venerdì 30 settembre 2022

Terzo giorno del Triduo: Il Cantico di Frate Sole

 «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.» (Lc 17,5-10)

In questo terzo giorno del Triduo di san Francesco, ascoltando la pagina evangelica della liturgia domenicale, prendo spunto dall’invito ad avere fede e a contemplare l’obbedienza del creato a Dio e a quanti hanno fede, per leggere con voi la preghiera forse più conosciuta di San Francesco: il Cantico di frate sole[1].

1 Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

5 Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore :
de te, Altissimo, porta significatione.

10 Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle,
in celu l’ai formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sustentamento.

15 Laudato si’, mi’ Signore, per sor ‘aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte,
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

20 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’ , mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.

25 Beati quelli ke’ l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali,
30 beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
et serviateli cum grande humilitate.

Conosciuto anche come il Cantico delle Creature, il Cantico di frate Sole, la lauda francescana in volgare italico diventata uno dei testi più amati della letteratura cristiana, è sgorgato dal cuore di Francesco a San Damiano di Assisi un freddo mattino della primavera 1225 (Francesco ha probabilmente 43 anni). Come ci informa il biografo Tommaso da Celano (cfr. 1 Cel 105: FF 502), Francesco è molto malato: il suo ventre si era gonfiato, le sue gambe si erano inturgidite (idropisia), la malattia agli occhi lo ha reso quasi cieco e il resto del corpo era così macilento che il Serafico Padre sembrava ormai ridotto solo a pelle e ossa. È in queste condizioni che Francesco compone il cantico dopo una notte turbata da inauditi tormenti, ma consolata dalla promessa divina di cieli nuovi e terra nuova inondati dalla luce di Dio: «Perciò, rallégrati e sii pieno di giubilo nelle tue infermità e tribolazioni, perché da questo momento puoi ritenerti così sicuro come se fossi già nel mio regno» (CAss 83; FF 1614).

Il Cantico, che si manifesta «modellato liberamente insieme sul ritmo dei Salmi e dei Cantici, e su quel tipo di prosa rimata che trionfò in quei secoli anche nel'uso liturgico e che proprio in quegli anni cominciava ad essere applicata anche al volgare»[2], non è una esaltazione delle creature, ma una liturgia cosmica, un grande appello universale alla lode del Creatore, come peraltro aveva già capito il Celano che, in una pagina della sua prima biografia, del Cantico lascia trasparire tutto, l'empito contemplativo e le fonti bibliche: «Come un tempo i tre fanciulli gettati nella fornace ardente invitavano tutti gli elementi a glorificare e benedire il Creatore dell’universo, così quest’uomo, ripieno dello spirito di Dio, non si stancava mai di glorificare, lodare e benedire, in tutti gli elementi e in tutte le creature, il Creatore e governatore di tutte le cose.» (1 Cel 80; FF 459). La lode umana del perdono, della sofferenza e della morte (vv. 23-31), introdotta in momenti successivi, rende evidente l'ispirazione cristiana di «questo canto dell'universo redento, pacificato e salvato in Cristo, vero canto pasquale del mondo nuovo, che Cristo riconsegnerà al Padre» (F. Olgiati).

Dalla definizione del Cantico come liturgia cosmica derivano gli altri suoi tratti costitutivi: lo sguardo stupito del cantore che, dopo aver proclamato il diritto esclusivo di Dio alla lode (vv. 1-4), discende dai corpi celesti incorruttibili, il sole, la luna e le stelle (vv. 5-11), ai quattro elementi sublunari, il vento, l’acqua, il fuoco e la terra (vv. 12-22), per trascinarli subito nel moto ascendente della lode ad Te solo, Altissimo; verità e amore del Padre creatore che traspaiono dal volto e dal nome delle creature, tutte chiamate frate e sora per la prima volta nella storia del mondo.  L'uomo, infine, entra nella lode assumendo il volto infermo, tribolato, obbediente fino alla morte (Fil 2,8), del Cristo, in attesa della corona di vita (vv. 23-31). Non è da trascurare, inoltre, l'importanza del versetto di congedo, Laudate e benedicete... (vv. 32-33), che segnando grammaticalmente il passaggio da Dio, destinatario della lode, agli ascoltatori umani ai quali è rivolta la esortazione, costituisce la conferma interna al testo degli scopi molteplici per i quali il Cantico è sgorgato dalla mente e dal cuore di Francesco.

