domenica 31 dicembre 2023

Nella pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna


 « … porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6, 22-27)

«Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.» (Gal 4,4-7)

«Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.» (Lc 2,16-21)

​Il primo giorno di ogni anno, che per Volere di S. Paolo VI è anche la giornata mondiale della Pace,  la Chiesa celebra la solennità di Maria santissima Madre di Dio. La Parola di Dio di questa solennità si apre con la benedizione del Signore che, attraverso la sua santissima Madre, fa splendere il suo volto sui suoi consacrati. Trovo veramente confortante che l’anno civile si apra nel segno della benedizione del Signore: il tempo, tutto il nostro tempo, è un dono del Padre ed è sotto la Sua benedizione!

In questo ottavo giorno dopo il Natale, inoltre, la pagina evangelica ci conduce ancora una volta, insieme ai pastori, davanti la mangiatoia in cui è adagiato Gesù, il principe della Pace, che viene nel fragile segno di un bambino. Come i pastori, anche noi, siamo invitati a lasciarci prendere dallo stupore.

Forse oggi abbiamo perso la capacità di stupirci: assistiamo continuamente e con atteggiamento indifferente alle più alte manifestazioni di grandezza della nostra umanità e alle più abbiette miserie del genere umano. La globalizzazione ci ha anestetizzati di fronte a grandi scoperte e immani tragedie. La Parola di oggi ci invita a riscoprire il sentimento di stupore che prese i pastori dinanzi la gloria di Dio manifestata nel bambino Gesù. Come i pastori, fidiamoci del Signore e lasciamo che continui a meravigliarci, a mostrarci le sue meraviglie!

Per poterci stupire, però, è importante apprendere l’atteggiamento di Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore»:  meditava la povertà della stalla, la visita dei pastori mandati da un angelo, il canto delle schiere celesti degli angeli. Meditava soprattutto il mistero del suo figlio, Dio fatto uomo ed era consapevole della sua divina maternità. Quel bambino piccolo, debole e bisognoso di tutto era il suo Dio ed era suo figlio! L'infinita tenerezza della maternità di Maria è un riflesso della paternità di Dio.

Iniziando un nuovo anno civile, oggi impariamo, inoltre, dalla nostra santissima Madre a mettere Gesù al centro della nostra vita. Maria, infatti, in quanto Madre di Dio, è costantemente rivolta al Figlio con lo sguardo, il pensiero, il cuore e tutta se stessa. Ha contemplato Gesù fin dalla sua nascita in costante atteggiamento di stupore e di adorazione.

Credo sia bello oggi pregare il Signore, con le parole di quella che forse è la più antica preghiera mariana (III sec.), perché ci conceda la pace per intercessione della Madre di Dio: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Alla materna intercessione di Maria, affidiamo le vittime delle guerre che ancora incendiano il mondo; delle guerre a noi più vicine, quella in Ucraina e in Palestina, ma anche dei numerosi conflitti che mietono vittime innocenti. Alla Madre di Dio affidiamo le vittime della violenza e dell'odio, specialmente i bambini e i cristiani vessati, sradicati, perseguitati e uccisi; alla sua potente intercessione affidiamo anche tutti gli ammalati, gli operatori sanitari e le vittime delle catastrofi naturali.

Guidati dalla Parola e resi figli nel Figlio, impariamo da Maria Santissima a custodire nel cuore e trasformare in vita la Parola di Dio. Lasciamoci raggiungere dalla benedizione divina e, affidandoci al Cristo Signore cui appartengono i giorni i secoli e il tempo, lasciamo che il Suo volto risplenda su di noi e attraverso di noi perché, anche attraverso la nostra obbedienza alla Sua Parola, il mondo conosca quella Pace vera che il Signore è venuto a portare. Auguri di un Buon 2024

Fr. Marco

sabato 30 dicembre 2023

La famiglia riflesso vivente della Trinità

 «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande» (Gen 15,1-6; 21,1-3)

«Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso.» (Eb 11,8.11-12.17-19)

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.» (Lc 2,22-40)

La pagina di Vangelo della festa della Santa Famiglia​ ci presenta il nucleo fondamentale della Chiesa: la famiglia secondo il progetto del Padre.

Il primo dato che emerge è l’obbedienza alla Legge del Signore: la consacrazione al Signore del figlio primogenito e la purificazione rituale della Madre. L’altro dato, che apprendiamo dalle parole del giusto Simeone, è che neanche a Maria Santissima, la benedetta fra le donne, verrà risparmiata la sofferenza: « … anche a te una spada trafiggerà l’anima». L’inno delle Lodi mattutine, inoltre, definisce la sacra famiglia “esperta nel soffrire”. La Pace che viene a portare Gesù, infatti, non è assenza di tribolazioni, ma la capacità di affrontarle con l’obbedienza fiduciosa animata dall’Amore; quell’Amore che vince il mondo e che ci permette di affrontare le invitabili tempeste della vita senza soccombere.

È proprio l’obbedienza fiduciosa come risposta alla fedeltà di Dio, la tematica fondamentale che attraversa le letture di oggi. La prima e la seconda lettura, infatti, ci presentano la figura di Abramo che obbedisce e si mette in cammino per strade sconosciute e, proprio quando pensa di avere perso tutto, fa l’estremo atto di fiducia (credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia) e riceve quella discendenza che umanamente gli era preclusa.

