sabato 25 novembre 2023

Venite, benedetti del Padre mio

«Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.» (Ez 34, 11-12. 15-17)

«È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.» (1Cor 15, 20-26.28)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.» (Mt 25, 31-46)

​La liturgia della Parola dell’ultima domenica dell’anno liturgico, solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, nel ciclo A ci presenta ciò che sarà alla fine del tempo, quando Gesù prenderà possesso in maniera definitiva del suo Regno ricapitolando tutto in sé.

Le letture di questa domenica, infatti, sono dominate dall’immagine del “re-pastore”. Nella prima lettura, tratta dal profeta Ezechiele, Dio è presentato come un pastore che raduna il suo gregge, lo passa in rassegna e conduce le sue pecore all’ovile. Il profeta scrive contro i governanti del suo tempo che non si sono curarti del bene del popolo, del gregge loro affidato, ma hanno cercato solo il loro interesse. Contro costoro Ezechiele  profetizza un tempo in cui sarà Dio stesso a prendersi cura del suo popolo e a dare a ciascuno ciò che meritano le sue azioni.

Nella seconda lettura san Paolo utilizza un’immagine assai comprensibile al suo tempo: un principe figlio di Re che, dopo avere condotto una battaglia contro gli usurpatori del regno, lo riconsegna al Padre. Cristo è presentato, quindi, come Colui che vince ogni opposizione al Regno dei Cieli.

La pagina di Vangelo di oggi, infine, fa una sintesi delle due figure (... siederà sul trono della sua gloria … come il pastore …): ci presenta, infatti, il Re che, preso possesso del suo Regno riconosce “i suoi” distinguendoli da coloro che hanno scelto di vivere sotto un’altra signoria. Discrimine per essere riconosciuti come appartenenti al Regno è il riconoscere, coi fatti, la Signoria di Cristo: vivere come lui ci ha insegnato con l’esempio e la Parola.

Siederà sul trono della sua gloria. Anticipazione del trono della gloria è la croce. È davanti al questo trono della sua gloria, allora che saremo giudicati. È la croce, quindi, il criterio di valutazione della vita di un uomo davanti a Dio. Ogni discepolo è chiamato a “prendere la propria croce”, cioè a fare della propria vita un dono d’amore. Non basta dire “Signore, Signore”. Bisogna mettere in pratica ciò che Lui ha comandato: l’amore per Dio autenticato dall’amore per i fratelli. Soprattutto per i fratelli più piccoli, quelli che non contano nulla nel mondo e che non hanno da ricambiare. 

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo». Erediteremo il Regno. L’eredità appartiene ai figli e che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!” (Gal 4,6) Se viviamo secondo lo Spirito, allora, se ci lasciamo conformare al Figlio, siamo figli ed eredi e, quindi, non più schiavi degli idoli del mondo. Liberi dall’idolatria dell’avere, avremmo chiaro che la vita non dipende da ciò che uno possiede, ma viene dal Padre che conosce i nostri bisogni. Altrove il Maestro ci insegna: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33) la “cosa” più importante da cercare e da condividere con i fratelli, allora, non sono i beni materiali (che pure servono), ma la conoscenza e l'annunzio del Regno. Testimoniando con i nostri concreti gesti d’amore che «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4)

Non basta, allora, assistere i fratelli, magari con il nostro superfluo e “per metterci a posto la coscienza”, a farci eredi. Eredi lo siamo se, avendo accolto lo Spirito in noi, desiderosi di compiacere il Padre, ci comportiamo da figli amando concretamente i fratelli che abbiamo accanto, condividendo con loro il pane materiale e la conoscenza del Regno. 

«...quando mai ...» Mi colpisce sempre lo stupore dei giusti e dei reprobi dinanzi la sentenza. entrambi non hanno riconosciuto Cristo nei fratelli. I giusti, però, si sono conformati a Lui nell'amare i fratelli. Questo, infatti, è importante: che il fratello nel bisogno veda in noi i tratti del Figlio di Dio. 

