giovedì 31 dicembre 2020

Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.


 « … porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6, 22-27)

«Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.» (Gal 4,4-7)

«Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.» (Lc 2,16-21)

​Oggi, primo giorno dell’anno, che per Volere di S. Paolo VI è anche la giornata mondiale della Pace,  la Chiesa celebra la solennità di Maria santissima Madre di Dio. La Parola di Dio di questa solennità si apre con la benedizione del Signore che, attraverso la sua santissima Madre, fa splendere il suo volto sui suoi consacrati. Trovo veramente confortante che l’anno civile si concluda e si apra nel segno della benedizione del Signore: il tempo, tutto il nostro tempo, è un dono del Padre ed è sotto la Sua benedizione!

In questo ottavo giorno dopo il Natale, inoltre, la pagina evangelica ci conduce ancora una volta, insieme ai pastori, davanti la mangiatoia in cui è adagiato Gesù, il principe della Pace, che viene nel fragile segno di un bambino. Come i pastori, anche noi, siamo invitati a lasciarci prendere dallo stupore.

Forse oggi abbiamo perso la capacità di stupirci: assistiamo continuamente e con atteggiamento indifferente alle più alte manifestazioni di grandezza della nostra umanità e alle più abbiette miserie del genere umano. La globalizzazione ci ha anestetizzati di fronte a grandi scoperte e immani tragedie. La Parola di oggi ci invita a riscoprire il sentimento di stupore che prese i pastori dinanzi la gloria di Dio manifestata nel bambino Gesù. Come i pastori, fidiamoci del Signore e lasciamo che continui a meravigliarci, a mostrarci le sue meraviglie!

Per poterci stupire, però, è importante apprendere l’atteggiamento di Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore»:  meditava la povertà della stalla, la visita dei pastori mandati da un angelo, il canto delle schiere celesti degli angeli. Meditava soprattutto il mistero del suo figlio, Dio fatto uomo ed era consapevole della sua divina maternità. Quel bambino piccolo, debole e bisognoso di tutto era il suo Dio ed era suo figlio! L'infinita tenerezza della maternità di Maria è un riflesso della paternità di Dio.

Iniziando un nuovo anno civile,  oggi impariamo, inoltre, dalla nostra santissima Madre a mettere Gesù al centro della nostra vita. Maria, infatti, in quanto Madre di Dio, è costantemente rivolta al Figlio con lo sguardo, il pensiero, il cuore e tutta se stessa. Ha contemplato Gesù fin dalla sua nascita in costante atteggiamento di stupore e di adorazione.

Credo sia bello oggi pregare il Signore, con le parole di quella che forse è la più antica preghiera mariana (III sec.), perché ci conceda la pace per intercessione della Madre di Dio: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Alla materna intercessione di Maria affidiamo tutte vittime del Covid-19; gli operatori sanitari; le vittime delle catastrofi naturali, terremoti, incendi, alluvioni;  le vittime della violenza e dell'odio, specialmente i cristiani vessati, sradicati, perseguitati e uccisi. Guidati dalla Parola e resi figli nel Figlio, lasciamoci raggiungere dalla benedizione divina e, affidandoci al Cristo Signore cui appartengono i giorni i secoli e il tempo, lasciamo che il Suo volto risplenda attraverso di noi perché il mondo conosca quella Pace vera che il Signore è venuto a portare. Auguri di un Buon 2021.
Fr. Marco

sabato 26 dicembre 2020

La famiglia, "scultura vivente capace di manifestare Dio"

 


«Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande» (Gen 15,1-6; 21,1-3)

«Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso.» (Eb 11,8.11-12.17-19)

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.» (Lc 2,22-40)

Nella festa della Santa Famiglia​, il Vangelo ci presenta il nucleo fondamentale della Chiesa: la famiglia secondo il progetto del Padre.

Il primo dato che emerge è l’obbedienza alla Legge del Signore: la consacrazione al Signore del figlio primogenito e la purificazione rituale della Madre. L’altro dato, che apprendiamo dalle parole del giusto Simeone, è che neanche a Maria Santissima, la benedetta fra le donne, verrà risparmiata la sofferenza: « … anche a te una spada trafiggerà l’anima». L’inno delle Lodi mattutine, inoltre, definisce la sacra famiglia “esperta nel soffrire”. La prima conclusione che possiamo trarre, allora, è che la Pace che viene a portare Gesù non è assenza di tribolazioni, ma la capacità di affrontarle con l’obbedienza fiduciosa animata dall’Amore; quell’amore che vince il mondo e che riempie di una forza invincibile.

È proprio l’obbedienza fiduciosa a cui corrisponde la fedeltà di Dio, la tematica fondamentale che attraversa le letture di oggi. La prima e la seconda lettura, infatti, ci presentano la figura di Abramo che obbedisce e si mette in cammino per strade sconosciute e, proprio quando pensa di avere perso tutto, fa l’estremo atto di fiducia (credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia) e riceve quella discendenza che umanamente gli era preclusa.

È nella famiglia obbediente al progetto di Dio, nella comunione d’amore che si apre alla fecondità, che si manifesta la fedeltà di Dio all’uomo; quella fedeltà che diventa speranza di un futuro e pienezza di vita. Oggi, però, la crisi economica e le tendenze sociali e politiche minacciano la famiglia fin dal suo nascere tanto che si ha sempre più paura di sposarsi e fare figli. L’avere esteso il concetto di famiglia tanto che perfino un uomo e il suo cane o addirittura un uomo e la sua bambola gonfiabile (un esempio del 1 dicembre scorso è Yuri Tolochko) hanno la pretesa di essere definiti “famiglia”, ha svuotato di senso il termine stesso

Slogan pubblicitari come: “Tutto attorno a te!”, “Tu vali!” ecc., inoltre, sono spie di una cultura edonistica in cui il piacere individuale, lo “stare bene”, è divenuto l’unico criterio delle scelte della nostra vita. Spinti da questa esigenza (che, nei giusti limiti, ha la sua legittimità), facciamo spesso scelte che ci rovinano la vita: inseguiamo un miraggio, magari convinti che “quest’uomo”, “questa donna” o finanche “questo figlio” sono la causa del malessere. Alla fine soffriamo e siamo causa di sofferenza. Quanti innocenti sacrificati al nostro egoismo, alla nostra egolatria alla nostra pretesa di benessere!

La Parola di Dio di oggi ci presenta il modo per salvare la famiglia: l’obbedienza fiduciosa che si mette in cammino, non confidando sulle proprie forze e nelle proprie certezze, ma sull’obbedienza alla Parola.

È nella famiglia, infatti, come ci ricorda Papa Francesco, nell’enciclica Amoris Laetitia, che si riscopre l’autentica immagine di Dio: «I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. […] Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore. La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio […] In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente.» (AL 10-11).

Contemplando la santa Famiglia di Nazareth siamo spinti a cercare il criterio del successo della vita familiare nell’obbedienza alla Parola, nel continuo superamento del nostro egoismo, nell'esercizio dell'amore. Un amore che ben conosce il sacrificio personale, la spada che ti trapassa l'anima. La profezia di Simeone a Maria si avvererà sotto la croce, dove Maria, stava, in piedi, a nome di tutta l'umanità.