Nella famiglia obbediente al progetto di Dio, nella comunione d’amore che si apre alla fecondità, si manifesta la fedeltà di Dio all’uomo; quella fedeltà che diventa speranza di un futuro e pienezza di vita. Oggi, però, la crisi economica e le tendenze sociali e politiche minacciano la famiglia fin dal suo nascere tanto che si ha sempre più paura di sposarsi e fare figli. L’avere esteso il concetto di famiglia ad ogni relazione affettiva, perfino a quella col proprio animale domestico, inoltre, ha svuotato di senso il termine stesso

Nella cultura edonistica in cui siamo immersi, il piacere individuale, lo “stare bene”, è divenuto l’unico criterio delle scelte della nostra vita. Questa esigenza, che nei giusti limiti ha la sua legittimità, estremizzata ci porta spesso a fare scelte che ci rovinano la vita: inseguiamo un miraggio, magari convinti che “quest’uomo”, “questa donna” o finanche “questo figlio” sono la causa del malessere. Alla fine soffriamo e siamo causa di sofferenza. Quanti innocenti sacrificati al nostro egoismo, alla nostra egolatria alla nostra pretesa di benessere!

La Parola di Dio di oggi ci presenta il modo per salvare la famiglia: l’obbedienza fiduciosa che si mette in cammino, non confidando sulle proprie forze e nelle proprie certezze, ma sulla fedeltà di Dio che non viene mai meno.

È nella famiglia, infatti, come ci ricorda Papa Francesco, nell’enciclica Amoris Laetitia, che si riscopre l’autentica immagine di Dio: «I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. […] Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore. La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio […] In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente.» (AL 10-11).

Contemplando la santa Famiglia di Nazareth siamo spinti a cercare il criterio del successo della vita familiare nell’obbedienza alla Parola, nel continuo superamento del nostro egoismo, nell'esercizio dell'amore. Un amore che ben conosce il sacrificio personale, la spada che ti trapassa l'anima. La profezia di Simeone a Maria si avvererà sotto la croce, dove Maria, stava, in piedi, a nome di tutta l'umanità.

Quest’oggi, allora, preghiamo insieme perché ogni famiglia trovi la forza di vivere ogni giorno l’Amore vero che viene da Dio e, superando le difficoltà che la vita non risparmia a nessuno, costruisca ogni giorno la comunione e la pace.

Fr. Marco

 

domenica 24 dicembre 2023

Il Figlio si è fatto uomo per renderci figli di Dio

 

«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”.» (Is 52,7-10)

«Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.» (Eb 1,1-6)

«Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,1-18)

La solennità del Natale, ci invita a gioire perché è avvenuto l’impossibile: il Verbo di Dio si è fatto Carne, l’Eterno è entrato nel tempo, Dio si è fatto uomo; il Figli eterno del Padre, Dio da Dio, Luce da Luce, si è fatto creatura nel grembo della Vergine per fare di noi, sue creature, figli di Dio. Guardando al fragile segno del Bambino posto nella mangiatoia esultiamo di gioia. Una gioia che, tuttavia, purtroppo non raggiunge tutti.

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. Ad accoglierlo, lo abbiamo sentito nella liturgia della messa della notte, sono solo i pastorelli che vegliavano le greggi. I “grandi della terra” non si accorgono nemmeno della sua venuta. Il popolo che Dio si è scelto e ha condotto nella Terra Promessa, “i suoi”, sono troppo concentrati sulle loro certezze e le loro attese per riconoscerlo e accoglierlo. Tra qualche giorno, inoltre, scopriremo che, tutt’altro che accoglierlo, “i suoi” vogliono eliminarlo.

Non c’era posto per loro nell’alloggio, così abbiamo sentito stanotte. Maria e Giuseppe sono costretti a trovare rifugio in una stalla e la prima culla del Figlio Eterno del Padre fatto uomo è una mangiatoia. Il mondo non lo ha riconosciuto e purtroppo ancora non lo riconosce. Quanti festeggiano un natale senza senso, un natale in cui non nasce nessuno, in cui non c’è Gesù!

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. Il Figlio eterno del Padre è venuto a renderci figli! Non solo creature, ma figli, capaci di riconoscere il Padre e di entrare in relazione con Lui. Cosa significa accogliere il Verbo Eterno fatto uomo? Significa riconoscerlo Dio, Signore della nostra vita e vivere sotto la Sua signoria; significa ascoltare la Sua Parola e fare la Sua Volontà. Se accolgo Gesù come Signore, è evidente che non sono più io il signore della mia vita e sicuramente non sono il signore di quanti mi stanno accanto. Ecco perché è così difficile accoglierlo: l’uomo figlio di Adamo, vuole essere signore, vuole dominare, vuole decidere ciò che è bene e ciò che è male … e così facendo si rovina la vita. Essendo solo una creatura, infatti, non può donarsi la vita. Le sue scelte senza Dio, che è la Vita, non possono che essere scelte di morte.

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio. Il Battesimo, conformandoci a Cristo, ci rende figli di Dio. Una volta questo sacramento, celebrato da adulti, era frutto di una scelta consapevole alla quale ci si preparava per anni: davvero si accoglieva Gesù come Signore. Oggi, con il Battesimo dei bambini amministrato in una società anticristiana, spesso ci si ritrova cristiani senza esserlo mai diventati.

Diventare Figli di Dio, infatti, significa entrare nella relazione d'Amore col Padre; significa nutrire la serena consapevolezza di avere un Padre che provvede a noi, sapere che dove non arriviamo noi, arriva il Padre. Essere Figli di Dio significa avere la certezza che la nostra vita è nelle mani del Padre e che alla fine sarà il Suo abbraccio ad accoglierci.