Solo se saremo capaci di conformarci al Nostro Signore Gesù Cristo nell’amare gratuitamente i nostri fratelli, quindi, potremo essere riconosciuti come “suoi” ed essere ammessi nel regno preparato per noi. Diversamente, se nella nostra vita non avremo concretamente ed esistenzialmente riconosciuto la signoria di Cristo, ma avremo servito altri padroni, primo fra tutti il nostro “io”, la sentenza finale non potrà che prendere atto di questo stato di cose: saremo esclusi dal Regno, che in sostanza non abbiamo mai riconosciuto, e subiremo la sorte dei ribelli (il diavolo e i suoi angeli).
Accogliamo l’invito di questa Parola e, contemplando le realtà ultime, cominciamo fin da ora a vivere nella Signoria di Cristo per potere, in quell’ultimo giorno, essere ammessi alla pienezza della gioia.

Fr. Marco

venerdì 17 novembre 2023

A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza

 «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.» (Pr 31,10-13.19-20.30-31)

«Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.» (1Ts 5,1-6)

«Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25,14-30)

La Parola di Dio di questa ultima domenica del tempo ordinario (domenica prossima celebreremo la solennità di Cristo Re con il quale si conclude l’anno liturgico), ci presenta ancora le “cose ultime” ribadendo la necessità di non farci trovare impreparati. La pagina di Vangelo, infatti, è tratta ancora dal discorso escatologico: Gesù sta rispondendo alla domanda che i discepoli gli hanno posto (in Mt 24,3) riguardo al “quando” della venuta del Figlio dell’uomo. Come nella precedente (le vergini sagge e quelle stolte), anche in questa  parabola il Maestro sottolinea che non ci è dato di sapere il “quando”, ma è fondamentale usare bene il tempo presente.

La particolare sottolineatura della Parabola dei talenti è l’invito all’intraprendenza mossa dall’amore: ciò che il Signore ci chiede è “l’obbedienza creativa” dei figli che, per amore del Padre, non si risparmiano e fanno ciò che sanno può fargli piacere senza bisogno che glielo si chieda. Questo è il “timor di Dio” di cui si parla nella prima lettura: il desiderio di compiacere il nostro Padre e il timore di contristarlo. Cosa, in effetti, può dispiacere di più un padre che vedere i figli che sprecano la loro vita?

«Consegnò loro i suoi beni» Per comprendere meglio ciò che il Signore ci vuole dire, può servire conoscere che il talento non è una moneta, ma un peso: un valore simbolico per una grande quantità. Un talento valeva qualcosa più di 34 chili di argento: approssimativamente 30 anni di lavoro di un operaio! Il Padrone della Parabola mostra, quindi, di riporre una grande fiducia nei suoi servi: affida loro i suoi beni perché li amministrino creativamente, perché li facciano fruttare, per poi introdurli “nella Sua gioia”. Così il Padre si comporta con ciascuno di noi: ci consegna la vita, la nostra storia, il nostro tempo, le occasioni della vita … perché noi facciamo della nostra vita un capolavoro!

«Secondo le capacità di ciascuno» Un’altra cosa su cui vorrei fermare l’attenzione, è la differenza nei beni consegnati ai servi e di conseguenza la differenza nel rendimento consegnato al Padrone: ciò che conta non è la quantità del risultato, ma l’atteggiamento di fiduciosa intraprendenza che i servi hanno dimostrato, il fatto che i talenti siano stati trafficati. L’ultimo servo, quindi, viene rimproverato e punito non per la scarsezza del risultato, ma per l’immagine distorta e ingiusta che si è costruito del suo Padrone; per essersi fatto bloccare dalla paura. Mentre i suoi compagni, vistisi trattare come figli, si comportano da tali e si prendono cura di ciò che il Padrone ha affidato loro, il “servo pigro” si trincera dietro una “rigida” giustizia («Ecco ciò che è tuo»), che poco ha a che fare con l’amore, e finisce per comportarsi ingiustamente nei confronti del suo Padrone attribuendogli un’immagine distorta. La sua eccessiva e “vigliacca” paura lo paralizza e fa sì che i beni affidatigli non fruttifichino: la sua vita è stata sprecata. Il Padrone, quindi, non fa che prenderne atto e dare seguito a ciò che lui ha già determinato: lo tratta a partire dall’immagine che il servo si era costruito di lui e rende palese lo spreco della sua vita.

