servizio con le sue mani arrivando persino a baciare le piaghe di un lebbroso. Più tardi, rimasta ormai vedova la principessa fonderà l’ospedale di Marburg che dedicherà al neo canonizzato S. Francesco.

La seconda professione testimoniata dalle fonti è quella che avviene il venerdì santo del 1228 (24 marzo) quando, ormai vedova, Elisabetta pone le mani sull’altare spoglio, nella cappella di Eisenach che lei stessa aveva affidato alla cura dei frati, consacrandosi alla vita da penitente in cui, abbandonato il castello (o cacciata da esso), si dedica esclusivamente al servizio di Dio e dei fratelli lavorando con le sue stesse mani: a questo scopo imparerà a filare la lana e a cucire vestiti che le serviranno per guadagnarsi il pane e per aiutare i poveri.

Anche in questa seconda professione le sue tre ancelle e compagne la seguirono e le quattro penitenti, indossato un abito grigio, si impegnavano a testimoniare ai fratelli l’amore e la misericordia di Dio: lavoravano con le loro mani e visitavano le case dei poveri provvedendo ai loro bisogni. Elisabetta seppe senza dubbio coordinare le due dimensioni della vita spirituale l’azione caritativa e la contemplazione dell’amore di Dio senza la quale la prima è destinata ad estinguersi.

secondo giorno del triduo - ELISABETTA, PENITENTE FRANCESCANA, PRINCIPESSA, SPOSA E MADRE

 Le ancelle e compagne di S. Elisabetta, che furono ascoltate al processo di canonizzazione, raccontano che fin da bambina Elisabetta aveva chiara la meta del suo pellegrinaggio terreno: il Regno del Padre. 

Al conseguimento di questa meta la Principessa d’Ungheria consacrerà la sua vita pur senza venire meno ai suoi doveri terreni.

A 14 anni, come dicevamo ieri, sposa il ventunenne Lodovico IV di Turingia uomo pio che mai l’ostacolò nel suo cammino di perfezione, ma che anzi seppe farsi suo compagno anche in questo.

I due giovani erano cresciuti insieme amandosi e rispettandosi. Le loro relazioni matrimoniali, infatti, non furono improntate solo dalla convenienza politica, ma furono segnate da autentico amore fraterno e coniugale. Fino al 1227, data in cui resterà vedova a 20 anni, Elisabetta fu esemplare sposa, madre e Langravia di Turingia, una delle donne di più alta nobiltà dell’Impero.

Durante le frequenti assenze del marito, che in Italia collaborava con Federico II per il governo dell’impero, Elisabetta seppe governare con giustizia la Turingia trovandosi a dovere far fronte anche ad una carestia, durante la quale ebbe modo di mostrare la sua grande misericordia: non esitò a svuotare i granai della contea per far fronte ai bisogni dei poveri.

Anche da sposata, Elisabetta dedicava molto tempo alla preghiera che, d’accordo con il marito Lodovico, si protraeva fino a tarda notte nella stesa camera matrimoniale. L’essere sposa di Lodovico, infatti, non le faceva dimenticare la chiamata dell’altro Sposo a seguirlo nella via della Vita. I due amori, quello coniugale e quello Celeste, non erano in conflitto, ma riempivano la vita di Elisabetta di una gioia profonda e di un pieno compiacimento: Dio era l’amore supremo e incondizionato che alimentava tutti gli altri amori di Elisabetta: verso il marito, verso i figli e verso i bisognosi. Verso questi ultimi infatti la principessa non fece mai mancare gesti di carità arrivando anche a servirli con le sue mani.

Alla morte di Lodovico, nel 1227, Elisabetta affermò: «Il mondo e le sue gioie ormai sono morte per me». La principessa era morta, e si era rivelata la sorella penitente.

Fratelli e sorelle della penitenza, infatti, è come erano chiamati uomini e donne che, sull’esempio di San Francesco, abbandonavano la vita mondana per dedicarsi alla preghiera, alle opere di misericordia e ad una vita di penitenza ispirata dalla “Lettera a tutti  fedeli”.

La principessa di Ungheria aveva conosciuto i frati minori quando erano arrivati ad Eisenach, capitale della Turingia, nel 1224. Fu frate Ruggiero ad introdurre Elisabetta, già predisposta ai valori dello spirito, alla vita di penitenza.