Sappiamo che il versetto sul perdono (v. 23) nasce in un momento successivo. Ad Assisi il vescovo e il podestà litigano ferocemente e Francesco vede compromesso il sommo bene della pace.  Rivolto ai frati che lo assistevano così si esprime: «Grande vergogna è per noi, servi di Dio, che il vescovo e il podestà si odino talmente l'un l'altro, e nessuno si prenda pena di rimetterli in pace e concordia» (Legper 44: FF 1593; cfr. Spec 101:FF 1800)

Composta la strofa sulla pace, il serafico padre mandò due frati dal podestà e altri due dal vescovo, perché in suo nome, cantassero loro il Cantico con l'aggiunta della nuova strofa invitandoli alla riconciliazione. Secondo il resoconto dei compagni il successo dell'impresa fu schiacciante: le due autorità si avvicinarono l'una all'altra, confessarono la loro colpa e si perdonarono a vicenda (cfr.Legper 44: FF 1593; Spec 101: FF 1800). La strofa della pace, come del resto l'intero Cantico, è rivolta a Dio ed è, prima di tutto, una preghiera. Considerando l'afflizione provocata dal contrasto, Francesco loda il suo Signore per tutti coloro che perdonano. La sua preghiera è allo stesso tempo anche una lirica in cui risuonano accenti di predica, invito ed ammonizione, con cui si rivolge alle parti avverse. È proprio col richiamarsi a Dio, che è il Signore di entrambi, che raggiunge lo scopo della sua iniziativa di pace. Ciò rappresenta un'altra vittoria del suo amore, derivante dalla sua intensa relazione intima con Dio e dal suo rapporto vivo e profondo, fino all'ultimo con i fratelli, con il creato e tutte le sue creature.

All’approssimarsi di sorella nostra morte corporale, dopo una vita tutta donata al Signore, Francesco è colmo di gratitudine e dal suo cuore, pur in mezzo ai tormenti, sgorga la lode. Impariamo dal Serafico Padre a donare la Vita a Dio e ai fratelli per sperimentare la gioia vera e con lui lodare il Signore

Fr. Marco


[1] [1] l’analisi della Preghiera è presa in gran parte da: Carlo Paolacci, in Francesco d’Assisi. Scritti, pp. 229-231

[2] Branca, Il Cantico, p. 69

giovedì 29 settembre 2022

Secondo giorno del Triduo: Lodi di Dio Altissimo

 «Giobbe prese a dire al Signore: “Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò”». (Gb 38,1.12-21; 40,3-5)

«Guai a te, Corazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite» (Lc 10,13-16)

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita all’umiltà, a restare nel giusto posto dinanzi a Dio, e a convertirci. Sia l’una che l’altra cosa sono possibili solo a partire dalla conoscenza di Dio, dall’avere fatto esperienza della Sua presenza e del Suo amore. Solo all’interno di un rapporto d’amore, infatti, per quante cose avremo fatto, ci sembrerà sempre di avere fatto ancora poco.

In questo secondo giorno del triduo di S. Francesco, a partire dalla preghiera “Lodi di Dio altissimo” scritta da Francesco nel settembre del 1224 sulla Verna dopo avere ricevuto il dono delle Stimmate (a circa 42 anni, due anni prima della morte), mediteremo sul rapporto di fiducia e d’amore di Francesco con Dio. Del resto “la bocca parla dalla pienezza del cuore”: dal modo di pregare di Francesco possiamo desumere quale sia l’esperienza che ha fatto di Dio.

Francesco ha sempre preso sul serio il suo rapporto con il Signore mettendo in pratica alla lettera ciò che capiva del vangelo. In tal modo si è tanto conformato a Lui che, due anni prima di morire, il Signore gli ha concesso il dono delle stimmate quasi a bolla di solenne approvazione della sua vita.

Proprio in occasione delle Stimmate, dopo avere affrontato circa due anni di una oscura tentazione di cui le fonti non ci dicono niente di preciso, Francesco scrive le Lodi di Dio altissimo. In questa preghiera, culmine della sua esperienza spirituale, Dio ha un protagonismo assoluto: «Tu sei santo … Tu sei forte … Tu sei grande …».

Come dicevo, sia le stimmate che le Lodi sono la conclusione di un periodo oscuro in cui probabilmente Francesco si era convinto di avere sbagliato tutto nella vita: l’Ordine da lui fondato, a partire da quei primi fratelli che lo avevano seguito, non lo vuole più come guida e non vive con radicalità ciò che il Signore gli ha ispirato. Questo periodo di tentazione, però, lo porta ad un’ulteriore maturazione della sua donazione al Signore. Nel momento in cui riceve le stimmate, infatti, Francesco ha ormai ha smesso di confidare nelle sue forze e ha rinunciato ad ogni tipo di conforto umano e “carnale”: è poverissimo, malato, si ritiene il più piccolo tra gli uomini, ha abbandonato il governo dell’ordine e ha vissuto il rifiuto dei suoi stessi fratelli. Ormai è veramente spoglio di ogni conforto umano. Ormai il suo solo sostegno è Dio.

Da questa profonda e serena consapevolezza sgorga la preghiera di Francesco che adesso andremo ad esaminare[1].

Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende.
Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei l’Altissimo.
Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre santo, Re del cielo e della terra.
Tu sei trino e uno, Signore Iddio degli dèi.
Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero.
Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà.
Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la pace.
Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza.
Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra ricchezza.
Tu sei bellezza. Tu sei mitezza.
Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il difensore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei rifugio.
Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza.
Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore.

«Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende.» Il primo verso sembra offrire la chiave di lettura di tutta la preghiera. Sono indicate le due direzioni: Dio nel suo mistero insondabile a cui è dovuta la lode per se stesso e Dio che compie cose stupende e salvifiche per l’uomo.

Possiamo suddividere le Lodi in quattro strofe in cui sono riprese le due direzioni: nella prima strofa Dio è adorato per se stesso. Le altre tre strofe contemplano Dio nelle sue opere stupende a salvezza dell’uomo: la seconda strofa è più improntata all’agire di Cristo; la terza è posta sotto il segno dello Spirito Santo; la quarta, infine, guarda al futuro che Dio ci prepara.

Analizziamo ora le singole strofe. Nella prima abbiamo detto che si contempla la grandezza e la bontà di Dio, ascoltiamola:

«Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei l’Altissimo. Tu sei il Re onnipotente. Tu sei il Padre santo, Re del cielo e della terra. Tu sei trino e uno, Signore Iddio degli dèi. Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene, Signore Iddio vivo e vero

La prima cosa che notiamo è che quella di Francesco è preghiera pienamente cristiana perché è trinitaria. Il nucleo centrale di questa strofa è l’invocazione «Tu sei il Padre Santo»: la santità di Dio che Francesco contempla è la santità di un padre benevolo e prodigo di doni verso i suoi figli: per tre volte sottolinea il termine «Bene». Il giusto modo per rapportarsi a tale padre è la preghiera di gratitudine che comporta anche una relazione riverente e responsabile verso i beni della terra.

Nella seconda strofa contempliamo l’amore di Dio come totalmente appagante:

«Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà. Tu sei pazienza. Tu sei bellezza. Tu sei sicurezza. Tu sei la pace. Tu sei gaudio e letizia. Tu sei la nostra speranza. Tu sei giustizia. Tu sei temperanza. Tu sei ogni nostra ricchezza»

I numerosi «Tu» di questa strofa hanno tutti in comune il rivolgersi amoroso di Dio verso l’uomo. L’amore, infatti, occupa il primo posto ed è espresso con due termini: amore e carità. L’amore che Dio è, si riversa nella storia nell’opera della salvezza ed ha un nome e un volto preciso: Gesù Cristo. In questa strofa ogni invocazione ha un riferimento cristologico di sapore scritturistico: Gesù è “sapienza di Dio”, è “il più bello tra i figli dell’uomo” ecc. Il titolo che più colpisce, però, ha un sapore squisitamente francescano: «Tu sei umiltà». Francesco ha fatto dell’umiltà di Gesù una continua pratica di vita. In ciò Francesco è davvero guida sicura per chi si pone alla sequela dell’unico Maestro: le virtù di Cristo che nomina sono da lui pienamente vissute e indicate ai suoi fratelli come pratica di vita. Solo in questa maniera potremo trovare in Dio «ogni nostra ricchezza» e quella pienezza di vita di cui siamo “assetati”.

Nella terza strofa contempliamo Dio come forza e ristoro:

«Tu sei bellezza. Tu sei mitezza. Tu sei il protettore. Tu sei il custode e il difensore nostro. Tu sei fortezza. Tu sei rifugio

In questa strofa Francesco ci guida alla contemplazione dell’opera dello Spirito Santo. È da notare che per tutti i titoli di questa sezione è possibile reperire un parallelo nel Veni Creator e nella sequenza di pentecoste Veni Sante Spiritus. Nel Veni Creator lo Spirito è detto «acqua viva, fuoco, amore» e ancora «luce all’intelletto, fiamma ardente nel cuore». Le uniche creature che Francesco chiama “belle” nel “Cantico di frate Sole” sono il sole, la luna, le stelle e il fuoco: quelle che irradiano luce. Il fuoco e la luce, inoltre, sono tra le immagini preferite dalla liturgia di pentecoste per invocare lo Spirito: per questo Francesco pensando allo Spirito può affermare «tu sei bellezza».

Nella quarta strofa, infine, contempliamo Dio come il datore di un futuro illuminato dalla speranza:

«Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore»

L’affermazione più importante di questa sezione è «Tu sei speranza»: il nostro sguardo è subito orientato al futuro. Davanti al crocifisso di S. Damiano Francesco aveva pregato per avere una «fede dritta, speranza certa e carità perfetta»; ora Dio stesso è riconosciuto da lui come fede speranza e carità: il suo rapporto d’amore con Dio si è andato approfondendo in un’esperienza di comunione. I doni che Dio è per noi, Fede, Speranza, Carità e Vita Eterna, non possono che suscitare in noi sentimenti e risposte; da qui l’affermazione di Francesco: «Tu sei tutta la nostra dolcezza». Nel Testamento, parlando della sua vocazione e di come il Signore lo portò tra i lebbrosi, Francesco ricorda come ciò che prima gli era amaro gli fu cambiato in dolcezza. A due anni dalla morte, sulla Verna, Francesco rivive questa paradossale esperienza di amarezza intrisa di dolcezza nel partecipare della passione di Cristo ricevendo le Stimmate a conferma e coronamento di una vita tutta volta alla contemplazione dell’Amore non amato.