Quest’oggi, allora, preghiamo insieme perché ogni famiglia trovi la forza di vivere ogni giorno l’Amore vero che viene da Dio e, superando le difficoltà che la vita non risparmia a nessuno, costruisca ogni giorno la comunione e la pace.

Fr. Marco

giovedì 24 dicembre 2020

A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio


 «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”.» (Is 52,7-10)

«Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.» (Eb 1,1-6)

«Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,1-18)

Celebrando la solennità del Natale, siamo invitati a gioire perché è avvenuto l’impossibile: il Verbo si è fatto Carne, l’Eterno è entrato nel tempo, Dio si è fatto uomo; il Creatore si è fatto creatura nel grembo della Vergine per fare di noi, sue creature, figli di Dio. Contemplando il fragile segno del Bambino posto nella mangiatoia, quindi, esultiamo di gioia. Una gioia, però che purtroppo non raggiunge tutti.

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Ad accoglierlo, lo abbiamo sentito nella liturgia della messa della notte, sono solo i pastorelli che vegliavano le greggi. I “grandi della terra” non si accorgono nemmeno della sua venuta. “I suoi”, il popolo di Dio, hanno smesso di attendere e non si accorgono di lui. Tra qualche giorno, inoltre, scopriremo che, tutt’altro che accoglierlo, “i suoi” vogliono eliminarlo.

Non c’era posto per loro nell’alloggio, così abbiamo sentito stanotte. Maria e Giuseppe sono costretti a trovare rifugio in una stalla e la prima culla del Figlio Eterno del Padre fatto uomo è una mangiatoia. Il mondo non lo ha riconosciuto e purtroppo ancora non lo riconosce. Quanti festeggiano un natale senza senso, un natale in cui non nasce nessuno, in cui non c’è Gesù!

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. Il Figlio eterno del Padre è venuto a renderci figli! Non solo creature, ma figli, capaci di riconoscere il Padre e di entrare in relazione con Lui. Cosa significa accogliere il Verbo Eterno fatto uomo? Significa riconoscerlo Dio, Signore della nostra vita e vivere sotto la Sua signoria; significa ascoltare la Sua Parola e fare la Sua Volontà. Se accolgo Gesù come Signore, è evidente che non sono più io il signore della mia vita e sicuramente non sono il signore di quanti mi stanno accanto. Ecco perché è così difficile accoglierlo: l’uomo figlio di Adamo, vuole essere signore, vuole dominare, vuole decidere ciò che è bene e ciò che è male … e così facendo si rovina la vita. Essendo solo una creatura, infatti, non può donarsi la vita. Le sue scelte senza Dio, che è la Vita, non possono che essere scelte di morte.

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. Il Battesimo, conformandoci a Cristo, ci rende figli di Dio. Una volta questo sacramento, celebrato da adulti, era frutto di una scelta consapevole alla quale ci si preparava per anni: davvero si accoglieva Gesù come Signore. Oggi, con il Battesimo dei bambini amministrato in una società anticristiana, spesso ci si ritrova cristiani senza esserlo mai diventati.

Diventare Figli di Dio. In relazione d'Amore col Padre. Con la serena consapevolezza di avere un Padre che provvede a noi. Sapendo che dove non arriviamo noi, arriva il Padre. Con la certezza che la nostra vita è nelle mani del Padre e che alla fine sarà il Suo abbraccio ad accoglierci.

Accogliamo, allora, il Verbo Eterno, la Parola di Dio che si fa carne; riconosciamo, con i fatti e nella verità, Gesù come Signore della nostra vita per sperimentare la gioia di essere figli di Dio. Buon Natale del Signore.

Fr. Marco

venerdì 18 dicembre 2020

Nulla è impossibile a Dio!


« … Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. … io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio”.» (2Sam 7,1-5.8-12.14.16)

«Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, … a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.» (Rm 16,25-27)

​«Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.» (Lc 1, 26-38)

la Parola di Dio della quarta domenica di Avvento ci fa contemplare la figura di Maria, la madre di Gesù attraverso la quale il Signore realizza le Sue promesse a Davide e inizia la Sua opera di redenzione.

Dio è fedele e mantiene le sue promesse, è questo ciò che la Liturgia della Parola di oggi vuole sottolineare. Perché si compiano le meravigliose opere di Dio, però, alla Sua fedeltà deve corrispondere l’obbedienza della nostra fede (II lettura). Solo così, nonostante la nostra piccolezza, il Signore potrà operare grandi cose in noi e attraverso di noi: nulla è impossibile a Dio.

La pagina evangelica di oggi ci presenta Maria come modello di una fede che diventa disponibilità operosa. La prima cosa che sentiamo dire di Maria nel Vangelo è che rimase turbata. Maria conosce le Scritture e si meraviglia si sentirsi appellare come la figlia di Sion (Sof 3,14-15 e Zc 2,14) espressione che racchiude il Popolo dell’alleanza in attesa del Messia. Trovandosi alla presenza dell’angelo Gabriele (“forza di Dio”) che manifesta la potenza del Santo dei Santi, inoltre, prende coscienza della propria piccolezza e indegnità. Certo, Maria, concepita immacolata, non era consapevole di peccato alcuno; ciò non toglie, tuttavia, che sperimentando la presenza di Dio percepisca la propria piccolezza e ne resti turbata. Il turbamento, inoltre, è caratteristica comune di tutte le particolari vocazioni nella Scrittura: il chiamato si meraviglia che il Signore abbia posato lo sguardo proprio su di lui e sulla sua piccolezza; si sperimenta indegno della grazia ricevuta ed ha quel santo “timor di Dio” che non è la paura di Dio, ma il timore di non corrispondere pienamente all’amore di cui ci si vede colmati; il timore di rattristare un così eccelso amante.

Soffermandoci ad osservare meglio il versetto evangelico, infatti, notiamo che Maria «rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto». «Rallegrati, riempita della grazia». Così l’aveva salutata l’Angelo riferendosi alla singolarissima Grazia che Dio le aveva concesso. È proprio la consapevolezza della Grazia ricevuta a suscitare in Maria il turbamento, il “timor di Dio”.

Anche noi nei sacramenti veniamo colmati dalla Grazia di Dio. Lui stesso vivo e vero viene in noi. Impariamo dalla nostra santissima madre come corrispondere a questa Grazia. Dinanzi all’amore di cui si vede colmata, Maria, sa abbandonarsi ad un’obbedienza umile e fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». La Madre ci mostra in tal modo la prima cosa da fare in risposta alla Grazia: fidarsi, e lasciare che il Signore compia la Sua opera in noi e per mezzo nostro; donare la nostra disponibilità operosa.

L’atteggiamento immediatamente successivo in risposta alla Grazia di Dio, è di “rendere grazie”. È ciò che ci invitava a fare la Parola già domenica scorsa, un appello continuo del tempo di Avvento. Alla Grazia di Dio deve far seguito il grazie dell’uomo. Rendere grazie non significa restituire il favore o dare il  contraccambio. Chi potrebbe dare a Dio il contraccambio di qualcosa? Ringraziare significa piuttosto riconoscere la grazia, accettarne la gratuità. Ringraziare significa accettarsi come debitori, come dipendenti; lasciare che Dio sia Dio. Ed è quello che Maria ha fatto con il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore …, perché grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

Nell’atteggiamento del rendimento di grazie, infine, è implicita l’attenzione a non sprecare il dono ricevuto: significherebbe svalutare il dono e offendere il donatore. Facciamo attenzione allora a non sprecare la Grazia che il Signore ci dona nei suoi sacramenti: viviamoli con la giusta consapevolezza e preparazione.

