sabato 25 marzo 2023

Aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri. Riconoscerete che io sono il Signore

«Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio.» (Ez 37,12-14)

«Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.» (Rm 8,8-11)

«Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”». (Gv 11,1-45)

Siamo ormai vicini agli eventi pasquali della nostra salvezza e la Parola di Dio, dopo averci presentato le scorse domeniche, nel racconto della samaritana e del cieco nato, Gesù come Colui che ci dona l’acqua viva, l’unica che può soddisfare la nostra sete di Vita, di Verità e di Bene e come Luce del mondo che ci fa riconoscere l’opera di Dio e la Sua volontà, in questa quinta domenica ci presenta Gesù, come la risurrezione e la vita, Colui che sconfigge la morte e ci dona la Vita.

La liturgia della Parola di questa domenica, infatti, ci presenta Dio come Colui che chiama il suo popolo ad uscire dal sepolcro (I lettura) e che dà la vita ai nostri corpi mortali (II lettura). Nella pagina evangelica, inoltre, Gesù mostra il suo essere vero Uomo e vero Dio: mostra la sua umanità commuovendosi per il dolore di Marta e Maria; mostra la sua divinità nel proclamare «Io sono la risurrezione e la vita» parole confermate col restituire la vita a Lazzaro.

L’evangelista Giovanni sottolinea che Gesù ama i suoi amici, la famiglia di Lazzaro, Marta e Maria, presso i quali sta volentieri condividendo le loro gioie e le loro sofferenze. Gesù vive pienamente le emozioni umane: dinanzi la morte dell’amico e il lutto di Marta e Maria, il Signore è molto turbatosi commosse profondamente  e scoppiò in pianto. Davvero Gesù è colui che ama la vita: sta per compiere un grande miracolo, ma non può fare a meno di piangere di fronte al sepolcro di Lazzaro.

«Lazzaro, vieni fuori!» Si realizza pienamente quanto aveva detto Dio per bocca del profeta Ezechiele: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri». Il miracolo non è solo atto di amore fraterno, bensì un Segno, una manifestazione della divinità di Gesù e dell'amore di Dio per l'uomo. Il Segno ha una finalità universale: si rivolge a tutta l'umanità; Gesù infatti precisa di avere compiuto il miracolo della risurrezione di Lazzaro «per la gente che mi sta attorno, perché credano che Tu mi hai mandato».

«… chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». Che Dio abbia il potere di vincere la morte è già affermato nell’Antico Testamento in alcuni passi del quale troviamo pure la fede nella resurrezione dell’ultimo giorno (per es. Dn 12,2) a cui accenna Marta nel Vangelo odierno. Il Vangelo di questa domenica, però, va oltre questa speranza futura perché vede già date in Gesù “la risurrezione e la vita” che sono così attuali. Gesù è venuto a donarci la Vita. Lui è la Risurrezione la Vita: mediante il Battesimo, resi partecipi del Suo mistero Pasquale, noi siamo morti e risorti con Lui; ha avuto inizio in noi la Vita Nuova, Vita nello Spirito che il mondo e la morte non ci possono togliere. Cristo ci ha donato la Vita, noi dobbiamo, però, accoglierla, compiere questo passaggio dalla morte alla Vita, credendo in Lui (Gv 11,26), cioè fidandoci di Lui, e quindi osservando i suoi comandamenti, cioè amandoci gli uni gli altri (cfr. per es. Gv 15,12): «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte.» (1Gv 3,14)

Chi crede in Gesù, quindi, chi rinasce in Lui nel Battesimo, non deve più temere la morte perché vive una Vita che è altra rispetto alla vita biologica destinata a finire, vive la vita nello Spirito. A questo punto però penso sia bene chiederci: io credo che Gesù è la risurrezione e la vita? Vivo secondo la carne o secondo lo Spirito? Come ci ricorda oggi la seconda lettura, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Nel Vangelo di Matteo Gesù ci dona il criterio per fare discernimento in noi prima che negli altri: «dai frutti li riconoscerete» (Mt 7,16) e, come già citato, primo dei frutti della Vita è l'amore dei fratelli. Scrivendo ai Galati S. Paolo elenca quali sono le opere della carne e quali il frutto della Spirito: «sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,19-23). Per “opere della carne”, quindi, non si intende solo e soprattutto ciò che riguarda la sfera sessuale. È opera della carne anche tutto ciò che ha a che fare con l’orgoglio (che è idolatria del proprio io) e che porta divisione.