Accogliamo, allora, il Verbo Eterno, la Parola di Dio che si fa uomo; riconosciamo, con i fatti e nella verità, Gesù come Signore della nostra vita per sperimentare la gioia di essere figli di Dio. Buon Natale del Signore.

Fr. Marco

venerdì 22 dicembre 2023

Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te

 « … Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. … io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio”.» (2Sam 7,1-5.8-12.14.16)

«Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, … a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.» (Rm 16,25-27)

​«Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.» (Lc 1, 26-38)

La liturgia della Parola della quarta domenica di Avvento, facendoci contemplare la figura di Maria, la madre di Gesù attraverso la quale il Signore realizza le Sue promesse a Davide e inizia la Sua opera di redenzione, ci mostra la fedeltà di Dio.

Perché si compiano le meravigliose opere di Dio, però, alla Sua fedeltà deve corrispondere l’obbedienza della nostra fede (II lettura). Solo così, nonostante la nostra piccolezza, il Signore potrà operare grandi cose in noi e attraverso di noi: nulla è impossibile a Dio.

La pagina evangelica di oggi ci presenta Maria come modello di una fede che diventa disponibilità operosa. La prima cosa che sentiamo dire di Maria nel Vangelo è che rimase turbata. Maria conosce le Scritture e si meraviglia si sentirsi appellare come la “figlia di Sion” (Sof 3,14-15 e Zc 2,14), espressione che racchiude il Popolo dell’alleanza in attesa del Messia. Trovandosi alla presenza dell’angelo Gabriele (“forza di Dio”) che manifesta la potenza del Santo dei Santi, inoltre, prende coscienza della propria piccolezza e indegnità. Certo, Maria, concepita immacolata, non era consapevole di peccato alcuno; ciò non toglie, tuttavia, che sperimentando la presenza di Dio percepisca la propria piccolezza e ne resti turbata. Il turbamento, inoltre, è caratteristica comune di tutte le particolari vocazioni nella Scrittura: il chiamato si meraviglia che il Signore abbia posato lo sguardo proprio su di lui e sulla sua piccolezza; si sperimenta indegno della grazia ricevuta ed ha quel santo “timor di Dio” che non è la paura di Dio, ma il timore di non corrispondere pienamente all’amore di cui ci si vede colmati; il timore di rattristare un così eccelso amante.

Soffermandoci ad osservare meglio il versetto evangelico, infatti, notiamo che Maria «rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto». «Rallegrati, riempita della grazia». Così l’aveva salutata l’Angelo riferendosi alla singolarissima Grazia che Dio le aveva concesso. È proprio la consapevolezza della Grazia ricevuta a suscitare in Maria il turbamento, il “timor di Dio”.

Anche noi nei sacramenti veniamo colmati dalla Grazia di Dio. Lui stesso vivo e vero viene in noi. Impariamo dalla nostra santissima madre come corrispondere a questa Grazia. Dinanzi all’amore di cui si vede colmata, Maria, sa abbandonarsi ad un’obbedienza umile e fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». La Madre ci mostra in tal modo la prima cosa da fare in risposta alla Grazia: fidarsi, e lasciare che il Signore compia la Sua opera in noi e per mezzo nostro; donare la nostra disponibilità operosa.

L’atteggiamento immediatamente successivo in risposta alla Grazia di Dio, è di “rendere grazie”. È ciò che ci invitava a fare la Parola già domenica scorsa, un appello continuo del tempo di Avvento. Alla Grazia di Dio deve far seguito il grazie dell’uomo. Rendere grazie non significa restituire il favore o dare il  contraccambio. Chi potrebbe dare a Dio il contraccambio di qualcosa? Ringraziare significa piuttosto riconoscere la grazia, accettarne la gratuità. Ringraziare significa accettarsi come debitori, come dipendenti; lasciare che Dio sia Dio. Ed è quello che Maria ha fatto con il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore …, perché grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

Nell’atteggiamento del rendimento di grazie, infine, è implicita l’attenzione a non sprecare il dono ricevuto: significherebbe svalutare il dono e offendere il donatore. Facciamo attenzione allora a non sprecare la Grazia che il Signore ci dona nei suoi sacramenti: viviamoli con la giusta consapevolezza e preparazione.

Ormai prossimi alla solennità del Natale, disponiamoci, sull’esempio di Maria Santissima, ad accogliere la Grazia. Prepariamoci seriamente alla celebrazione dei sacramenti, viviamoli consapevolmente e impegniamoci, per quanto è possibile, a corrispondere con l’obbedienza della fede all’Amore di cui siamo stati colmati. La nostra piccolezza non ci spaventi: nulla è impossibile a Dio.

Fr. Marco.

venerdì 15 dicembre 2023

In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete

 «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri …» (Is 61,1-2.10-11)

«Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (1Ts 5,16-24)

«Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: “Tu, chi sei?”. Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo. … Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa”» (Gv 1,6-8.19-28)

Nella terza domenica di Avvento, domenica Gaudete, l’antifona di ingresso ci esorta: «Rallegratevi sempre nel Signore … »; è lo stesso invito che per tutto il tempo di Avvento ci siamo sentiti rivolgere nella lettura breve dei secondi vespri della domenica. Anche il motivo per cui rallegrarci è lo stesso: il Signore è vicino.

La liturgia della Parola di questa domenica, inoltre, attraverso i due “testimoni dell’Avvento”, il profeta Isaia e Giovanni il Battista, ci mostra ancora meglio il motivo per cui rallegrarci. Nella prima lettura, infatti, il profeta Isaia ci presenta la venuta del Signore come il lieto annuncio rivolto ai miseri, un tempo di grazia e di liberazione per quanti hanno il cuore spezzato o sono schiavi. È il tempo della liberazione e della consolazione; è il tempo in cui siamo raggiunti dall’amore misericordioso di Dio. Per questo è tempo di gioia vera ed autentica.