Le testimonianze riguardo la sua spiritualità francescana sono innegabili: donò ai frati una cappella ad Eisenach; filava la lana per l’abito dei minori; quando lasciò o fu espulsa dal castello fece intonare ai francescani il Te Deum come ringraziamento a Dio; il 24 marzo 1228, venerdì santo, poste le mani sull’altare spoglio, emise la professione pubblica nella cappella francescana; a segno della sua nuova identità, insieme con le quattro ancelle che la seguirono, indossò una “tunica vile” di colore grigio (per qualcuno “vestì l’abito grigio dei frati minori”); nel 1229 realizzò l’ospedale di Marburgo, da lei fondato, sotto la protezione di S. Francesco canonizzato qualche mese prima. Soprattutto però, la sua spiritualità francescana è testimoniata dalla sua scelta di povertà e di estrema carità verso i bisognosi nella sequela povera di Cristo povero.

lunedì 14 novembre 2022

Primo giorno del Triduo- S. ELISABETTA: PRINCIPESSA DI UNGHERIA, “TERZIARIA” FRANCESCANA E PRIMA SANTA FRANCESCANA CANONIZZATA

Oggi cominciamo il triduo in preparazione alla festa di S. Elisabetta. In lei si manifestano quelle caratteristiche evangeliche che Gesù Cristo è venuto ad indicarci e che S. Francesco ha saputo fare proprie: il riconoscimento dell’assoluta Signoria di Dio; l’esigenza di spogliarsi di tutto e di farsi piccoli come bambini per entrare nel Regno del Padre; l’obbedienza, fino alle estreme conseguenze, al comandamento dell’amore.

In questo primo giorno del triduo vorrei provare a tratteggiare brevemente, almeno in senso biografico, chi è S. Elisabetta. La prima cosa che si nota accostandosi alla vita d S. Elisabetta è la difficoltà a distinguere tra storia e leggenda: consapevole del valore della legenda, che ha sempre un fondo di verità, vorrei tuttavia in quest’occasione provare a chiarire almeno un paio di equivoci.

Elisabetta, passata alla storia anche come Elisabetta di Turingia, nacque in Ungheria, probabilmente nel castello di Sàrospatak, nel 1207. Era figlia del re Andrea II d'Ungheria e di sua moglie Gertrude, appartenente alla famiglia dei Conti di Andechs-Meran. Tradizionalmente Elisabetta è detta “Regina di Ungheria”, la storia, tuttavia, afferma che ella non fu mai Regina, ma Principessa di Ungheria e Langravia di Turingia.

Nel 1211  Hermann I di Turingia (l’attuale Germania) inviò alcuni ambasciatori in Ungheria allo scopo di combinare un matrimonio tra il maggiore dei suoi figli, Lodovico IV, ed Elisabetta, che aveva appena 4 anni. Tale progetto matrimoniale era un'abile mossa politica, e la bambina fu portata alla corte di Turingia per crescere insieme al futuro marito. Ella divenne una ragazzina molto pia e religiosa, con un'evidente inclinazione per la preghiera e gli atti di pietà.

Nel 1221 il Langravio di Turingia Lodovico IV e la Principessa Elisabetta di Ungheria si sposarono: egli aveva 21 anni e Lei ne aveva 14:  fu un matrimonio davvero felice ed esemplare, ebbero tre figli e furono sempre devotamente legati l'uno all'altra. 

Lodovico si rivelò all'altezza di sua moglie. La protesse nei Suoi atti di carità, nelle penitenze, nelle veglie, e spesso La tenne per mano mentre pregava inginocchiata di notte accanto al letto. Egli fu anche un abile governatore ed un soldato coraggioso. Fu uno degli uomini migliori della sua epoca, oltre che il pio marito di Santa Elisabetta. Questo dato storico rende improbabile che il racconto del “miracolo delle rose” sia del tutto vero: dato che Lodovico la appoggiava nei suoi atti di carità, Elisabetta non avrebbe avuto alcun motivo di nascondergli il pane che stava portando ai poveri. La leggenda, tuttavia, ha sicuramente un suo fondamento: il resto della corte Turingia probabilmente non era comprensiva come Lodovico verso le “follie di amore” di Elisabetta e non è escluso che durante uno di questi atti di Carità un importante membro della corte abbia sorpreso la Principessa e che il Signore la abbia protetta trasformando il pane in rose.

Lodovico IV collaborò spesso con l'Imperatore Federico II per la gestione dell'impero e, mentre lui era in Italia, Elisabetta governò al suo posto e distribuì elemosine in ogni angolo del suo territorio. Inoltre, nella primavera del 1226, costruì un ospedale, visitando quotidianamente i ricoverati, ed arrivando ad aiutare contemporaneamente novecento poveri.

Nel 1227, Lodovico aveva in progetto di partire come crociato per la Terra Santa con l'Imperatore Federico II, ma l'11 settembre morì di peste  ad Otranto. La notizia raggiunse Elisabetta, ventenne, in ottobre, poco dopo il Suo terzo parto.