È da notare, infine, l’ultimo titolo attribuito a Dio in questa preghiera: «misericordioso salvatore» che fa da contrappeso immediato al titolo di «grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente»: Francesco ha trovato in Dio se stesso, quiete, sicurezza e pace. Il suo cuore è pervaso in abbondanza da profonda delizia e speranza: coglie tutta la tremenda sublimità di Dio, ma anche la sua infinita misericordia cui spetta l’ultima parola.

Fr. Marco


[1] l’analisi delle Lodi è presa da: L. Lehmann, La Preghiera Francescana, EDB, pp. 88-95.

Primo giorno del Triduo: La preghiera al Crocifisso

«Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.» (Dn 7,9-10.13-14)

«“Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”. Gli rispose Gesù: “Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!”Poi gli disse: “In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”». (Gv 1,47-51)

Cominciamo oggi il triduo in preparazione alla festa di san Francesco d’Assisi (in modo da lasciare il 2 ottobre alla Parola di Dio domenicale lo spazio che le spetta). Il questi tre giorni proverò a presentare la spiritualità di san Francesco a partire da tre preghiere da lui composte in momenti particolari del suo percorso.

Prendendo spunto anche dalla Parola di Dio che oggi, festa dei santi Arcangeli, ci fa contemplare i Cieli aperti e la Gloria di Dio e del Figlio dell’Uomo circondato dalle schiere angeliche, in questo primo giorno partiremo dalla Preghiera davanti al Crocifisso[1]:

Altissimo, glorioso Dio,
illumina le tenebre de lo core mio.
E damme fede dritta,
speranza certa e caritade perfetta,
senno e cognoscemento, Signore,
che faccia lo tuo santo e verace comandamento.
Amen.
(FF 276)

Si tratta probabilmente del più antico fra quelli che vengono considerati gli «scritti» di Francesco e apre uno spiraglio diretto sulla sua interiorità negli anni cruciali della conversione (1205-1206; Francesco ha probabilmente 23 o 24 anni), quando i segni della chiamata divina si andavano moltiplicando, ma Francesco non era ancora uscito pienamente dall'ombra della notte e con grande sofferenza «insisteva nella preghiera, affinché il Signore gli indicasse la sua vocazione» (3Comp 10; FF 1406). Non è da escludere che fosse già formulata il giorno in cui Francesco, probabilmente nel gennaio 1206 «mentre passava vicino alla chiesa di San Damiano, gli fu detto in spirito di entrarvi a pregare. Andatoci, prese a fare orazione fervidamente davanti a un'immagine del Crocifisso...» (3Comp 13; FF 1411).

Pur se questa preghiera è composta in volgare, riaffiorano tra le righe le memorie del Salterio sul quale il figlio di Pietro Bernardone, secondo la prassi del tempo, da fanciullo aveva imparato a leggere nella Chiesa di S. Giorgio: l'invocazione «Dio, illumina le tenebre de lo core mio» ricalca il salmistico «Il mio  Dio rischiara le mie tenebre» (Sal 17/18, 29), e la formulazione «et damme [..] / senno e cognoscemento, / Signore, che faccia...» richiama alla mente «Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge e la osservi con tutto il cuore.» (Sal 118/119, 34).

Dalla preghiera emerge il profilo di un orante ripiegato sul proprio “io”, che non ha ancora scoperto la via liberante della pura lode, ma è in attesa vivissima di luce e insiste nella preghiera di domanda, benché si tratti di richieste altamente spirituali: le tre virtù teologali e il dono del “conoscere" orientato alla grazia del “fare”. Qui già intravediamo il Francesco insofferente di ogni “scienza” che non si trasformi in “vita” che più tardi detterà l’Ammonizione VII: «La pratica del bene deve accompagnare la scienza» (FF 156). Molto significativi sono anche gli aggettivi utilizzati: dall'Altissimo, glorioso dell'attacco, che riflette la gloria pasquale del Crocifisso di San Damiano, alla triade misuratissima di appellativi che accompagnano «fede retta, speranza certa e carità perfetta», che probabilmente è mutuata dal Trattato sui Filippesi di S. Ambrogio, fino al «lo tuo santo e verace comandamento», ultima eco orante del Salterio, che canta «Verità sono tutti i tuoi comandi» (Sal 118/119, 86).