«In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». Nella pagina di Vangelo, Giovanni il Battista, interrogato dai Giudei, dichiara che il suo compito è di annunciare la Misericordia di Dio che viene nel mondo e di parlare a favore della Luce. Dio è pieno di amore misericordioso per tutta l'umanità.

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.» Il suo stesso nome, Giovanni cioè “Dio fa grazia”, è annunzio di salvezza e il padre, Zaccaria, lo canta nei secoli nel Benedictus. Ecco il motivo per rallegrarsi.

La Parola di oggi, però, ci dà anche alcune indicazioni, per potere essere raggiunti dalla misericordia di Dio ed essere sempre lieti, come ci esorta a fare la seconda lettura.

«In ogni cosa rendete grazie …» ​La prima indicazione la trovo proprio nella seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Tessalonicesi. Credo sia fondamentale coltivare il senso di gratitudine, concentrarsi sugli innumerevoli doni che il Signore continuamente ci fa, per evitare che il maligno avveleni la nostra vita e ci tolga la gioia. In quest’ultima parte dell’Avvento, allora esercitiamoci nel ringraziare. Ringraziamo spesso e volentieri il Signore, ma ricordiamoci anche di ringraziarci spesso a vicenda.

«Io non sono il Cristo … a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». L’altro fondamentale atteggiamento che ci permette di partecipare alla gioia messianica lo troviamo nel Vangelo ed è l’umiltà di Giovanni. L’umiltà infatti è la verità di noi stessi. Non lo sminuirci, ma il riconoscere ciò che siamo ed i nostri limiti. Troppo spesso, invece, ci costruiamo un’idea troppo alta di noi stessi (Cfr. Rm 12,16) e ci affanniamo per mantenerla dinanzi a noi e al mondo. Spesso questa fatica e gli inevitabili fallimenti di questi sforzi ci tolgono la gioia. Io non sono il Cristo. Quanto è liberante ricordarmi che non sono io il Salvatore del mondo! Il mondo è già stato salvato. Gesù Cristo è il Signore della Storia e, se glielo lascio fare, è capace di condurre la mia vita e quella dei miei fratelli a pienezza. Io ho le mie responsabilità, il mio compito; ma io non sono il Cristo.

«Pregate ininterrottamente».  Quest'ultima indicazione dataci da s. Paolo, infine, compendia entrambe le condizioni su esposte: siamo invitati a pregare ringraziando continuamente il Signore per i suoi innumerevoli doni. Consapevoli dei nostri limiti, però, siamo anche invitati a pregare per chiedere al Signore di intervenire in quelle situazioni che superano le nostre possibilità. 

Rallegriamoci, allora, nel Signore, lasciamoci possedere dalla gioia messianica liberandoci, con la gratitudine, dal veleno dell’invidia e della cupidigia. Accogliendo umilmente i nostri limiti confidiamo nel Signore che viene a donarci la Gioia piena. Così facendo, saremo anche noi, come Giovanni, testimoni della presenza del Signore.

Fr. Marco

venerdì 8 dicembre 2023

Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri

 «Consolate, consolate il mio popolo … Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede» (Is 40,1-5.9-11)

« … Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.» (2Pt 3,8-14)

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Mc 1,1-8)

La liturgia della Parola della seconda domenica di Avvento si apre con l’imperativo: Consolate. Nelle fatiche della vita, nelle difficoltà che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare, siamo invitati a ricordare la consolante notizia: viene il Signore della Vita, Colui che si prende cura di ciascuno di noi. Perché la Sua venuta possa essere fonte gioia e consolazione, tuttavia, è necessario prepararci.

La Parola della prima domenica di Avvento ci invitava all’attesa e alla vigilanza. Questa seconda domenica, la liturgia dà un contenuto a questa vigilanza: siamo chiamati alla conversione, a preparare la via al Signore che viene.

Conversione, lo sappiamo bene, significa cambiare la direzione in cui va la nostra vita, ritornare sui nostri passi abbandonando la strada sbagliata che stiamo percorrendo. È quello che siamo chiamati a fare quest’oggi: lasciare le vie di peccato che ci portano in esilio, lontano dalla Vita, per ritornare al Signore.

La liturgia di oggi, però, ci parla anche di raddrizzare i sentieri, riempire i burroni e abbassare i monti. Conversione, infatti, significa anche questo: preparare la nostra vita ad accogliere il Signore che viene a darci la consolazione che attendiamo.

Se esaminiamo onestamente alla nostra vita, scopriamo quanto abbiamo bisogno di queste “grandi opere di ripristino”. Abbassare i monti del nostro orgoglio, colmare i fossi delle mancanze nei nostri doveri, raddrizzare le strade tortuose che stiamo percorrendo. Purtroppo, però, se siamo onesti con noi stessi dobbiamo anche prendere atto di non essere capaci di compiere queste opere. Ecco la buona notizia di questa domenica: sarà il Padre stesso, con la Sua Parola accolta nella nostra vita, a trasformare le nostre vie perché possiamo accogliere il Signore che viene.

Perché la Parola possa essere accolta e produca frutto nella nostra vita, tuttavia, siamo chiamati ad assumere l’atteggiamento di Giovani il Battista: l’attesa operosa e la disponibilità; siamo chiamati all’intimità del deserto in cui sperimentiamo la presenza del Signore senza il quale non possiamo fare nulla.

Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. Condizione indispensabile perché la Parola venga accolta e produca frutto, è farle spazio rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e riconoscendo la nostra piccolezza e il nostro bisogno di Dio. È necessario, quindi, anche entrare nel “deserto”, fare tacere i rumori del mondo per potere ascoltare il mormorio della brezza leggera, la Voce del Silenzio, che manifesta la Parola.

Solo dopo avere ascoltato la Parola ed averla lasciata operare in noi, come Giovanni, potremo svolgere la funzione profetica: rimanendo nel silenzio dell’ascolto (nel deserto) siamo chiamati anche noi a farci voce di questa Parola nell’invitare il mondo ad accogliere Colui che solo può donargli la consolazione, pace e la gioia di cui ogni uomo e donna è assetato.

Fr. Marco

giovedì 7 dicembre 2023

Ecco la serva del Signore

 «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,9-15.20)

«Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,3-6.11-12)

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te … Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.» (Lc 1,26-38)

Nella solennità dell’Immacolata concezione di Maria la Liturgia della Parola si apre con il racconto delle conseguenze immediate del peccato dei progenitori: la rottura di ogni rapporto di amicizia tra l’uomo e Dio (“Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”), tra l’uomo e la donna (“La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”) e tra l’uomo e il creato (“Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”).

Con il peccato entra nel mondo la paura e la morte: l’uomo diventa incapace di vedere Dio come il Padre che lo ama al di là di ogni nostra immaginazione; diventa incapace di riconoscere i fratelli e il creato come un dono d’amore; consapevole della propria nudità, l’uomo diventa bramoso di una vita che non può darsi. Questa conseguenza del peccato originale si tramanda per ogni generazione. La prima lettura però, si conclude con quello che viene chiamato il “proto-vangelo”: l’annuncio che la stirpe della donna avrebbe schiacciato il serpente antico.

È quello che avviene in Maria la quale, in vista dei meriti di Cristo, è da Lui redenta fin dal grembo materno e quindi resa capace, con la sua obbedienza fiduciosa al progetto del Padre, di essere “aurora della redenzione”, colei attraverso la quale è giunto nel mondo il Redentore.

In questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, però, vorrei che riflettessimo su ciò che questo dogma dice a noi per la nostra salvezza. Maria oggi ci viene presentata come “modello di santità e avvocata di grazia” (prefazio). Siamo chiamati a guardare Maria come modello di risposta alla Grazia. L’opera redentrice di Cristo, infatti, che ci raggiunge nei sacramenti, compie in noi ciò che ha operato in Maria fin dal concepimento: Maria è immacolata fin dal grembo materno, noi diventiamo immacolati con il Battesimo.

A differenza di Maria, però, noi raramente, purtroppo, corrispondiamo pienamente a questa Grazia rendendoci colpevoli con i nostri peccati volontari (mai compiuti da Maria) e non aderendo al progetto d’amore del Padre. Per questo il Signore, che ci vuole “santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (seconda lettura), ha istituito il sacramento della riconciliazione: se ben celebrato (con un vero pentimento e un sincero proposito di non peccare più), la confessione ci restituisce la santità battesimale. Con il sacramento della comunione, inoltre, riceviamo in noi Gesù Cristo vivo e vero: la Grazia di Dio apparsa nel mondo, come lo chiama S. Paolo scrivendo a Tito (Cfr. Tt 2,11); anche noi, quindi, siamo pieni di Grazia!

Non sprechiamo tali doni d’amore, ma impegniamoci a corrispondere alla Grazia di cui Dio vuole colmarci e a compiere la volontà del Padre nella nostra vita.

Contemplando Maria la nostra madre immacolata, anche noi impegniamoci ogni giorno per dire a Dio la nostra risposta di obbedienza fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Fr. Marco

venerdì 1 dicembre 2023

Non sapete quando il Signore ritornerà. Vegliate!

 «Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto a noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.» (Is 63,16-17.19;64,2-7)

«Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, … la testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.» (1Cor 1,3-9)

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.» (Mc 13,33-37)

Oggi inizia il tempo liturgico dell’Avvento con il quale la Chiesa si prepara ad incontrare il Signore che viene. La pagina del Vangelo di questa prima domenica ci esorta con l’imperativo «Fate attenzione, vegliate». L’Avvento, infatti, è un tempo caratterizzato dall’attesa che dà il tono a tutto l’anno liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta”. 

I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore cui fare attenzione e prepararsi: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

Vegliate. A questo verbo possiamo dare almeno tre accezioni che indicano altrettanti atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: stare svegli, stare attenti (vigili) e fare vigilia.

Siamo invitati a “stare svegli”, a non lasciarci prendere dal torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. La prima lettura lamenta: nessuno si risvegliava per stringersi a te. Il mondo e la vita di ogni giorno possono fare “assopire” la nostra attesa, facendoci rassegnare a ciò che viviamo senza aspettarci più niente, senza speranza. Stare svegli significa, quindi, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Lo stare svegli, inoltre, significa l’essere pronti a riconoscere e accogliere il Signore quando viene a visitarci nel povero o nel malato.

Siamo invitati a fare attenzione, ad “essere vigili”, per non cadere nelle trappole del diavolo che come leone ruggente va in giro cercando chi divorare (Cfr. 1Pt 5,8). Tra queste trappole, la più pericolosa è l’insinuazione, soprattutto nei momenti di sofferenza e tribolazione, che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Facciamo attenzione ad usare bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede - ne dovremo rendere conto - non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che non ci ha abbandonati, ma si prende cura di noi, anche in modi misteriosi e non sempre comprensibili.