Ormai prossimi alla solennità del Natale, disponiamoci, sull’esempio di Maria Santissima, ad accogliere la Grazia. Prepariamoci seriamente alla celebrazione dei sacramenti, viviamoli consapevolmente e impegniamoci, per quanto è possibile, a corrispondere con l’obbedienza della fede all’Amore di cui siamo stati colmati. La nostra piccolezza non ci spaventi: nulla è impossibile a Dio.

Fr. Marco.

sabato 12 dicembre 2020

Voce di uno che grida nel deserto: il Signore è vicino!

«Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri …» (Is 61,1-2.10-11)

«Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (1Ts 5,16-24)

«Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: “Tu, chi sei?”. Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo. … Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa”» (Gv 1,6-8.19-28)

La liturgia della terza domenica di Avvento, domenica Gaudete, si apre con l’invito, espresso nell’antifona di ingresso: «Rallegratevi sempre nel Signore … »; è lo stesso invito che per tutto il tempo di Avvento ci siamo sentiti rivolgere nella lettura breve dei secondi vespri della domenica. Anche il motivo per cui rallegrarci è lo stesso: il Signore è vicino.

La liturgia della Parola di questa domenica, inoltre, attraverso i due “testimoni dell’Avvento”, il profeta Isaia e Giovanni il Battista, ci mostra ancora meglio il motivo per cui rallegrarci. Nella prima lettura, infatti, il profeta Isaia ci presenta la venuta del Signore come il lieto annuncio rivolto ai miseri, un tempo di grazia e di liberazione per quanti hanno il cuore spezzato o sono schiavi. È il tempo della liberazione e della consolazione, è tempo in cui siamo raggiunti dall’amore misericordioso di Dio. Per questo è tempo di gioia vera ed autentica.

Nel Vangelo, Giovanni il Battista, interrogato dai Giudei, dichiara che il suo compito è quello di parlare a favore della Luce e annuncia la Misericordia di Dio che viene nel mondo: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». Dio è pieno di amore misericordioso per tutta l'umanità, lo dice il suo stesso nome, Giovanni cioè Dio fa grazia, e il padre, Zaccaria, lo canta nei secoli col suo Benedictus. Ecco il motivo per rallegrarsi.

La Parola di oggi, però, ci dà anche alcune indicazioni, per potere essere raggiunti dalla misericordia di Dio ed essere sempre lieti, come ci esorta a fare la seconda lettura.

In ogni cosa rendete grazie … ​La prima indicazione la trovo proprio nel brano tratto dalla prima lettera ai Tessalonicesi. Credo sia fondamentale coltivare il senso di gratitudine, concentrarsi sugli innumerevoli doni che il Signore continuamente ci fa, per evitare che il maligno avveleni la nostra vita e ci tolga la gioia. In quest’ultima parte dell’Avvento, allora esercitiamoci nel ringraziare. Ringraziamo spesso e volentieri il Signore, ma ricordiamoci di ringraziarci spesso a vicenda.

«Io non sono il Cristo … a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». L’altro fondamentale atteggiamento che ci permette di partecipare alla gioia messianica lo troviamo nel Vangelo ed è l’umiltà di Giovanni. L’umiltà infatti è la verità di noi stessi. Non lo sminuirci, ma il riconoscere ciò che siamo ed i nostri limiti. Troppo spesso, invece, ci costruiamo un’idea troppo alta di noi stessi (Cfr. Rm 12,16) e ci affanniamo per mantenerla dinanzi a noi e al mondo. Spesso questa fatica e gli inevitabili fallimenti di questi sforzi ci tolgono la gioia. Io non sono il Cristo. Quanto è liberante ricordarmi che non sono io il Salvatore del mondo! Il mondo è già stato salvato. Gesù Cristo è il Signore della Storia e, se glielo lascio fare, è capace di condurre la mia vita e quella dei miei fratelli a pienezza. Io ho le mie responsabilità, il mio compito, ma Io non sono il Cristo.

Pregate ininterrottamente.  Quest'ultima indicazione dataci da s. Paolo, infine, compendia entrambe le condizioni su esposte: siamo invitati a pregare ringraziando continuamente il Signore per i suoi innumerevoli doni. Consapevoli dei nostri limiti, però, siamo anche invitati a pregare per chiedere al Signore di intervenire in quelle situazioni che superano le nostre possibilità. 

Rallegriamoci, allora, nel Signore, lasciamoci possedere dalla gioia messianica liberandoci con la gratitudine dal veleno dell’invidia e della cupidigia; accogliendo umilmente i nostri limiti confidiamo nel Signore che viene a donarci la Gioia piena. Così facendo, saremo anche noi, come Giovanni, testimoni della presenza del Signore.

Fr. Marco

lunedì 7 dicembre 2020

In lui ci ha scelti per essere santi e immacolati


«Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,9-15.20)

«Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,3-6.11-12)

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te … Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.» (Lc 1,26-38)

Rallègrati, piena di grazia. Il saluto angelico, richiamato dalla bolla di definizione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, Ineffabilis Deus (8/12/1854), presenta Maria come destinataria della pienezza del favore divino, ma anche come piena di quella grazia e bellezza che è la santità, la conformità al progetto di Dio. Non a caso la Chiesa chiama Maria “tutta bella” (tota pulchra) con le parole del Cantico (cfr. Ct 4, 1).

In Maria questa grazia, consistente nella santità, ha una caratteristica che la pone al di sopra della grazia di ogni altra persona, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento: è una grazia incontaminata. La Chiesa cattolica esprime ciò con il titolo di «Immacolata» e quella Orientale con il titolo di «Panaghìa» (Tutta santa). L’una mette più in risalto l’elemento negativo della grazia di Maria, che è l’assenza di ogni peccato anche di quello originale; l’altra mette più in risalto l’elemento positivo, cioè la presenza in lei di tutte le virtù e di tutto lo splendore che da ciò promana.

Parlando del titolo “piena di grazia” dato dall’angelo a Maria, però, dobbiamo ricordare che tale grazia di Dio, di cui Maria è stata ricolmata, è anch’essa una “grazia di Cristo” (come ricorda la bolla di definizione). È la « grazia di Dio data in Cristo Gesù» (cfr. 1Cor 1, 4), cioè il favore e la salvezza che Dio concede ormai agli uomini, a causa della morte redentrice di Cristo.
Assumere questa prospettiva rende la vicenda di Maria straordinariamente significativa per noi, restituisce Maria alla Chiesa e all’umanità.

Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, la categoria fondamentale con la quale si spiegava la grandezza della Madonna era quella del “privilegio” o dell’esenzione. Si pensava che Maria fosse stata esentata non solo dal peccato originale e dalla corruzione, ma si arrivava anche a pensare che fosse stata esentata dai dolori del parto, dalla fatica, dal dubbio, dalla tentazione, dall’ignoranza e, infine, anche dalla morte vista come conseguenza del peccato. Non ci si rendeva conto che, in questo modo, si dissociava completamente Maria da Gesù, che, pur essendo senza peccato, volle sperimentare a nostro vantaggio la fatica, il dolore, l’angoscia, la tentazione e la morte. Le categorie del privilegio e dell’esenzione, portate all’estremo, presentavano la Madre di Dio come una creatura che poco ha a che fare con le nostre quotidiane lotte. Qualcuno da venerare e contemplare, ma troppo distante da noi per potere essere un modello da imitare.