Nella seconda lettura S. Paolo ci ammonisce: noi non siamo nelle tenebre, ma sappiamo Chi è il Nostro Signore e ciò che chiede a ciascuno di noi. Non lasciamoci, dunque sorprendere, ma facciamo tesoro del tempo presente e, mettendo al bando la paura, agiamo con una intraprendenza fiduciosa nell’amore del Padre. Ricordiamo: chi vuol salvare la vita, la perde!

Fr. Marco

venerdì 10 novembre 2023

Attendiamo la Sposo

 

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.» (Sap. 6, 12-16)

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.» (1Ts 4, 13-18)

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.» (Mt 25, 1-13)

​La Parola di Dio della XXXII Domenica del Tempo Ordinario, essendo ormai prossimi alla conclusione dell’anno liturgico, ci introduce alla contemplazione delle “cose ultime”. La pericope evangelica, infatti, è tratta dal “discorso escatologico” del Vangelo di Matteo (capp. 24-25). Gesù sta rispondendo alla domanda dei discepoli riguardo il “quando” della venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo (Mt 24,3). Non ci è dato di conoscere il “quando”, “l’ora” della venuta; ciò che è indispensabile, però, è farsi trovare pronti. Per questo motivo oggi il Maestro ci invita alla vigilanza, a vegliare, a non lasciare che il protrarsi dell’attesa ci faccia dimenticare chi stiamo aspettando. La “parabola delle dieci vergini” ci invita alla vigilanza che si fa attesa di un evento che, per quanto possa “ritardare” rispetto alle nostre aspettative, di sicuro avverrà. 

Per questo stesso motivo la prima lettura ci esorta a vivere con “Sapienza”, cioè secondo la volontà di Dio. La Sapienza che dobbiamo ricercare, infatti, è quel “vivere bene” che si può apprendere solamente ascoltando e meditando la Parola di Dio. Questa Sapienza, va “cercata”, “desiderata”, per essa bisogna “vegliare”; ci viene richiesto, quindi, un certo impegno, una “dolce fatica”; quella fatica che non viene percepita tale perché sostenuta dall’amore. Questo deve essere il nostro impegno nel meditare e comprendere sempre più pienamente la Parola di Dio.

«… le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.» Essere vigilanti nell’attesa significa anche attrezzarsi per non essere trovati impreparati al momento dell’incontro con lo Sposo. Nella parabola evangelica, tutte e dieci le vergini hanno le lampade, ma solo le vergini sagge si sono procurate l’olio perché queste lampade possano risplendere. Fuori di parabola: per la Grazia di Dio ricevuta nel Battesimo tutti i cristiani siamo nelle condizioni di risplendere della luce di Cristo. Solo coloro che ascoltando la Parola vivono con sapienza, però, restano vigili nella Speranza e vivono una Fede operosa che si traduce nella Carità. Solo loro alla fine avranno raggiunto quella conformità a Cristo che li farà riconoscere come “figli” e li farà ammettere al “banchetto nuziale”.

«In verità io vi dico: non vi conosco». Gli stolti, coloro che vivono senza sapienza (quindi una vita “insipida”), sono coloro che hanno lasciato sopire la loro speranza: non sperano più nulla e non aspettano nulla; se vivono una parvenza di “fede”, questa è appunto una fede inoperosa, che non si traduce nella vita, ed è, quindi una “fede morta”, come la definirebbe S. Giacomo; spesso l’unico amore che li muove è un disordinato amore del proprio io. Costoro non si conformano al Figlio, il solo Giusto, e non potranno essere da Lui riconosciuti ed introdotti al banchetto.

«Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.» Il sonno cui si riferisce la Parabola è il sonno della morte. L’evangelista Matteo ha dinanzi la Chiesa che attende l’imminente arrivo del Signore e nel frattempo vede morire i suoi membri saggi e stolti. È il sonno della morte dalla quale tutti si risveglieranno all’arrivo dello Sposo. Quanti nella loro vita si sono preparati all’incontro, verranno introdotti con Lui alle nozze. Gli altri non potranno entrare.