Per capire se viviamo secondo la carne o secondo lo Spirito, allora, non ci resta che da vedere quali opere/frutti produciamo. Se dovessimo scoprire di essere tra quelli che vivono sotto il dominio della carne, convertiamoci finché ne abbiamo la possibilità: accogliamo lo Spirito e lasciandoci convincere del nostro peccato in modo da consegnarlo alla Misericordia del Padre e, abbandonando le opere della carne, camminiamo secondo lo Spirito. Saremo tra quanti credono in Lui e non moriranno in eterno.

Fr. Marco

sabato 18 marzo 2023

Gesù è la Luce del mondo. Lasciamoci illuminare

 «Il Signore replicò a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”». (I Sam 1, 4.6.7.10-13)

«Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. … Non partecipate alle opere delle tenebre … ma piuttosto condannatele apertamente.» (Ef 5,8-14)

«… sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe”, che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. … “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”» (Gv 9, 1-41)

Questa domenica, quarta di quaresima, è detta domenica laetare perché l’antifona d’ingresso ci invita a rallegrarci e la liturgia della Parola ci presenta la simbologia della luce.

La luce, infatti, è simbolo della gioia, della vita; è ciò che ci permette di distinguere le cose, di dare un senso a ciò che abbiamo davanti; è ciò che ci permette di orientarci e prendere la giusta direzione. Al buio, invece, tutto risulta confuso e capita spesso di sbagliare direzione. La tenebra è il simbolo della tristezza, del caos, del non senso, della morte. Ecco perché fa paura.

La pagina evangelica di oggi si colloca nel contesto della Festa delle Capanne una festa giudaica caratterizzata dall’abbondanza di luminarie. In questa festa piena di luci, Gesù si presenta come la Luce del mondo. La luce nella quale i ciechi tornano a vedere, ma che manifesta la cecità di coloro che la rifiutano. Tra le tante tematiche presenti ne quarantuno versetti del brano evangelico, ritengo sia importante, lasciandoci guidare dalle altre letture della liturgia odierna, sottolineare la tematica battesimale: la guarigione del cieco nato è simbolo di ciò che è avvenuto in noi. Nelle acque del battesimo anche noi siamo stati ri-creati, siamo stati guariti, siamo stati illuminati, ci sono stati aperti gli occhi per vedere e riconoscere il Signore che opera nella nostra vita. Anche noi siamo diventati “inviati” (cfr. il nome della piscina) a portare questa luce al mondo con le nostre opere da figli della luce.

«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» I discepoli pongono a Gesù una domanda sulla relazione tra peccato e malattia. Il Maestro non si pronunzia sul legame peccato-malattia, ma evidenzia che la cecità, la sofferenza, è costitutiva dell’uomo lontano da Dio. Dopo la disobbedienza delle origini, ogni uomo che nasce è “malato”, “cieco”, bisognoso di una luce che non può darsi dal solo. È Gesù il “medico celeste” che viene a guarire la radice delle nostre infermità. Nel cieco nato, quindi, possiamo riconoscere ogni uomo bisognoso della Luce per comprendere il senso della propria esistenza.

Per operare la guarigione del cieco, il Signore si serve del fango: avviene come una nuova creazione (cfr. Gen 2,7). Come nella creazione descritta in Genesi, infatti, Gesù “separa” la luce dalle tenebre (cfr Gen 1,1-5) per ridurre il Caos (il non senso della vita) al Cosmo: una vita piena di senso in cui tutto è ordinato al giusto fine.

 La luce della fede che ci è stata donata nel battesimo, infatti, scaccia la paura generata dalle tenebre. Conosciamo la Verità, sappiamo di avere un Padre che ci ama al di là di ogni nostra immaginazione. La luce che è in noi, inoltre, ci permette di vedere la realtà con occhi nuovi, capaci di scorgere il senso profondo delle cose; capaci di vedere non l’apparenza, ma il “cuore” della realtà (cfr. I lettura), così da riconoscere la Volontà d’amore del Creatore e vivere nel giusto modo le realtà create.

«Siamo ciechi anche noi?». Alcuni farisei che seguono Gesù interrogano il Maestro. Forse vorrebbero essere rassicurati. «Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». L’unico peccato che non può trovare perdono (Cfr. Mc 3,29), infatti, è proprio l’ostinato rifiuto della Luce, la pretesa di non avere bisogno di Gesù. Costoro, dice S. Paolo «Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa.» (Rm 1,28-32)

Per questo, in un mondo sempre più preda della violenza che diventa aggressione e del libertinaggio in cui tutto viene stravolto e piegato al piacere egoistico, possiamo e dobbiamo senza timore denunciare il non senso delle “opere delle tenebre". Gesù stesso altrove ci mette in guardia «Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra.» (Lc 11,35).