Dopo il Vaticano II, la categoria fondamentale con la quale si parla  della santità unica di Maria è quella della “Fede”. Maria ha camminato, anzi ha “progredito” nella fede (Lumen Gentium 58). Questo, anziché diminuire, accresce a dismisura la grandezza di Maria. Lei è colei che liberamente e per fede ha aderito al progetto di Dio; un progetto singolarissimo che le ha chiesto più che a ogni altra creatura. Di Gesù, nel Nuovo Testamento, si dice che noi «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15); e che, «pur essendo figlio, egli imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8). Fatte le debite proporzioni, queste parole si applicano anche a Maria che si è fatta perfetta discepola del Figlio; potremmo dire, addirittura, che esse costituiscono la vera chiave di comprensione della sua vita.

Come Gesù imparò l’obbedienza, cioè la esercitò e crebbe in essa grazie alle cose che patì, così anche Maria imparò la fede e l’obbedienza; crebbe in esse grazie alle cose che patì, sicché noi possiamo dire di lei, con tutta fiducia: non abbiamo una madre che non sappia compatire le nostre infermità, la nostra fatica, le nostre tentazioni, essendo stata ella stessa provata in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato.

In lui ci ha scelti … per essere santi e immacolati di fronte a lui. come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura di oggi, anche noi siamo stati scelti per essere immacolati. Come è avvenuto per Maria Santissima, infatti, anche noi siamo stati riempiti della Grazia di Cristo; anche noi, per i meriti di Cristo, siamo stati resi immacolati. Maria “per singolare privilegio” è stata preservata da ogni peccato fin dal concepimento; noi siamo stai purificati da ogni peccato e rivestiti di Cristo nel Battesimo, che ci ha resi immacolati, e riceviamo Cristo vivo e vero nella Comunione. Ciò che per nostra disgrazia ci fa differenti da Maria è il modo in cui noi corrispondiamo alla pienezza della Grazia che viene a noi nei sacramenti. Maria corrispose pienamente alla Grazia e disse sempre il suo Sì al progetto d’amore del Padre. Noi, per nostra disgrazia, spesso diciamo no …

Ciò detto, perché la solennità odierna non sia solo la celebrazione di qualcosa che non ci tocca, siamo chiamati a lasciarci plasmare dal mistero che celebriamo perché il Padre possa realizzare anche in noi il Suo progetto d’Amore. Guardiamo allora alla nostra santissima Madre: Maria è madre e forma, stampo in cui plasmarci. Da dove iniziare? Da una contemplazione che diventa desiderio di imitazione, di fare, credere e amare come lei.

 Fr. Marco (rileggendo R. Cantalamessa, Maria uno specchio per la Chiesa)

venerdì 4 dicembre 2020

Ecco, il Signore Dio viene con potenza

«Consolate, consolate il mio popolo … Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede» (Is 40,1-5.9-11)

« … Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.» (2Pt 3,8-14)

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Mc 1,1-8)

Consolate. È questo l'imperativo che caratterizza la seconda domenica di Avvento. Quello che oggi la Parola ci comunica è un messaggio di consolazione: nelle fatiche della vita, nelle difficoltà che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare, siamo invitati a ricordare la consolante notizia che viene il Signore della Vita, Colui che si prende cura di ciascuno di noi. Perché questa venuta possa essere fonte gioia e consolazione, tuttavia, è necessario prepararci.

Domenica scorsa, prima domenica di Avvento, la Parola ci invitava all’attesa e alla vigilanza. Questa seconda domenica la liturgia dà un contenuto a questa vigilanza: siamo chiamati alla conversione, a preparare la via al Signore che viene.

Conversione, lo sappiamo bene, significa cambiare la direzione in cui va la nostra vita, ritornare sui nostri passi abbandonando la strada sbagliata che stiamo percorrendo. È quello che siamo chiamati a fare quest’oggi: lasciare le vie di peccato che ci portano in esilio, lontano dalla Vita, per ritornare al Signore.

La liturgia di oggi, però, ci parla anche di raddrizzare i sentieri, riempire i burroni e abbassare i monti. Conversione, infatti, significa anche questo: preparare la nostra vita ad accogliere il Signore che viene a darci la consolazione che attendiamo.

Guardando onestamente alla nostra vita, scopriamo quanto abbiamo bisogno di queste “grandi opere di ripristino”. Abbassare i monti del nostro orgoglio, colmare i fossi delle mancanze nei nostri doveri, raddrizzare le strade tortuose che stiamo percorrendo. Purtroppo, però, se siamo onesti con noi stessi dobbiamo anche prendere atto di non essere capaci di compiere queste opere. Ecco la buona notizia di questa domenica: sarà il Padre stesso, con la Sua Parola accolta nella nostra vita, a trasformare le nostre vie perché possiamo accogliere il Signore che viene.

Perché questa parola possa essere accolta e produca frutto nella nostra vita, tuttavia, siamo chiamati ad assumere l’atteggiamento di Giovani il Battista: l’attesa operosa e la disponibilità; l’intimità del deserto in cui sperimentiamo la presenza del Signore senza il quale non possiamo fare nulla.

Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. Condizione indispensabile perché la Parola venga accolta e produca frutto, è farle spazio rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e riconoscendo la nostra piccolezza e il nostro bisogno di Dio. È necessario, quindi, anche entrare nel “deserto”, fare tacere i rumori del mondo per potere ascoltare il mormorio della brezza leggera, la Voce del Silenzio, che manifesta la Parola.

Solo dopo avere ascoltato la Parola ed averla lasciata operare in noi, come Giovanni, potremo svolgere la funzione profetica: rimanendo nel silenzio dell’ascolto (nel deserto) siamo chiamati anche noi a farci voce di questa Parola nell’invitare il mondo ad accogliere Colui che solo può donargli la consolazione, pace e la gioia di cui ogni uomo e donna è assetato.

Fr. Marco

venerdì 27 novembre 2020

Fate attenzione, vegliate!

«Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto a noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.» (Is 63,16-17.19;64,2-7)

«Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, … la testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.» (1Cor 1,3-9)

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.» (Mc 13,33-37)

Con questa domenica si apre il tempo liturgico dell’Avvento e la pagina del Vangelo ci esorta con l’imperativo “Fate attenzione, Vegliate”. L’Avvento, infatti, è un tempo caratterizzato dall’attesa. Un’attesa che dà il carattere a tutto l’anno liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta”. I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore cui fare attenzione e prepararsi: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

In attesa della Sua venuta, siamo invitati a vegliare. A questo verbo possiamo dare almeno tre accezioni che indicano altrettanti atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: stare svegli, stare attenti (vigili) e fare vigilia.

Siamo invitati a “stare svegli”, a non lasciarci prendere dal torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. La prima lettura lamenta: nessuno si risvegliava per stringersi a te. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, ad accontentarsi di ciò che viviamo senza aspettare più niente, senza speranza. Stare svegli significa, quindi, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Lo stare svegli, inoltre, significa l’essere pronti a riconoscere e accogliere il Signore quando viene a visitarci nel povero o nel malato.