«Andate dai venditori e compratevene» Non facciamoci trovare impreparati! Il tempo per prepararci all’incontro è oggi, è la vita presente. Procuriamoci per tempo “l’olio” per le nostre lampade in modo che possano splendere della Luce di Cristo. I “venditori”, coloro presso i quali ci possiamo procurare l’olio che faccia splendere la nostra vita, sono i poveri, i piccoli. I primi discepoli di Gesù l’hanno capito subito. Abbiamo appena celebrato la memoria di S. Martino di Tour (316-397) il cui gesto più famoso è l’avere tagliato il suo mantello per coprire un povero. Gesto simbolico di una vita in cui si prese cura degli ultimi della società. Come lui, i santi di ogni epoca hanno brillato di quella Carità operosa che nasce dalla Speranza certa fondata sulla Fede. Illuminati dalla Parola e dall’esempio dei santi, allora, impariamo anche noi a vivere praticando la Sapienza che ci viene dal nostro Maestro.

Fr. Marco

sabato 4 novembre 2023

Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli

 «Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione.» (Ml 1,14- 2,2.8-10)

«Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.» (1Ts 2,7-9.13)

«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. … Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,1-12)

​La Parola di Dio della XXXI domenica del Tempo Ordinario ci invita a quella vera umiltà che nasce dal riconoscere la grandezza del nostro Dio e dallo “stare al nostro posto”. Nelle biografie di San Francesco d’Assisi si racconta che, sin dagli inizi della sua conversione, capitava che il serafico padre passasse le notti in preghiera ripetendo: «Chi siete voi, mio dolcissimo Signore Iddio, e chi sono io, povero vermiciattolo, vostro servo?...» (Cfr. Bartolomeo di Pisa, Conformitates).

Anche noi oggi siamo invitati dal Signore a ricordarci che solo Lui è il Signore, Re grande, Maestro, Padre e Guida. Noi siamo tutti fratelli e discepoli. Consapevoli di ciò, siamo invitati a vivere di conseguenza e a non provare ad appropriarci della Sua gloria.

Oggi la Parola si rivolge in maniera particolare a quanti sono chiamati nella società e nella Chiesa a sedere in cattedra, a quanti sono chiamati al servizio dell’autorità: docenti, catechisti, politici; ma soprattutto ministri ordinati. Può capitare, infatti, che la vanagloria che abita l’uomo porti coloro i quali sono più in vista per il servizio che svolgono a cercare gloria per sé. È ciò che ha portato alla mentalità della “casta”, a sentirsi privilegiati per il ruolo che si svolge.

«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo.» Dovremmo ricordare che Gesù non è venuto ad istituire una “casta sacerdotale”, ma con l’esempio ci ha insegnato il servizio fino al dono della vita. Il ministro ordinato è chiamato a servire la Chiesa e i fratelli, non a servirsi della Chiesa e dei fratelli per la propria gloria.

«Dicono e non fanno. … Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente.» La vanagloria e l’esercitare potere sulle persone a noi affidate, da sempre ha tentato l’uomo. Oggi forse più che mai, nella società dei social media, è forte la tentazione di cercare la gratificazione nell’ammirazione della gente, nell’apparenza. Può capitare persino che si strumentalizzi anche ciò che c’è di più sacro per apparire, per essere ammirati, per avere gloria. Ecco allora la ricerca di originalità nelle celebrazioni (che a volte si avvicina pericolosamente all’eterodossia); gli ammiccamenti al modo di pensare del “mondo”, perché “in fondo che male c'è”; La ricerca di pubblicità e visibilità per ogni cosa che si fa … Oggi il Maestro ci esorta alla coerenza, ad insegnare con la Vita, a preoccuparci di più di vivere il vitale rapporto con Lui che del legare la gente a noi. Ciò non toglie che le nostre opere devono essere visibili, ma devono esserlo per dare gloria al Padre che è nei cieli e non a noi (Cfr. Mt 5,13-16).

Accogliamo l’insegnamento del Vangelo e l’esempio di San Paolo e, riconoscendo in Gesù l’unico Maestro e Signore, come discepoli serviamo i fratelli facendoci per essi modelli di sequela capaci di indicare a quanti il Signore ci ha messo accanto la Via, la Verità e la Vita.

Fr. Marco