Fr. Marco.

venerdì 10 marzo 2023

Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno.

 «Il Signore disse a Mosè: “Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”». (Es 17, 3-7)

«… l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.» (Rm 5, 1-2.5-8)

«​“Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”». (Gv 4, 5-42)

In questa terza domenica di quaresima la Parola di Dio ci presenta il simbolo dell'acqua, simbolo potente e fortemente evocatore: immagine di purezza e soprattutto elemento essenziale per la nostra vita. Un simbolo che ci richiama l’origine della nostra vita cristiana: l’acqua del Battesimo per la quale siamo nuove creature.

Il racconto della pagina evangelica che è stata proclamata, infatti, ruota attorno ad un pozzo e a due assetati. I discepoli sono andati al villaggio a prendere da mangiare e Gesù è solo. La donna che va a prendere acqua a mezzogiorno non ha nome, perché è presa dall’evangelista come simbolo dell'intera regione della Samaria e di tutti gli scismatici che la abitano.

«Dammi da bere». Gesù si accosta alla Samaritana come un assetato. Nel dialogo, però, il Maestro fa emergere la “sete esistenziale” di questa donna, la sete d’amore per estinguere la quale aveva avuto “cinque mariti”. Come Israele nel deserto, infatti, l’umanità soffre la sete. Una “sete di vita”, “sete di senso”, la “sete d’amore” che, anche senza esserne consapevoli, è sete della vitale relazione con il Padre. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio che è Amore (cfr. 1Gv 4,8), ha “sete d’amore”: ha bisogno di amare ed essere amato per essere felice. Per estinguere questa sete, l’uomo spesso scava “cisterne screpolate” (cfr. Ger 2,13) credendo di potersi “dissetare” possedendo cose e persone. Ma, come dice S. Agostino, il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio. Solo la relazione con Lui può donarci quella Vita cui aneliamo. Gesù viene in mezzo a noi proprio per darci l’acqua viva, che sola è capace di estinguere la nostra sete.

Può capitare anche a noi, come Israele provati dalla sete e smarriti nel deserto della vita, di dubitare dell’amore di Dio e mormorare: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (I lettura).
Per dare una risposta a questo interrogativo esistenziale, oggi Gesù si mostra a noi mendicante del nostro amore. Sulla Croce dirà: «Ho sete»; oggi alla samaritana dice: «Dammi da bere».  

Proprio per estinguere la Sua e la nostra sete, Gesù viene ad aprirci la “sorgente di acqua viva”. Non è a sproposito che, dopo che Gesù ha mostrato alla donna la sua “sete” rimasta insoddisfatta dai “cinque mariti”, la samaritana lo interroga sul luogo in cui adorare Dio. La risposta di Gesù le indica dove “dissetarsi”: «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». È Lui la Sorgente, è Lui la Verità, colui che ci rivela la vera immagine del Padre, colui che viene a donarci lo Spirito che in noi grida: “Abbà, Padre” (Cfr. Rm 8, 15 e Gal 4,6). È Lui la vera “roccia” che percossa dalla lancia sulla Croce fa scaturire la Grazia dei Sacramenti mediante i quali veniamo sempre più conformati a Lui.

«I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». In questo versetto viene richiamato il “culto spirituale”, quello reso in forza dello Spirito Santo che, dopo l'ascensione di Cristo, dimora sempre con i discepoli. È un culto nella Verità, cioè conforme alla Volontà del Padre espressa in Cristo. Non necessita più di un “tempio di mura” (cfr Gv 2,20-21), perché il nuovo Tempio è il Corpo di Cristo, la Chiesa, l’assemblea dei battezzati e, al suo interno, ogni Cristiano reso conforme a Cristo nel Battesimo. Il culto spirituale non è staccato dalla vita quotidiana che, anzi, è il suo “luogo proprio”: l'obbedienza al messaggio d'amore di Cristo, facendo di ogni nostro gesto un’offerta d’amore di sé stessi al Padre ed ai fratelli, è il nuovo culto spirituale in cui “tempio”, “offerta” e “sacerdote” coincidono in Cristo e nei suoi discepoli a Lui resi conformi nel Battesimo. È ciò che ci raccomanda S. Paolo nella Lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.» Rm 12,1

Rinati in Lui nel Battesimo, resi conformi al Figlio amato, adesso siamo “in pace con Dio” (II lettura). In noi è stata riversata l’acqua viva dello Spirito. Siamo divenuti tempio dello Spirito. Adesso è la nostra vita, chiamata a corrispondere alla Grazia per essere sempre più conforme a Cristo, il luogo in cui adorare il Padre.