Siamo invitati a fare attenzione, ad “essere vigili”, per a non cadere nelle trappole del diavolo che “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”. Tra queste trappole, la più pericolosa è l’insinuazione che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Facciamo attenzione ad usare bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede - ne dovremo rendere conto - non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che non ci ha abbandonati, ma si prende cura di noi, anche in modi misteriosi e non sempre comprensibili.

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La gioia deve caratterizzare la nostra attesa: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia è caratterizzato dalla necessità di prepararsi all’incontro, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della penitenza cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento: convertirci, cambiare la direzione della nostra vita, decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della penitenza, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio che nei secondi vespri delle domeniche di avvento ci rivolgerà questo appello: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Credo che il modo più immediato di mettere in pratica questa Parola, sia quello di avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Un esercizio di “conversione”, di decentramento. Non credo che sarà semplice, … ma il Signore è vicino!

Fr. Marco

venerdì 20 novembre 2020

Ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo

 


«Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.» (Ez 34, 11-12. 15-17)

«È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.» (1Cor 15, 20-26.28)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.» (Mt 25, 31-46)

​Nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, ultima domenica dell’anno liturgico, la Parola ci presenta ancora ciò che sarà alla fine del tempo, quando Gesù prenderà possesso in maniera definitiva del suo Regno ricapitolando tutto in sé.

Le letture di questa domenica sono dominate dall’immagine del “re-pastore”. Nella prima lettura, tratta dal profeta Ezechiele, Dio è presentato come un pastore che raduna il suo gregge, lo passa in rassegna e conduce le sue pecore all’ovile. Il profeta scrive contro i governanti del suo tempo che non si sono curarti del bene del popolo, del gregge loro affidato, ma hanno cercato solo il loro interesse. Contro costoro Ezechiele  profetizza un tempo in cui sarà Dio stesso a prendersi cura del suo popolo e a dare a ciascuno ciò che meritano le sue azioni.

Nella seconda lettura san Paolo utilizza un’immagine assai comprensibile al suo tempo: un figlio di Re che, dopo avere condotto una battaglia contro gli usurpatori del regno, lo riconsegna al Padre. Cristo è presentato, quindi, come colui che vince ogni opposizione al Regno dei Cieli.

La pericope evangelica odierna, infine, fa una sintesi delle due figure (... siederà sul trono della sua gloria … come il pastore …). La parabola, infatti, ci mostra questo Re che, preso possesso del suo Regno riconosce “i suoi” distinguendoli da coloro che hanno scelto di vivere sotto un’altra signoria. Discrimine per essere riconosciuti come appartenenti al Regno è il riconoscere, coi fatti, la Signoria di Cristo: vivere come lui ci ha insegnato con l’esempio e la Parola.

Saremo giudicati davanti al trono della sua gloria (v.31). C’è una anticipazione del trono della gloria che è la croce. La Pasqua è il trono della gloria. La croce, allora, è il criterio di valutazione, per Dio, della vita di un uomo. Ogni discepolo è chiamato a “prendere la propria croce”, cioè a fare della propria vita un dono d’amore. Non basta dire “Signore, Signore”. Bisogna mettere in pratica ciò che Lui ha comandato: l’amore per Dio autenticato dall’amore per i fratelli. Soprattutto per i fratelli più piccoli, quelli che non contano nulla nel mondo e che non hanno da ricambiare. 

"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Erediteremo il Regno. L’eredità appartiene ai figli e che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: "Abbà! Padre!" (Gal 4,6) Se viviamo secondo lo Spirito, allora, se ci lasciamo conformare al Figlio, siamo figli ed eredi e, quindi, non più schiavi degli idoli del mondo. Liberi dall’idolatria dell’avere, avremmo chiaro che la vita non dipende da ciò che uno possiede, ma viene dal Padre che conosce i nostri bisogni. Altrove il Maestro ci insegna: «cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33) la “cosa” più importante da cercare e da condividere con i fratelli, allora, non sono i beni materiali (che pure servono), ma la conoscenza e l'annunzio del Regno. Testimoniando con i nostri concreti gesti d’amore che «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4)

Non basta, allora assistere i fratelli, magari con il nostro superfluo e “per metterci a posto la coscienza”, a farci eredi. Eredi lo siamo se, avendo accolto lo Spirito in noi, desiderosi di compiacere il Padre, ci comportiamo da figli amando concretamente i fratelli che abbiamo accanto, condividendo con loro il pane materiale e la conoscenza del Regno. 

...quando mai ... Mi colpisce sempre lo stupore dei giusti e dei reprobi dinanzi la sentenza. entrambi non hanno riconosciuti Cristo nei fratelli. I giusti però, pur non riconoscendo Cristo, si sono conformati a Lui nell'amare i fratelli. Questo, infatti, è importante: che il fratello nel bisogno veda in noi i tratti del Figlio di Dio. 

Solo se saremo capaci di conformarci al Nostro Signore Gesù Cristo nell’amare gratuitamente i nostri fratelli, quindi, potremo essere riconosciuti come “Suoi” ed essere ammessi nel regno preparato per noi. Diversamente, se nella nostra vita non avremo concretamente ed esistenzialmente riconosciuto la signoria di Cristo, ma avremo servito altri padroni, primo fra tutti il nostro “io”, la sentenza finale non potrà che prendere atto di questo stato di cose: saremo esclusi dal Regno, che in sostanza non abbiamo mai riconosciuto, e subiremo la sorte dei ribelli (il diavolo e i suoi angeli).
Accogliamo l’invito di questa Parola e, contemplando le realtà ultime, cominciamo fin da ora a vivere nella Signoria di Cristo per potere, in quell’ultimo giorno, essere ammessi alla pienezza della gioia.

Fr. Marco

venerdì 13 novembre 2020

Prendi parte alla gioia del tuo padrone


«Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.» (Pr 31,10-13.19-20.30-31)

«Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.» (1Ts 5,1-6)

«Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni … Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, … "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". … Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse … “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse …”» (Mt 25,14-30)

In questa XXXIII domenica, ultima del tempo ordinario (domenica prossima celebreremo la solennità di Cristo Re), la Parola ci presenta ancora le “cose ultime” ribadendo la necessità di non farci trovare impreparati. La pericope evangelica, infatti, è tratta ancora dal discorso escatologico. Gesù sta rispondendo alla domanda che i discepoli gli hanno posto (in Mt 24,3) riguardo al “quando” della venuta del Figlio dell’uomo. Anche in questa  parabola, come nella precedente (le vergini sagge e quelle stolte), il Maestro sottolinea che non ci è dato di sapere il “quando”, ma è fondamentale usare bene il tempo presente.

La parabola odierna, inoltre, ci invita all’intraprendenza mossa dall’amore: ciò che il Signore ci chiede è “l’obbedienza creativa” dei figli che, per amore del Padre, non si risparmiano e fanno ciò che sanno può fargli piacere senza bisogno che glielo si chieda. È questo il “timor di Dio” di cui si parla nella prima lettura: il desiderio di compiacere il nostro Padre e il timore di contristarlo. Cosa, in effetti, può dispiacere di più un padre che vedere i figli che sprecano la loro vita?