Dopo la morte del marito Elisabetta lasciò il castello o forse ne fu espulsa, e, con quattro sue ancelle e compagne con le quali aveva già abbracciato la spiritualità di S. Francesco, si dedicò più intensamente alla preghiera e alla carità. È da precisare che al tempo di Elisabetta non esiste ancora un terz’ordine come noi lo conosciamo. Esistono uomini e donne che sull’esempio di Francesco, conosciuto attraverso la predicazione dei suoi frati e la divulgazione della sua “Lettera a tutti i fedeli”, scelgono di dedicarsi alla “penitenza”. Elisabetta e le sue quattro compagne entrano a pieno titolo in questa schiera.

Elisabetta morì nel 1231 a 24 anni. Nel 1235 fu canonizzata da Gregorio IX divenendo così la prima santa francescana canonizzata[1].


[1] S. Francesco era stato canonizzato nel 1229 e S. Chiara era ancora in vita.

venerdì 11 novembre 2022

Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra

«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno … Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.» (Ml 3,19-20)

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.» (2Ts 3,7-12)

«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta … Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». (Lc 21, 5-19)

La Parola di questa XXXIII domenica del Tempo Ordinario, essendo ​ormai prossimi alla fine dell’anno liturgico, ci invita a guardare la nostra vita avendo come orizzonte le “realtà ultime”.

«Maestro, quando dunque accadranno queste cose …?» Gesù non risponde alla domanda sul quando se non descrivendo segni riscontrabili in ogni epoca. Non dobbiamo, infatti, preoccuparci tanto di “quando” verrà il giorno del Signore, ma vivere ogni giorno in modo da essere trovati pronti. Il Maestro, inoltre, ci mette in guardia dai “falsi profeti”, da coloro che per guadagno ci predicono il futuro. Il nostro futuro lo costruiamo ogni giorno collaborando al progetto d’amore che il Padre ha per noi (o, per nostra rovina, discostandoci da esso). Cercare di conoscere/controllare il futuro con la magia è una grave mancanza di Fede; è incompatibile con il dirsi cristiani. Gesù ci invita anche a diffidare da profezie millenaristiche, messaggi autoreferenziali («Sono io») e segni grandiosi dal cielo che starebbero ad indicare la ormai prossima fine del mondo. Oggi il Vangelo ci invita a perseverare nella Fede con la consapevolezza che il nostro tempo va verso il compimento: in qualunque momento per me può venire “il giorno” in cui per me il mondo sarà finito e sarò chiamato ad aprire gli occhi all’Eternità.

Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno Il messaggio del profeta Malachia riportato nella prima lettura assume toni minacciosi per tutti coloro che con superbia non tengono conto del giudizio di Dio e commettono ogni sorta di ingiustizia: verrà il giorno del Signore e costoro, che si pensavano al di sopra di ogni giudizio, dovranno rendere conto della loro vita. Per coloro, invece, che riconoscono la Signoria di Dio sulla loro vita e vivono protesi verso il suo Regno, quel giorno verrà come il compimento della loro Speranza.

È a questo giorno che si riferisce Gesù invitando i suoi a relativizzare le realtà terrene: «... di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra». È costante per l’uomo la tentazione di “farsi da se”, di idolatrare il proprio lavoro quasi che esso possa dargli la Vita. Magari con la speranza di “sconfiggere la morte” realizzando opere che ci facciano continuare ad esistere nella memoria di chi verrà dopo di noi. Gesù, però, ci ricorda che la nostra Vita (la nostra salvezza) non dipende da ciò che siamo capaci di realizzare: passa la scena di questo mondo e non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Ciò che conta, quindi, non è tanto ciò che abbiamo realizzato, ma il motivo per cui lo abbiamo realizzato, l’orientamento che abbiamo dato alla nostra vita, il rinnegamento del proprio io per fare posto all’amore per Dio e per i fratelli (cfr. Mt 16,24-25). In questa prospettiva trova posto anche la persecuzione. Una conseguenza inevitabile se ci facciamo testimoni della logica evangelica, una logica diversa da quella del mondo e che il mondo non può accogliere.

In questa logica, infine, anche “la grazia di lavorare”, usando l’espressione di S. Francesco, trova la sua giusta collocazione come collaborazione all’opera creatrice di Dio e condizione in cui giungere alla piena realizzazione della nostra vita: la santità (cfr. Gaudium et Spes 67 e Lumen Gentium 41).

Alla tentazione di salvarsi la vita con il proprio lavoro e con i beni di questo mondo (una tentazione attualissima), San Paolo, nella seconda lettura, ne affianca una opposta: la tentazione di non lavorare e di attendere passivamente il giorno del Signore. A Tessalonica, probabilmente, la comunità cristiana, o alcuni suoi membri, era caduta in questo inganno. L’Apostolo, prima con il suo esempio e poi con il suo insegnamento, ribadisce la dignità, il senso e la necessità del lavoro.