A prima lettura, l'insistenza con la quale Francesco chiede «illuminazione», «senno e cognoscemento», sembra denunciare uno stato di oscurità interiore, che peraltro corrisponde assai bene al momento biografico che egli sta vivendo. Ma a un esame più attento emergono anche le grandi luci: la fede che l'Altissimo, glorioso Dio è il datore di ogni grazia; l'intuizione che solo fede, speranza e carità - virtù teologali, doni di Dio - possono davvero illuminare il cuore e cambiare la vita; la convinzione implicita che ogni conoscenza da sola è vana, senza l'osservanza del «santo e verace comandamento» del Signore. Sono i capisaldi di teologia spirituale dai quali Francesco non si allontanerà mai più.

Fr. Marco


[1] l’analisi della Preghiera è presa in gran parte da: Carlo Paolacci, in Francesco d’Assisi. Scritti, pp. 223-225

venerdì 23 settembre 2022

Cesserà l’orgia dei dissoluti.

 

«Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!» (Am 6,1.4-7)

«Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.» (1Tm 6,11-16)

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe … » (Lc 16, 19-31) 

​​Domenica scorsa la Parola di Dio ci invitava imitare la scaltrezza dei figli di questo mondo, a farci furbi, ad usare saggiamente della ricchezza per farci  degli amici tra i poveri, tra “coloro che contano” dinanzi a Dio. Questa domenica, XXVI del Tempo Ordinario, ci mostra un esempio di chi non è stato capace di agire così. La parabola, infatti,  non è rivolta ai poveri perché si rassegnino sperando in un “al di là” in cui le cose saranno diverse, ma ai ricchi: Gesù parla in prima istanza ai Farisei amanti del denaro (v. 14).

“Ricchezza” e “povertà”, inoltre, non vanno intese solo in modo materiale come abbondanza o mancanza di beni; sono principalmente atteggiamenti del cuore: essere attaccati, accecati, dai beni (molti o pochi) che si possiedono o confidare in Dio ponendo in lui la nostra fiducia. Si può essere “ricchi” anche possedendo pochissimo, se a quel poco che possediamo attacchiamo il cuore convinti che da esso dipenda la salvezza della nostra vita. Conseguenza immediata, infatti, è che, non siamo capaci di condividere ciò che abbiamo con i fratelli. Per la spiritualità giudaico-cristiana questa condivisione è un atto di giustizia senza la quale non può esserci pace con Dio e con i fratelli; è un “restituire” a Dio i suoi doni. San Francesco d’Assisi lo sa bene. Nella Legenda dei tre compagni leggiamo che una volta «disse a se stesso: “Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che ricambia tanto largamente”. Da quel giorno incontrava volentieri i poveri e distribuiva loro elemosine in abbondanza» (FF 1397). Per Francesco comportarsi diversamente equivale a rubare al povero ciò che è suo perché ne ha bisogno.

C’era un uomo ricco … Il protagonista della parabola odierna, non è il povero Lazzaro (il cui nome, non a caso, significa “Dio aiuta”), ma il ricco senza nome di cui sappiamo soltanto che banchettava lautamente e vestiva in modo regale. È significativo il fatto che del ricco neanche si sappia il nome: mentre il povero Lazzaro è conosciuto e amato da Dio in cui pone tutta la sua fiducia, il ricco si è sottratto a questo amore accecato dai suoi beni. Il dramma di quest’uomo non è quello di avere ricchezze materiali, ma quello di essersi fatto accecare da esse tanto da non vedere il bisogno del fratello davanti la sua porta. Peggio ancora, il dramma è nell’avere chiuso il cuore al bisogno del fratello e quindi, direbbe san Giovanni, nell’avere chiuso il cuore all’amore di Dio (Cfr. 1Gv 3,17). Ecco il pericolo della ricchezza: ci illude che possa darci la vita, che possa spegnere la “sete di Vita” che ogni uomo sente in se.

Il secondo quadro della prima parte della parabola, narrando la fine di questa vita terrena, mette in luce l’inganno: il povero, che ha confidato in Dio, è accolto in paradiso, “nel seno di Abramo”; il ricco è sepolto. Sperimentano entrambi la sorte che si sono scelti: il povero Lazzaro che confidava in Dio, ora gode di Dio in maniera piena; il ricco che confidava nelle cose, nel cibo e nei vestiti, segue la sorte di questi ultimi: finisce nella terra a disfarsi.

Aprendo uno spiraglio sull’Eternità, la seconda parte della parabola mostra che Lazzaro, il quale confidava nell’aiuto di Dio, vede ora appagata la sua “sete di Vita”; il ricco che si illudeva di appagare la sua sete, sperimenta ora una “fiamma bruciante”: una sete inestinguibile che le cose non sono state capaci di placare e che ora lo divora per l’eternità. Il dramma del ricco, inoltre, sta nell’incapacità di vedere Lazzaro come un fratello: in vita non lo vedeva davanti la sua porta; in morte lo vede come servo («manda Lazzaro intingere … manda Lazzaro ad ammonire»). Facciamo attenzione a come vediamo quanti ci stanno accanto, soprattutto i più poveri e piccoli; attenti alla loro dignità, riconosciamoli fratelli.

“Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” La risposta di Abramo alla richiesta del ricco di mandare Lazzaro a mettere in guardia i fratelli, infine, costituisce un ammonimento ad ascoltare la Parola. L’ascolto che viene chiesto è un “ascolto obbediente”. Il ricco e i suoi fratelli conoscono la Parola, probabilmente partecipano pure alle liturgie, ma questo non cambia la loro vita. Non sia così per noi. Lasciamo che la Parola ci metta in crisi e cambiamo la nostra vita per potere godere di quella pienezza di Vita che solo Gesù può donarci.

Fr. Marco

San Pio da Pietrelcina

 «Così dice il Signore: "Non si vanti il sapiente della sua sapienza, non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco della sua ricchezza.» (Ger 9,22-23)

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.» (Mt 11, 25-30)

Dall’epistolario di P. Pio Vol IV p. 309-310

La Parola di Dio della Festa di San Pio da Pietrelcina ci presenta una virtù fondamentale per i discepoli di Cristo: l’umiltà senza la quale non può esistere la vera Carità, il vero amore di Dio e del prossimo.

Senza umiltà, infatti, non vi può essere alcun’altra virtù in un’anima. Il mondo cerca l’apparenza, i gesti eclatanti; Dio, al contrario ama e sceglie per sé la via dell’umiltà. Anche Padre Pio, discepolo di Cristo sulle orme di S. Francesco, ama e vive l’umiltà.

Il primo tratto distintivo dell’umiltà di cuore, è avere una giusta conoscenza di sé e saper apprezzare gli altri. Il superbo, al contrario, non ha una giusta conoscenza di sé e non è capace di stimare gli altri: o si stima superiore agli altri, o non riconosce ciò che il Signore ha operato nella sua vita perché pretende di essere più grande di quello che è. È questa giusta conoscenza di sé che Padre Pio raccomanda ai suoi figli spirituali: «Non ti meraviglierai affatto delle tue debolezze ed imperfezioni ma riconoscendoti per quello che tu sei, ti arrossirai della tua incostanza ed infedeltà a Dio, ed in Lui proponendo e confidando, ti abbandonerai tranquillamente sulle braccia del celeste Padre come un tenero bambino su quelle materne» (Epist. IV, 257). Ed ancora: «Tenetevi sempre sull’ultimo luogo tra gli amanti del Signore, stimando tutti migliori di voi; rivestitevi di umiltà verso gli altri, poiché Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili.» (Epist. III, 50).

Questa conoscenza di sé e delle proprie debolezze, però non è compiacenza o rassegnazione, ma pazienza con i propri limiti nel continuo impegno, con l’aiuto di Dio, per migliorarsi. È ancora a questo che Padre Pio ci esorta: «Conviene sopportare pazientemente la nostra imperfezione per potere arrivare alla perfezione; dico sopportarla con pazienza e non già di amarla e accarezzarla; l’umiltà si nutre in questa sofferenza.» (Epist. IV, 365)

Prendete il mio giogo sopra di voi. L’umiltà, inoltre è fondamentale per portare insieme a Gesù il giogo della Croce: fare della propria vita un dono d’amore per Dio e per i fratelli. Senza l’umiltà, infatti, senza la giusta conoscenza di noi, potremmo essere tentati di vantarci dei gesti d’amore che il Signore ci concede di fare; potremmo sentirci degni della salvezza. È per l’umiltà che possiamo “restare al nostro posto” riconoscendo che non ci salviamo da soli, ma che abbiamo bisogno della salvezza che ci viene dalla croce di Cristo.

Contemplando quest’oggi l’amore gratuito e fedele di Dio per noi che si manifesta in San Pio, prendiamo umilmente atto delle tante nostre incorrispondenze a questo amore e umilmente chiediamogli Perdono e la Grazia di amarLo imitando la Sua mitezza e umiltà e portando ogni giorno su di noi il Suo giogo – la Croce abbracciata per amore – rinnegando noi stessi per dare a Lui il primo posto nella nostra vita.

Fr. Marco

venerdì 16 settembre 2022

Fatevi degli amici!

 «Il Signore mi disse: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese […]. Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere”». (Am 8,4-7)

«Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.» (1Tm 2,1-8)

«Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.» (Lc 16, 1-13)

Il Vangelo della XXV domenica del Tempo ordinario ​ci presenta qualcosa che, a prima vista, risulta sconvolgente: il Signore loda l’amministratore disonesto! Se ci fermiamo con più attenzione, però, scopriamo che ad essere lodata non è, ovviamente, la disonestà, ma la scaltrezza, o più precisamente la previdenza: l’amministratore disonesto si rende conto di ciò che sta per avvenire, fa i suoi calcoli, e prende provvedimenti. La scaltrezza che il padrone loda sta nel non lasciarsi ingannare dalla “disonesta ricchezza”; disonesta perché promette ciò che non può dare: vita e felicità. La prima lettura, inoltre, ci mette in guardia dall’usare le persone, in particolare i poveri, per i nostri egoistici fini, per accumulare la disonesta ricchezza; chi agisse così è avvisato: «Non dimenticherò mai tutte le loro opere»

So io che cosa farò … «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta» L’amministratore della parabola non si lascia travolgere dagli eventi: prende in mano la situazione ed è capace di fare scelte, anche costose, per assicurarsi un avvenire. Nel chiamare i debitori del suo padrone, infatti, rinuncia al suo immediato e disonesto guadagno per “farsi degli amici” che lo accolgano in futuro.

Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta … Oggi il Maestro ci invita ad essere scaltri e previdenti: il Regno è vicino e saremo chiamati a rendere conto di come abbiamo amministrato i beni che ci sono stati affidati, facciamo scelte che ci assicurino la salvezza eterna. Gesù oggi ci invita a farci amici coloro che possono accoglierci nel Regno: i poveri, gli ultimi, i più piccoli; tutti coloro dei quali Gesù ha detto: «Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me» (Cfr. Mt 25, 31-46).

I “figli di questo mondo” conoscono bene questa scaltrezza: sono disposti a rinunce e sacrifici per ottenere “l’amicizia” di qualcuno la cui parola conti. La loro prospettiva è, però, molto limitata: pensano che il potere e la ricchezza in questo mondo potranno dare loro la Vita di cui ogni uomo è assetato; sperimentano, invece, che potere e ricchezza non bastano mai. Che tristezza quando anche i “figli della luce” si fanno accecare dalla limitata prospettiva intramondana e vanno in cerca di ricchezza e potere; magari proprio a scapito di quegli “amici di Dio” che sono i piccoli e i poveri!

Gesù oggi ci invita ad alzare lo sguardo e a “farci furbi”: la nostra prospettiva è il Regno dei Cieli, la Vita vera che Lui solo può darci. Usiamo bene dei doni che siamo chiamati ad amministrare, non lasciamoci accecare dalle ricchezze come se queste potessero darci la vita con il solo accumularle. Impariamo a condividerle con gli “amici di Dio” per essere accolti nella vera Vita. Una Vita eterna che comincia qui nella gioia della condivisione, nell’amare e sentirsi amati, ma che andrà di pienezza in pienezza per l’Eternità. Ricordiamoci che le persone vanno amate e le cose usate; mai il contrario.

Voglio concludere con un pensiero di San Basilio Magno il quale ci ricorda che i beni della terra non sono “miei”, ma “nostri” e vanno condivisi: «Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato.  Il vestito che è appeso nel vostro armadio è il vestito di chi è nudo. Le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo. Il denaro che voi tenete nascosto è il denaro del povero».

Fr.  Marco.

sabato 10 settembre 2022

Il Dio vivo e vero

 

«Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.» (Es. 32,7-11.13-14)

​«Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.» (1Tm 1,12-17)

«“Rallegratevi con me … questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» (Lc 15,1-32)

​La Parola di Dio di questa XXIV domenica del Tempo Ordinario, ci fa conoscere il Dio “vivo è vero” capace di accendersi d’ira, di pentirsi, di rallegrarsi … ci presenta un Dio che viene a salvare i peccatori. Il “Dio di Gesù Cristo”, quindi, il Padre che Gesù è venuto a rivelarci in pienezza, è ben lontano dal Dio “ motore immobile”, “beata immobilità e immutabilità”, immaginato dai filosofi. La verità del Padre, però, si allontana anche dall’idea di un Dio collerico e vendicativo pronto a “pesare” le nostre azioni e ad elargire punizioni; un’immagine cara ai “farisei” di tutti i tempi.
Il Vangelo di questa domenica, infatti, ci presenta “il trittico” della “parabola della misericordia” costituita da tre scene pervase dal sentimento di angoscia per ciò che si è perduto e dalla gioia al momento del ritrovamento/ritorno. L’evangelista Luca precisa che Gesù racconta questa parabola per rispondere a scribi e farisei che mormorano a proposito del suo accogliere i peccatori e mangiare con loro. L’immagine di Dio che risulta dalla parabola smentisce l’immagine del Dio vendicativo, un’immagine di Dio deformata, mostrando la verità di Dio: il Padre che soffre per la perdita dei suoi figli e gioisce per il loro ritorno. Il Padre che non vuole privarci della Libertà e che, pur indicandoci senza sosta la via della Vita, si fa da parte soffrendo in silenzio quando scegliamo vie che ci allontanano dalla Vita. È proprio questa la verità sconvolgente della Parola di questa domenica: Dio nostro Padre soffre in attesa del ritorno dei suoi figli che si sono perduti, che si stanno rovinando la vita, che hanno dimenticato la loro dignità di figli.
«Così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.» La gioia è grande perché grande è l’attesa: «la  penitenza dell’uomo è il coronamento di una speranza di Dio. L’attesa di questa penitenza ha fatto scattare la speranza nel cuore di Dio … Perché tutti gli altri Dio li ama in amore. Ma quella pecora Gesù l’ha amata anche in speranza.» (C. Péguy, Il mistero del portico della seconda virtù).
Chi sono, però, e qual è la sorte dei novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione? Mi viene immediatamente da pensare, dato che Gesù si rivolge ai farisei, che questo “non aver bisogno di conversione” sia soggettivo e non reale: loro, ingannandosi, pensano di essere giusti e questo impedisce loro di giungere a quella vera Vita che solo Gesù può dare. A quanti sono veramente giusti, tuttavia, è riservata una parte speciale: «rallegratevi con me … quello che è mio è tuo». I giusti sono invitati a prendere parte all’attesa del Padre ed alla Sua gioia. Non possono rimanere indifferenti ad un fratello che si perde e sono invitati a gioire per ogni peccatore che si converte.
Accogliamo, allora, la rivelazione dell’Amore misericordioso del Padre. Purifichiamo la nostra idea di Dio e impegniamoci a seguire la via della Vita perché il Padre possa rallegrarsi e gioire della nostra felicità.
Fr. Marco.