Siamo invitati a focalizzare l’attenzione, allora, sulla relazione di fiducia che il Padrone vuole instaurare con i servi della parabola: affida loro i suoi beni perché li amministrino creativamente, perché li facciano fruttare, per poi introdurli “nella Sua gioia”. Così il Padre si comporta con ciascuno di noi: ci consegna la vita, la nostra storia, il nostro tempo, le occasioni della vita … perché noi facciamo della nostra vita un capolavoro!

… secondo le capacità di ciascuno Un’altra cosa su cui vorrei fermare l’attenzione, è la differenza nei beni consegnati ai servi e di conseguenza la differenza nel rendimento consegnato al Padrone: ciò che conta non è la quantità del risultato, ma l’atteggiamento di fiduciosa intraprendenza che i servi hanno dimostrato, il fatto che i talenti siano stati trafficati. L’ultimo servo, quindi, viene rimproverato e punito non per la scarsezza del risultato, ma per l’immagine distorta e ingiusta che si è costruito del suo Padrone; per essersi fatto bloccare dalla paura. Mentre i suoi compagni, vistisi trattare come figli, si comportano da tali e si prendono cura di ciò che il Padrone ha affidato loro, il "servo pigro" si trincera dietro una “rigida” giustizia (“ecco ciò che è tuo”), che poco ha a che fare con l’amore, e si comporta ingiustamente nei confronti del suo Padrone attribuendogli un’immagine distorta. La sua eccessiva e “vigliacca” paura lo paralizza e fa sì che i beni affidatigli non fruttifichino: la sua vita è stata sprecata. Il Padrone, quindi, non fa che prenderne atto e dare seguito a ciò che lui ha già determinato: lo tratta a partire dall’immagine che il servo si era costruito di lui e rende palese lo spreco della sua vita.

Nella seconda lettura S. Paolo ci ammonisce: noi non siamo nelle tenebre, ma sappiamo Chi è il Nostro Signore e ciò che chiede a ciascuno di noi. Non lasciamoci, dunque sorprendere, ma facciamo tesoro del tempo presente e, mettendo al bando la paura, agiamo con una intraprendenza fiduciosa nell’amore del Padre. Ricordiamo: chi vuol salvare la vita, la perde!

Fr. Marco.

sabato 7 novembre 2020

“Ecco lo sposo! Andategli incontro!”

 

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.» (Sap. 6, 12-16)

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.» (1Ts 4, 13-18)

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.» (Mt 25, 1-13)

​Essendo ormai prossimi alla conclusione dell’anno liturgico, in questa XXXII Domenica del Tempo Ordinario, la Parola ci fa contemplare le “cose ultime”. La pagina del Vangelo, infatti, è tratta dal “discorso escatologico” del Vangelo di Matteo (capp. 24-25). Gesù sta rispondendo alla domanda dei discepoli riguardo il “quando” della venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo (Mt 24,3). Non ci è dato di conoscere il “quando”, “l’ora” della venuta; ciò che è indispensabile, però, è farsi trovare pronti. Per questo motivo oggi il Maestro ci invita alla vigilanza, a vegliare, a non lasciare che il protrarsi dell’attesa ci faccia dimenticare chi stiamo aspettando.

È ciò che ci vuole comunicare la “parabola delle dieci vergini”: l’esortazione alla vigilanza che si fa attesa di un evento che, per quanto possa “ritardare” rispetto alle nostre aspettative, di sicuro avverrà. 

È anche il motivo per cui la prima lettura ci esorta a vivere con “Sapienza”, cioè secondo la volontà di Dio. La Sapienza che dobbiamo ricercare, infatti, è quel “vivere bene” che si può apprendere solamente ascoltando e meditando la Parola di Dio. Questa Sapienza, va “cercata”, “desiderata”, per essa bisogna “vegliare”; ci viene richiesto, quindi, un certo impegno, una “dolce fatica”; quella fatica che non viene percepita tale perché sostenuta dall’amore. Questo deve essere il nostro impegno nel meditare e comprendere sempre più pienamente la Parola di Dio.

Essere vigilanti nell’attesa, tuttavia, significa anche attrezzarsi per non essere trovati impreparati al momento dell’incontro con lo Sposo. Nella parabola evangelica, tutte e dieci le vergini hanno le lampade, ma solo le vergini sagge si sono procurate l’olio perché queste lampade possano risplendere. 

Fuori di parabola, per la Grazia di Dio ricevuta nel Battesimo, tutti i cristiani siamo nelle condizioni di risplendere della luce di Cristo. Solo coloro che ascoltando la Parola vivono con sapienza, però, restano vigili nella Speranza e vivono una Fede operosa che si traduce nella Carità. Solo loro alla fine avranno raggiunto quella conformità a Cristo che li farà riconoscere come “giusti” e li ammetterà al “banchetto nuziale”.

In verità io vi dico: non vi conosco Gli stolti, coloro che vivono senza sapienza (quindi una vita “insipida”) sono coloro che hanno lasciato sopire la loro speranza (non sperano più nulla e non aspettano nulla); se vivono una parvenza di “fede”, questa è appunto una fede inoperosa, che non si traduce nella vita, ed è, quindi una “fede morta”, come la definirebbe S. Giacomo; spesso l’unico amore che li muove è un disordinato amore del proprio io. Costoro non si conformano al solo Giusto e non potranno essere da Lui riconosciuti ed introdotti al banchetto.

Non facciamoci trovare impreparati! Procuriamoci per tempo “l’olio” per le nostre lampade in modo che possano splendere della Luce di Cristo.

Andate dai venditori e compratevene. I venditori, coloro presso i quali ci possiamo procurare l’olio che faccia splendere la nostra vita, sono i poveri, i piccoli. I primi discepoli di Gesù l’hanno capito subito. Ci apprestiamo a celebrare la memoria di S. Martino di Tour (316-397) il cui gesto più famoso è l’avere tagliato il suo mantello per coprire un povero. Gesto simbolico di una vita in cui si prese cura degli ultimi della società. Come lui, i santi di ogni epoca hanno brillato di quella Carità operosa che nasce dalla Speranza certa fondata sulla Fede. Illuminati dalla Parola e dall’esempio dei santi, allora, impariamo anche noi a vivere praticando la Sapienza che ci viene dal nostro Maestro.

Fr. Marco.

sabato 31 ottobre 2020

Figli di Dio Beati


 « … ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. ...“La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7, 2-4.9-14)

«… noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1Gv 3,1-3)

«Beati i poveri in spirito, … Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.» (Mt 5, 1-12)

La Parola di Dio della solennità di Tutti i Santi ci presenta una moltitudine immensa: sono tutti coloro che hanno realizzato la loro vita conformandosi a Cristo. Oggi non celebriamo solo i santi che la Chiesa ha canonizzato, cioè posti a modello, misura (canone), per noi, ma anche quelli anonimi che nel silenzio della loro quotidianità hanno saputo vivere la logica del Vangelo, la logica delle beatitudini, e non si sono conformati alla mentalità del mondo. Questa solennità è soprattutto per loro. Ma è anche per noi, per ricordarci di essere tutti chiamati alla santità, ad essere Beati, a vivere secondo la dignità di figli di Dio facendo emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio che ci è stata donata con il battesimo. 