Fr. Marco

 

venerdì 3 marzo 2023

Il Signore ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa

 «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione.» (Gen 12, 1-4)

«Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa …» (2Tm 1, 8b-10)

«… Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”». (Mt 17, 1-9)

In questa seconda domenica di quaresima la Parola di Dio ci rivolge tre imperativi “esortativi”: vattene (I lettura),  soffri con me (II lettura) e  alzatevi e non temete (Vangelo).

Vattene … verso la terra che io ti indicherò. Il Signore chiede ad Abramo di lasciare le proprie sicurezze (terra e casa), che tuttavia non gli danno alcuna possibilità di crescita, per intraprendere un cammino verso la Terra, la discendenza e la benedizione: il contenuto della Promessa che gli fa solo intravedere nella speranza. Per raggiungere questi beni deve percorrere un cammino sconosciuto. Al momento in cui Dio lo chiama, Abramo si trova in una situazione senza possibilità di sviluppo: egli, infatti, è in età avanzata, nomade e senza discendenza; i suoi beni (e la “sopravvivenza” del suo ricordo) sono destinati probabilmente al nipote Lot. Una situazione “senza infamia e senza lode” in cui, però, gode di alcune sicurezze. Il Signore lo invita a lasciare queste sicurezze per “osare” fidandosi della promessa. Fondato esclusivamente sulla fiducia, Abramo intraprende il cammino che lo porterà ad attraversare il deserto.

«Alzatevi e non temete». Nella pagina evangelica, Gesù chiede ai suoi discepoli di “alzarsi” e di non lasciare che la paura li paralizzi. Come ad Abramo, anche ai discepoli è chiesto di lasciare le proprie mediocri sicurezze, in cui li confina la loro paura, per intraprendere con il Maestro il cammino che li porterà ad attraversare il deserto della sofferenza per giungere alla pienezza della vita. La pagina evangelica di oggi comincia con l’indicazione temporale (omessa dalla versione liturgica) «sei giorni dopo», con la quale l’evangelista Matteo richiama il primo annunzio della passione (Mt 16,21), e si conclude con il riferimento alla resurrezione dai morti. Lo scopo della trasfigurazione, quindi, è fare intravedere ai discepoli, spaventati dalla prospettiva della sofferenza del Maestro, l’esito finale del cammino di sequela cui sono chiamati (Mt 16, 24). Gesù, annunziato dalla Legge e dai Profeti (Mosè ed Elia), fa intravedere ai discepoli la sua glorificazione che sarà pienamente rivelata nella Resurrezione. Per giungere a questa gloria, tuttavia, è necessario passare attraverso la Croce accolta per amore.

«Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento». Ritengo sia importante soffermarsi brevemente sul “compiacimento” di cui ci parla la “voce dalla nube”. Il riferimento immediato è al primo canto del Servo del Signore (Is 42, 1). Credo, tuttavia, che non sia errato richiamare anche il quarto canto in cui si dice che «al Signore è piaciuto (letteralmente: si è compiaciuto) prostrarlo nei dolori» (Is 53, 10). Il compiacimento qui è dovuto alla solidarietà del servo innocente con il popolo colpevole per il quale subisce il castigo; una solidarietà che giunge fino alle estreme conseguenze. Gesù realizza pienamente questa profezia accettando su di se, lui l’unico innocente, tutto il male dell’umanità per mostrarci lo sconfinato amore di Dio per ciascuno di noi.

Ecco il senso dell’esortazione della seconda lettura: « Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo». Paolo chiede a Timoteo di seguirlo nell’unire le proprie sofferenze apostoliche alla sofferenza d’amore di Gesù per la salvezza dell’umanità.

Anche a noi oggi Gesù chiede di alzarci e di non temere; di lasciare le nostre “mediocri sicurezze”, le nostre “mezze misure” che ci fanno dire «fin qui, ma non oltre», per seguirlo nella follia dell’amore che non si risparmia, che non accetta compromessi. Solo chi prende la sua croce e segue il Maestro nella via dell’Amore senza riserve potrà giungere a quella Vita eterna e piena che il Padre ha pensato per noi.

Fr. Marco