Non preoccupiamoci, allora, del quando sarà il giorno del Signore; preoccupiamoci piuttosto ci come ci troverà quel giorno: indaffarati nelle nostre cose e dimentichi di Lui, intenti a gozzovigliare, oppure occupati nel lavoro che Lui ci ha assegnato e tutti protesi verso l’incontro?

Fr. Marco

sabato 5 novembre 2022

Dio non è dei morti, ma dei viventi

 «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». (2Mac 7,1-2. 9-14)

«Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.» (2Tes 2,16 – 3,5)

​«… quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, … sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui.» (Lc 20,27-38)

​La Parola di oggi, XXXII domenica del Tempo Ordinario, ci mette dinanzi la realtà della resurrezione dei corpi per la vita eterna alla fine dei tempi. Un articolo della nostra professione di fede: «Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.» Noi lo proclamiamo, ma siamo consapevoli che è difficile vivere realmente questa fede, perché la nostra cultura scientifica e razionalista ci dice che è impossibile la resurrezione della carne.

L’uomo, quindi, è diviso tra il desiderio di “ulteriorità” che sente nel suo intimo («Non può finire tutto qui!») e l’impossibilità scientifica della resurrezione. Per questo a volte si rifugia in credenze di matrice orientale che, però, gli fanno perdere il senso della sua individualità (per esempio la credenza nella trasmigrazione delle anime e nella reincarnazione); oppure vive ancorato a questo mondo tutto in tensione verso una sorta di “vita futura” nella memoria dei suoi discendenti a cui lasciare le proprietà accumulate. È quest’ultima logica, probabilmente, il motivo per cui nel Vangelo di oggi i Sadducei richiamano la legge del Levirato (una legge che vuole, invece, affermare che siamo solo amministratori e non proprietari della “Terra Promessa”, dei beni che il Signore ci affida: non possiamo dunque disporne a piacimento, ma siamo chiamati a custodirli).

Provocato dai Sadducei, Gesù dice una parola autorevole sul tema della resurrezione. I Sadducei, difensori della legge del Levirato, forse vedono in esso un mezzo per continuare ad avere proprietà e un ruolo di rilievo nella società; forse sono anche influenzati dall’antropologia dualistica dell’ellenismo che vede nel corpo la prigione dell’anima e la radice di ogni male; un’antropologia estranea alla Rivelazione che ha, però, influenzato anche il nostro modo di pensare. I Sadducei, quindi, probabilmente aspirano alla liberazione dell’anima dal corpo e vedono come impensabile la risurrezione dei corpi.

«La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie?» Quale che sia la loro motivazione, la loro argomentazione, però, pur rifacendosi alla legge mosaica del Levirato, mostra una concezione errata sia della vita futura, sia della donna e del matrimonio. La donna, infatti, è vista come “una proprietà” che tutti e sette i fratelli del racconto hanno il diritto di rivendicare. Non a caso, nel parallelo di Marco, Gesù li rimprovera: «Siete in grande errore!» (Mc 12, 27). 

Nella sua risposta il Maestro non si concentra tanto sul “come”, ma attesta la realtà della resurrezione rifacendosi anche Lui alla tradizione mosaica: il modo in cui Dio si presenta a Mosè: «il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Abramo, Isacco e Giacobbe al tempo della rivelazione a Mosè erano ormai morti da generazioni. Se questi patriarchi con la loro morte avessero cessato di esistere, allora Dio sarebbe un Dio dei morti, degli inesistenti, e quindi morto/inesistente egli stesso. Dio, invece «non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Anche i fratelli di cui ci narra la prima lettura mostrano di avere fede nel Dio dei viventi e nella resurrezione ed è essa a dare loro la forza di rimanere fedeli anche nella persecuzione.

Quanto al “come” della resurrezione, resta un mistero. Gesù si limita a dire che saremo uguali agli angeli. L’appellativo di “figli di Dio” mi richiama la prima lettera di Giovanni nella quale si dice: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Non sappiamo come avverrà la resurrezione della carne e come sarà questa carne; sappiamo, però, che Gesù è risorto come primizia e possiamo quindi intuire, contemplando Lui risorto, che il corpo della resurrezione sarà un “corpo glorioso”, spirituale, capace di entrare a porte chiuse eppure tangibile. Sarà il “nostro” corpo pur non essendo “questo” corpo soggetto alla corruzione. Confortati da questa fede, viviamo la vita tenendo lo sguardo fisso alle realtà ultime.

Fra Marco.