La salvezza appartiene al nostro Dio … così grida la moltitudine immensa riconoscendo che la realizzazione della nostra vita, la santità, è prima di tutto un dono gratuito di Dio e non merito dei nostri sforzi. A noi il Padre chiede solo di accogliere questo dono e di farlo fruttificare. È qui che entra in gioco il nostro impegno: nel fare sì che la Grazia non venga vanificata; nell’essere pronti a comprendere e fare la volontà di Dio nell’attimo presente; nel rifiutare la logica dell’egoismo, dell’edonismo, del potere e dell’avere, per assumere, invece, la logica dell’altruismo, dell’amore gratuito e disinteressato che si fa servizio e perdono.

Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione … ; Beati i perseguitati per la giustizia …  vivere come Figli di Dio, però, conformarsi alla logica del Beatitudini, non è mai accetto al mondo la cui logica è totalmente altra. Per questo i santi di tutti i tempi hanno affrontato la persecuzione. A volte si è trattato di persecuzione violenta come quella di Diocleziano (cui si riferisce l’autore dell’Apocalisse) o quella subita dai martiri di tutti i tempi (ancora oggi tanti  nostri fratelli in Siria, Iraq e Nigeria subiscono il martirio), Più spesso, però, soprattutto qui in Occidente si tratta di una persecuzione subdola tesa a screditare la Chiesa e i suoi ministri; ancora più frequente è l’insinuazione che “il nemico dell’umanità” ci mette nel cuore, anche attraverso i nostri fratelli, che “la santità non fa per noi”, “che non c’è niente di male a scendere a compromessi … d’altronde, bisogna aggiornarsi!”; “Se Dio veramente ti amasse, non permetterebbe questa sofferenza …” ; tutte cose che ci allontanano dalla nostra piena realizzazione e ci riducono a vivere una vita senza senso, una vita che non è Vita tanto che no di rado noi stessi o i nostri fratelli ci lamentiamo: «Ma è vita questa?»

Guardando all’esempio dei santi, non temiamo la persecuzione del mondo che, non avendo riconosciuto il nostro Maestro, non potrà certo accettare la vita secondo i Suoi insegnamenti, ma perseveriamo nell’adempimento della Volontà di Dio, nell’accoglienza della Sua Grazia, e giungeremo a quella Gioia piena che il Signore è venuto a regalarci.

In questa giornata della santificazione universale, infine, voglio riportarvi un pensiero di San Paolo VI: «Siate santi in tutta la vostra condotta … L’esortazione … che vi rivolgiamo, non è fuori luogo, non è iperbolica; e non è anacronistica rispetto allo stile di vita, che il costume moderno impone a tutti; la santità non è cosa né di pochi privilegiati, né di cristiani dei tempi antichi; è sempre di moda; vogliamo dire è sempre programma attuale ed impegnativo per chiunque voglia chiamarsi seguace di Cristo.» (Udienza Generale 7 luglio 1965) Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco



sabato 24 ottobre 2020

Ascolta e Ama

 


«Così dice il Signore: Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, … Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.» (Es 22,20-26)

«… vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio …» (1Ts 1,5-10)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 34-40)

La liturgia della Parola della trentesima domenica del tempo ordinario ci presenta il grande comandamento che anima e compendia tutta la legge: il comandamento dell'Amore. Il dottore della legge che oggi interroga Gesù appartiene alla setta dei farisei, uomini consacrati al rispetto scrupoloso della Legge per osservare la quale avevano redatto una minuziosa casistica. Da qui la confusione: in questa moltitudine di regole che rischiano di opprimere l’uomo, qual è il comandamento più grande, più importante?

Il Maestro risponde citando lo Shemà Ysrael (Dt 6, 4-5, “Ascolta Israele”), che gli israeliti pregavano quotidianamente, a cui associa il precetto dell’amore per il prossimo tratto dal “Codice di santità” (Lv 19,18).

Ascolta … Amerai …. Credo sia importante sottolineare che il primo e più grande comandamento richiama alla relazione con Dio, una relazione che inizia con l’ascolto. Impegnati nella scrupolosa osservanza dei comandamenti per raggiungere una vanagloriosa perfezione autocentrata, i farisei non ascoltavano più la voce di Dio, ma le loro elucubrazioni intorno alla Legge;  avevano dimenticato che la Legge era stata data con lo scopo di custodire la relazione d’amore con Dio. È a questa relazione d’amore, infatti, che Gesù oggi ci richiama. Un amore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Un amore, quindi che coinvolga ogni sfera della nostra esistenza: pensieri, intelligenza, sentimenti e opere.

Il secondo poi è simile... Perché questo amore per Dio sia autentico, però, esso non può rimanere qualcosa di intimistico, ma deve coinvolgere anche le opere e diventare amore misericordioso nell’imitazione del Dio pietoso che ascolta il grido del forestiero, dell’orfano e della vedova. Sono loro, quanti non possono in alcun modo contraccambiare l’amore concreto che riceveranno, il prossimo da amare come te stesso: con la stesa attenzione ed urgenza con la quale si cerca soddisfazione alle proprie esigenze; con la stessa delicatezza che si desidera ricevere.

Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole … come potrebbe coprirsi dormendo? L’amore di Dio che siamo chiamati ad imitare, nella prima lettura,  mostra quella tenerezza, quel prendersi cura, di cui spesso ci parla Papa Francesco: la tenerezza di un Padre che si preoccupa per i suoi figli.

Un ultima sottolineatura penso vada fatta sull’amore “come te stesso”. Il fatto che il Maestro àncori l’amore per il prossimo all’amore per se stessi, dà a quest’ultimo una certa legittimità a condizione che esso non diventi egoistico, ma si colleghi direttamente all'amore a Dio e al prossimo. Amare se stessi in Dio e senza escludere il prossimo fa parte del messaggio evangelico.

Nella seconda lettura di oggi, infine, S. Paolo si rallegra con i Tessalonicesi perché il loro servizio di Dio, che si è concretizzato nell’amore tra loro e per i fratelli, è diventato annuncio missionario. Anche noi, allora, accogliamo l’insegnamento del maestro e, ravvivando la nostra vitale relazione con Dio, amiamolo con tutto noi stessi mettendoci al servizio dei fratelli. Il Signore ce lo concedda.

Fr. Marco

sabato 17 ottobre 2020

Io sono il Signore e non c’è alcun altro


 «Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio» (Is 45, 1.4-6)

«Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.» (1Ts 1,1-5)

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 15-21)

In questa XXIX domenica del tempo ordinario ​la Parola di Dio ci presenta una verità fondamentale: non c’è altro Dio che il nostro Dio. Stando così le cose, chiunque agisce con retta coscienza, cercando di compiere il bene nella la sua vita con le sue azioni, anche se non conosce il nome di Dio, se non ha ancora incontrato Gesù Cristo, anche se inconsapevolmente e imperfettamente, compie la volontà di Dio ed accoglie la Sua salvezza (Cfr Gaudium et spes n.22). È per questo che, nella prima lettura, il profeta Isaia si rivolge a Ciro, un re pagano che non conosce il nome di JHWH, come all’eletto di Dio attraverso il quale il Signore farà risorgere Gerusalemme.