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La gioia deve caratterizzare la nostra attesa: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia è caratterizzato dalla necessità di prepararsi all’incontro, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della penitenza cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento: convertirci, cambiare la direzione della nostra vita, decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della penitenza, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio che, nei secondi vespri delle domeniche di Avvento, ci rivolgerà questo appello: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Credo che il modo più immediato di mettere in pratica questa Parola, sia quello di avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Un esercizio di “conversione”, di decentramento. Non credo che sarà semplice, ma … il Signore è vicino!

Fr. Marco

 

sabato 25 novembre 2023

Venite, benedetti del Padre mio

«Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.» (Ez 34, 11-12. 15-17)

«È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.» (1Cor 15, 20-26.28)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.» (Mt 25, 31-46)

​La liturgia della Parola dell’ultima domenica dell’anno liturgico, solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, nel ciclo A ci presenta ciò che sarà alla fine del tempo, quando Gesù prenderà possesso in maniera definitiva del suo Regno ricapitolando tutto in sé.

Le letture di questa domenica, infatti, sono dominate dall’immagine del “re-pastore”. Nella prima lettura, tratta dal profeta Ezechiele, Dio è presentato come un pastore che raduna il suo gregge, lo passa in rassegna e conduce le sue pecore all’ovile. Il profeta scrive contro i governanti del suo tempo che non si sono curarti del bene del popolo, del gregge loro affidato, ma hanno cercato solo il loro interesse. Contro costoro Ezechiele  profetizza un tempo in cui sarà Dio stesso a prendersi cura del suo popolo e a dare a ciascuno ciò che meritano le sue azioni.

Nella seconda lettura san Paolo utilizza un’immagine assai comprensibile al suo tempo: un principe figlio di Re che, dopo avere condotto una battaglia contro gli usurpatori del regno, lo riconsegna al Padre. Cristo è presentato, quindi, come Colui che vince ogni opposizione al Regno dei Cieli.

La pagina di Vangelo di oggi, infine, fa una sintesi delle due figure (... siederà sul trono della sua gloria … come il pastore …): ci presenta, infatti, il Re che, preso possesso del suo Regno riconosce “i suoi” distinguendoli da coloro che hanno scelto di vivere sotto un’altra signoria. Discrimine per essere riconosciuti come appartenenti al Regno è il riconoscere, coi fatti, la Signoria di Cristo: vivere come lui ci ha insegnato con l’esempio e la Parola.

Siederà sul trono della sua gloria. Anticipazione del trono della gloria è la croce. È davanti al questo trono della sua gloria, allora che saremo giudicati. È la croce, quindi, il criterio di valutazione della vita di un uomo davanti a Dio. Ogni discepolo è chiamato a “prendere la propria croce”, cioè a fare della propria vita un dono d’amore. Non basta dire “Signore, Signore”. Bisogna mettere in pratica ciò che Lui ha comandato: l’amore per Dio autenticato dall’amore per i fratelli. Soprattutto per i fratelli più piccoli, quelli che non contano nulla nel mondo e che non hanno da ricambiare. 

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo». Erediteremo il Regno. L’eredità appartiene ai figli e che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!” (Gal 4,6) Se viviamo secondo lo Spirito, allora, se ci lasciamo conformare al Figlio, siamo figli ed eredi e, quindi, non più schiavi degli idoli del mondo. Liberi dall’idolatria dell’avere, avremmo chiaro che la vita non dipende da ciò che uno possiede, ma viene dal Padre che conosce i nostri bisogni. Altrove il Maestro ci insegna: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33) la “cosa” più importante da cercare e da condividere con i fratelli, allora, non sono i beni materiali (che pure servono), ma la conoscenza e l'annunzio del Regno. Testimoniando con i nostri concreti gesti d’amore che «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4)

Non basta, allora, assistere i fratelli, magari con il nostro superfluo e “per metterci a posto la coscienza”, a farci eredi. Eredi lo siamo se, avendo accolto lo Spirito in noi, desiderosi di compiacere il Padre, ci comportiamo da figli amando concretamente i fratelli che abbiamo accanto, condividendo con loro il pane materiale e la conoscenza del Regno. 

«...quando mai ...» Mi colpisce sempre lo stupore dei giusti e dei reprobi dinanzi la sentenza. entrambi non hanno riconosciuto Cristo nei fratelli. I giusti, però, si sono conformati a Lui nell'amare i fratelli. Questo, infatti, è importante: che il fratello nel bisogno veda in noi i tratti del Figlio di Dio. 

Solo se saremo capaci di conformarci al Nostro Signore Gesù Cristo nell’amare gratuitamente i nostri fratelli, quindi, potremo essere riconosciuti come “suoi” ed essere ammessi nel regno preparato per noi. Diversamente, se nella nostra vita non avremo concretamente ed esistenzialmente riconosciuto la signoria di Cristo, ma avremo servito altri padroni, primo fra tutti il nostro “io”, la sentenza finale non potrà che prendere atto di questo stato di cose: saremo esclusi dal Regno, che in sostanza non abbiamo mai riconosciuto, e subiremo la sorte dei ribelli (il diavolo e i suoi angeli).
Accogliamo l’invito di questa Parola e, contemplando le realtà ultime, cominciamo fin da ora a vivere nella Signoria di Cristo per potere, in quell’ultimo giorno, essere ammessi alla pienezza della gioia.