sabato 3 settembre 2022

Discepoli dell'Amore

 

«A stento immaginiamo le cose della terra … ma chi ha investigato le cose del cielo?» (Sap 9, 13-18)

«… perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 1, 9-10.12-17)

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.» (Lc 14, 25-33)

​Questa domenica, XXIII del Tempo Ordinario, la Parola di Dio ci pone una questione fondamentale per la realizzazione della nostra vita: Quale uomo può conoscere il volere di Dio?. Si tratta di avere o non avere quella Sapienza che dà sapore alla nostra vita (“sapienza” e “sapore” hanno la stessa radice nel latino sapio: “aver sapore”). Dal conoscere e fare la volontà di Dio, infatti, dipende la realizzazione o il fallimento della nostra vita. Viviamo veramente quando sappiamo e facciamo la volontà di Dio. Senza questa Sapienza, quindi, la nostra vita risulta insipida, vuota, una vita in cui “tiriamo a campare”. Ecco perché è importane cercare di conoscere il volere di Dio.

A stento immaginiamo le cose della terra … Facciamo continuamente, tuttavia, esperienza della nostra inadeguatezza: a stento riusciamo a conoscere le cose a noi vicine; spesso non conosciamo pienamente neanche noi stessi, tanto da restare sorpresi da alcune nostre reazioni e da non riuscire a dominarci pienamente. Il Padre stesso, però, ci viene incontro donandoci la Sua Sapienza. Nell’antico patto ha donato la Legge; nella pienezza dei tempi ci ha donato se stesso nel Figlio e nello Spirito perché l’Amore, riversato nei nostri cuori, ci rendesse capaci di vivere la Legge.

Gesù, infatti, è la piena rivelazione del Padre, il Verbo eterno che c i rivela pienamente la Via e la Verità della Vita. Per questo noi conosciamo il volere di Dio: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23); «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27).

Anche conoscendo il volere di Dio, però, non sempre viviamo con sapienza, non sempre sappiamo ordinare i valori nella giusta gerarchia: difficilmente rinneghiamo noi stessi per mettere Dio al primo posto. Con difficoltà rinunciamo a tutti i nostri averi (rinunciamo a possedere  e a “possederci”) per camminare dietro il Maestro. Troppo spesso confondiamo le cose importanti con le cose “urgenti”: sappiamo che è importante l’Eucarestia domenicale, ma poi veniamo bloccati da mille cose che ci impediscono l’incontro con il nostro Signore; sappiamo che è importante pregare e meditare la Parola di Dio, ma le “urgenze” di ogni giorno fanno sì che non troviamo tempo da dedicare al Signore; sappiamo che Gesù ci chiede di perdonare “settanta volte sette”, ma spesso l’amor proprio (magari camuffato da “amore di giustizia”) ci impedisce di obbedire al nostro Signore.

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Gesù oggi si mostra esigente: da chi lo segue esige di essere amato al di sopra di tutto, anche della propria vita. Il Maestro oggi ci ricorda che la vita cristiana, la vita da discepoli, è una vita impegnativa e va presa seriamente. Siamo chiamati a camminare dietro a Lui facendo della nostra vita un dono d’Amore: questo significa prendere la croce.

Non è raro, tuttavia, che il nostro modo di vivere la fede ci renda simili a quel tale che ha iniziato a costruire una torre, ma l’ha lasciata incompiuta. Una vita cristiana vissuta con superficialità è una vita che dà scandalo: noi non gustiamo la bellezza della vita e chi ci osserva non è attratto alla sequela (quante volte sentiamo il commento: «Se questi sono quelli che vanno in Chiesa … »)

Accogliamo l’invito del Maestro: prendiamo seriamente l’impegno della sequela e viviamo la vita con sapienza. La nostra vita sarà più bela, più “saporita”, vivremo pienamente.

Fr. Marco