Non può esserci alcuna autorità, quindi, che si senta esonerata dall’osservanza della Volontà di Dio.
Dio Padre, Figlio e Spirito Santo è il Signore della storia, Colui che, se glielo permettiamo, guida i nostri passi nelle via della Vita. Ecco perché, come ci ricorda Papa Francesco, «La santità cristiana non è prima di tutto opera nostra, ma è frutto della docilità – voluta e coltivata – allo Spirito del Dio tre volte Santo.» (omelia 23/2/14).

Io sono il Signore e non c’è alcun altro Se il nostro Dio è il Signore della Storia e l’unico Dio, allora non ha senso rivolgersi agli “idoli” cercando in essi salvezza. Non penso solo agli “idoli” più evidenti, quelli di cui ascoltiamo nella Scrittura o a cui alcune popolazioni fanno una statua e danno un nome; penso anche e soprattutto a quegli idoli che subdolamente si insinuano nel nostro cuore e a cui ci attacchiamo aspettando da essi vita e “salvezza”: le superstizioni con tutti i riti magico/scaramantici che troppo spesso facciamo in modo di osservare; gli oroscopi con la loro pretesa di farci conoscere in anticipo ciò che ci accadrà; il “mito” della vincita milionaria al “gratta e vinci”; il politico “amico” che spesso promette di concederci come favore ciò che in realtà ci spetta come diritto (e a volte neanche mantiene la promessa); etc. Perfino il lavoro, quando nella nostra vita prende il posto di Dio, può diventare un idolo dal quale aspettiamo salvezza, ma che in realtà ci riduce a schiavi.

Riguardo al tentativo di prevedere e condizionare il futuro, inoltre, il Catechismo della Chiesa Cattolica è chiaro: «La consultazione degli oroscopi, l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium occultano una volontà di dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini ed insieme un desiderio di rendersi propizie le potenze nascoste. Sono in contraddizione con l’onore e il rispetto, congiunto a timore amante, che dobbiamo a Dio solo» (CCC 2116).

Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Il Maestro è chiaro: a ciascuno il suo. A “Cesare”, all’autorità civile, va dato il rispetto per le leggi, il pagamento del tributo, ma a Dio va data tutta la nostra vita. Se, infatti, a Cesare va restituita l’immagine incisa nella moneta, a Dio va restituita l’immagine che Egli ha impresso in noi. Consapevoli della nostra “doppia cittadinanza” (Celeste e terrena), i cristiani siamo chiamati a testimoniare nella società civile la Vita bella del Vangelo con l’osservanza delle leggi giuste, comportandoci da cittadini responsabili attenti al Bene Comune quanto e forse più che al proprio particolare interesse privato; più attenti ai nostri doveri verso Dio e verso i fratelli, che ai nostri diritti. In questo particolare momento storico questo si traduce anche in una particolare attenzione alle norme per la prevenzione della diffusione del Covid 19: portiamo sempre la mascherina, rispettiamo i distanziamenti, evitiamo gli assembramenti … comportiamoci responsabilmente per la tutela dei fratelli.

Proprio perche cristiani, siamo chiamati ad essere presenti nella società civile anche con una consapevole partecipazione alla vita politica, ma soprattutto, come oggi ci invita a fare S. Paolo, con l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo.

Fr. Marco.

sabato 10 ottobre 2020

Ecco, ho preparato il mio pranzo; venite alle nozze!


«Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.» (Is 25,6-10)

«Tutto posso in colui che mi dà la forza. … Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.» (Fil 4, 12-14.19-20)

«Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.» (Mt 22,1-14)

La Parola di Dio della XXVIII domenica del tempo ordinario ci fa contemplare il Regno dei Cieli attraverso l’immagine del Banchetto. Il Padre ha preparato per noi un banchetto di grasse vivande, vuole saziare ogni nostro appetito con “cose” gustose e nutrienti, ci chiede soltanto di accogliere il suo invito per fare festa con Lui.

La pagina evangelica, ci mostra Gesù che, raccontando la “parabola del banchetto nuziale”, con l’immagine degli invitati che non si curano dell’invito e addirittura uccidono i servi, si sta rivolgendo principalmente ai rappresentanti del Popolo dell’Alleanza, i primi invitati a prendere parte a questa festa, che hanno però smarrito il senso del culto e che, pur avendo in mezzo a loro lo Sposo, il Messia atteso, non vogliono riconoscerlo: sono troppo impegnati a praticare la loro “giustizia”, per potere accogliere l’amore di Dio!

La seconda scena della parabola si apre all’universalità: vengono invitati alla festa tutti gli uomini, cattivi e buoni. Nessuno è escluso, ciò che rende “degni” gli invitati sarà solo l’avere accolto l’invito.

Nella terza scena della parabola, in fine, il Maestro si sofferma su un invitato particolare: un uomo che non indossa l’abito della festa e che per questo viene rimproverato dal Padrone di casa. Per comprendere questa scena, va tenuto presente che in Oriente chi invitava ad una festa solenne, insieme all’invito mandava anche l’abito con cui onorare la festa. Forse è retaggio di quest’uso - che in alcune parti del mondo è ancora attuale - il fatto che quando il Papa o il Vescovo di una Diocesi invitano a qualche celebrazione particolarmente solenne, regalano ai concelebranti i paramenti da indossare. L’uomo della parabola, quindi, ha ricevuto l’abito nuziale; il Padrone di casa glielo ha donato. Se quest’uomo non lo indossa è, probabilmente, perché non ha preso sul serio la solennità dell’invito. Si tratta, dunque, di un grave affronto che giustifica la durezza della punizione: l’esclusione dal banchetto.

Fuori di parabola, oggi il Signore sta parlando a noi. Siamo noi, la Chiesa, il Popolo della Nuova Alleanza, gli invitati. Il Signore viene a ricordarci che siamo invitati ad un Banchetto, che vuole fare festa con noi. Troppo spesso, però, abbiamo rifiutato l’invito perché troppo impegnati nelle nostre cose. Troppo spesso abbiamo detto al Signore che non abbiamo tempo per Lui. Troppo spesso la Chiesa che invita al banchetto è stata messa a tacere proprio da quelle popolazioni che si vantano delle loro radici cristiane. Non è raro, infatti, che la “gente di fuori”, i “lontani” siano più pronti di noi battezzati ad accogliere l’invito e così rendersi degni del Banchetto.

Il Signore ancora oggi ci invita a ravvederci. Accogliamo l’invito alla festa. Ricordiamoci che non possiamo avere da fare nulla di più importante che entrare nel Banchetto Celeste.

Per entrare al Banchetto, però, anche noi siamo chiamati ad indossare l’abito nuziale che il Padre ci ha donato il giorno del nostro Battesimo quando siamo stati rivestiti di Cristo. Così ci viene ricordato dal rito del Battesimo: «… sei diventato  nuova creatura, e ti sei rivestito  di Cristo. Questa veste bianca sia segno della tua nuova dignità: aiutato dalle parole e dall’esempio dei tuoi cari, portala senza macchia per la vita eterna.» Curiamo sempre la nostra conformità a Cristo: è un dono di cui siamo tenuti a prenderci cura.

Nutriti dalla Parola e dai sacramenti, impegniamoci per fare emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio che il Padre ha impresso in noi; solo così potremo prendere parte alla “festa eterna”, alla Vita Piena che il Padre ha preparato per noi fin dall’eternità.

Fr. Marco.