Fr. Marco

venerdì 17 novembre 2023

A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza

 «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.» (Pr 31,10-13.19-20.30-31)

«Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.» (1Ts 5,1-6)

«Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25,14-30)

La Parola di Dio di questa ultima domenica del tempo ordinario (domenica prossima celebreremo la solennità di Cristo Re con il quale si conclude l’anno liturgico), ci presenta ancora le “cose ultime” ribadendo la necessità di non farci trovare impreparati. La pagina di Vangelo, infatti, è tratta ancora dal discorso escatologico: Gesù sta rispondendo alla domanda che i discepoli gli hanno posto (in Mt 24,3) riguardo al “quando” della venuta del Figlio dell’uomo. Come nella precedente (le vergini sagge e quelle stolte), anche in questa  parabola il Maestro sottolinea che non ci è dato di sapere il “quando”, ma è fondamentale usare bene il tempo presente.

La particolare sottolineatura della Parabola dei talenti è l’invito all’intraprendenza mossa dall’amore: ciò che il Signore ci chiede è “l’obbedienza creativa” dei figli che, per amore del Padre, non si risparmiano e fanno ciò che sanno può fargli piacere senza bisogno che glielo si chieda. Questo è il “timor di Dio” di cui si parla nella prima lettura: il desiderio di compiacere il nostro Padre e il timore di contristarlo. Cosa, in effetti, può dispiacere di più un padre che vedere i figli che sprecano la loro vita?

«Consegnò loro i suoi beni» Per comprendere meglio ciò che il Signore ci vuole dire, può servire conoscere che il talento non è una moneta, ma un peso: un valore simbolico per una grande quantità. Un talento valeva qualcosa più di 34 chili di argento: approssimativamente 30 anni di lavoro di un operaio! Il Padrone della Parabola mostra, quindi, di riporre una grande fiducia nei suoi servi: affida loro i suoi beni perché li amministrino creativamente, perché li facciano fruttare, per poi introdurli “nella Sua gioia”. Così il Padre si comporta con ciascuno di noi: ci consegna la vita, la nostra storia, il nostro tempo, le occasioni della vita … perché noi facciamo della nostra vita un capolavoro!

«Secondo le capacità di ciascuno» Un’altra cosa su cui vorrei fermare l’attenzione, è la differenza nei beni consegnati ai servi e di conseguenza la differenza nel rendimento consegnato al Padrone: ciò che conta non è la quantità del risultato, ma l’atteggiamento di fiduciosa intraprendenza che i servi hanno dimostrato, il fatto che i talenti siano stati trafficati. L’ultimo servo, quindi, viene rimproverato e punito non per la scarsezza del risultato, ma per l’immagine distorta e ingiusta che si è costruito del suo Padrone; per essersi fatto bloccare dalla paura. Mentre i suoi compagni, vistisi trattare come figli, si comportano da tali e si prendono cura di ciò che il Padrone ha affidato loro, il “servo pigro” si trincera dietro una “rigida” giustizia («Ecco ciò che è tuo»), che poco ha a che fare con l’amore, e finisce per comportarsi ingiustamente nei confronti del suo Padrone attribuendogli un’immagine distorta. La sua eccessiva e “vigliacca” paura lo paralizza e fa sì che i beni affidatigli non fruttifichino: la sua vita è stata sprecata. Il Padrone, quindi, non fa che prenderne atto e dare seguito a ciò che lui ha già determinato: lo tratta a partire dall’immagine che il servo si era costruito di lui e rende palese lo spreco della sua vita.

Nella seconda lettura S. Paolo ci ammonisce: noi non siamo nelle tenebre, ma sappiamo Chi è il Nostro Signore e ciò che chiede a ciascuno di noi. Non lasciamoci, dunque sorprendere, ma facciamo tesoro del tempo presente e, mettendo al bando la paura, agiamo con una intraprendenza fiduciosa nell’amore del Padre. Ricordiamo: chi vuol salvare la vita, la perde!

Fr. Marco

venerdì 10 novembre 2023

Attendiamo la Sposo

 

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.» (Sap. 6, 12-16)

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.» (1Ts 4, 13-18)

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.» (Mt 25, 1-13)

​La Parola di Dio della XXXII Domenica del Tempo Ordinario, essendo ormai prossimi alla conclusione dell’anno liturgico, ci introduce alla contemplazione delle “cose ultime”. La pericope evangelica, infatti, è tratta dal “discorso escatologico” del Vangelo di Matteo (capp. 24-25). Gesù sta rispondendo alla domanda dei discepoli riguardo il “quando” della venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo (Mt 24,3). Non ci è dato di conoscere il “quando”, “l’ora” della venuta; ciò che è indispensabile, però, è farsi trovare pronti. Per questo motivo oggi il Maestro ci invita alla vigilanza, a vegliare, a non lasciare che il protrarsi dell’attesa ci faccia dimenticare chi stiamo aspettando. La “parabola delle dieci vergini” ci invita alla vigilanza che si fa attesa di un evento che, per quanto possa “ritardare” rispetto alle nostre aspettative, di sicuro avverrà. 

Per questo stesso motivo la prima lettura ci esorta a vivere con “Sapienza”, cioè secondo la volontà di Dio. La Sapienza che dobbiamo ricercare, infatti, è quel “vivere bene” che si può apprendere solamente ascoltando e meditando la Parola di Dio. Questa Sapienza, va “cercata”, “desiderata”, per essa bisogna “vegliare”; ci viene richiesto, quindi, un certo impegno, una “dolce fatica”; quella fatica che non viene percepita tale perché sostenuta dall’amore. Questo deve essere il nostro impegno nel meditare e comprendere sempre più pienamente la Parola di Dio.

«… le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.» Essere vigilanti nell’attesa significa anche attrezzarsi per non essere trovati impreparati al momento dell’incontro con lo Sposo. Nella parabola evangelica, tutte e dieci le vergini hanno le lampade, ma solo le vergini sagge si sono procurate l’olio perché queste lampade possano risplendere. Fuori di parabola: per la Grazia di Dio ricevuta nel Battesimo tutti i cristiani siamo nelle condizioni di risplendere della luce di Cristo. Solo coloro che ascoltando la Parola vivono con sapienza, però, restano vigili nella Speranza e vivono una Fede operosa che si traduce nella Carità. Solo loro alla fine avranno raggiunto quella conformità a Cristo che li farà riconoscere come “figli” e li farà ammettere al “banchetto nuziale”.

«In verità io vi dico: non vi conosco». Gli stolti, coloro che vivono senza sapienza (quindi una vita “insipida”), sono coloro che hanno lasciato sopire la loro speranza: non sperano più nulla e non aspettano nulla; se vivono una parvenza di “fede”, questa è appunto una fede inoperosa, che non si traduce nella vita, ed è, quindi una “fede morta”, come la definirebbe S. Giacomo; spesso l’unico amore che li muove è un disordinato amore del proprio io. Costoro non si conformano al Figlio, il solo Giusto, e non potranno essere da Lui riconosciuti ed introdotti al banchetto.

«Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.» Il sonno cui si riferisce la Parabola è il sonno della morte. L’evangelista Matteo ha dinanzi la Chiesa che attende l’imminente arrivo del Signore e nel frattempo vede morire i suoi membri saggi e stolti. È il sonno della morte dalla quale tutti si risveglieranno all’arrivo dello Sposo. Quanti nella loro vita si sono preparati all’incontro, verranno introdotti con Lui alle nozze. Gli altri non potranno entrare.

«Andate dai venditori e compratevene» Non facciamoci trovare impreparati! Il tempo per prepararci all’incontro è oggi, è la vita presente. Procuriamoci per tempo “l’olio” per le nostre lampade in modo che possano splendere della Luce di Cristo. I “venditori”, coloro presso i quali ci possiamo procurare l’olio che faccia splendere la nostra vita, sono i poveri, i piccoli. I primi discepoli di Gesù l’hanno capito subito. Abbiamo appena celebrato la memoria di S. Martino di Tour (316-397) il cui gesto più famoso è l’avere tagliato il suo mantello per coprire un povero. Gesto simbolico di una vita in cui si prese cura degli ultimi della società. Come lui, i santi di ogni epoca hanno brillato di quella Carità operosa che nasce dalla Speranza certa fondata sulla Fede. Illuminati dalla Parola e dall’esempio dei santi, allora, impariamo anche noi a vivere praticando la Sapienza che ci viene dal nostro Maestro.

Fr. Marco

sabato 4 novembre 2023

Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli

 «Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione.» (Ml 1,14- 2,2.8-10)

«Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.» (1Ts 2,7-9.13)

«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. … Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,1-12)

​La Parola di Dio della XXXI domenica del Tempo Ordinario ci invita a quella vera umiltà che nasce dal riconoscere la grandezza del nostro Dio e dallo “stare al nostro posto”. Nelle biografie di San Francesco d’Assisi si racconta che, sin dagli inizi della sua conversione, capitava che il serafico padre passasse le notti in preghiera ripetendo: «Chi siete voi, mio dolcissimo Signore Iddio, e chi sono io, povero vermiciattolo, vostro servo?...» (Cfr. Bartolomeo di Pisa, Conformitates).

Anche noi oggi siamo invitati dal Signore a ricordarci che solo Lui è il Signore, Re grande, Maestro, Padre e Guida. Noi siamo tutti fratelli e discepoli. Consapevoli di ciò, siamo invitati a vivere di conseguenza e a non provare ad appropriarci della Sua gloria.

Oggi la Parola si rivolge in maniera particolare a quanti sono chiamati nella società e nella Chiesa a sedere in cattedra, a quanti sono chiamati al servizio dell’autorità: docenti, catechisti, politici; ma soprattutto ministri ordinati. Può capitare, infatti, che la vanagloria che abita l’uomo porti coloro i quali sono più in vista per il servizio che svolgono a cercare gloria per sé. È ciò che ha portato alla mentalità della “casta”, a sentirsi privilegiati per il ruolo che si svolge.

«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo.» Dovremmo ricordare che Gesù non è venuto ad istituire una “casta sacerdotale”, ma con l’esempio ci ha insegnato il servizio fino al dono della vita. Il ministro ordinato è chiamato a servire la Chiesa e i fratelli, non a servirsi della Chiesa e dei fratelli per la propria gloria.

«Dicono e non fanno. … Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente.» La vanagloria e l’esercitare potere sulle persone a noi affidate, da sempre ha tentato l’uomo. Oggi forse più che mai, nella società dei social media, è forte la tentazione di cercare la gratificazione nell’ammirazione della gente, nell’apparenza. Può capitare persino che si strumentalizzi anche ciò che c’è di più sacro per apparire, per essere ammirati, per avere gloria. Ecco allora la ricerca di originalità nelle celebrazioni (che a volte si avvicina pericolosamente all’eterodossia); gli ammiccamenti al modo di pensare del “mondo”, perché “in fondo che male c'è”; La ricerca di pubblicità e visibilità per ogni cosa che si fa … Oggi il Maestro ci esorta alla coerenza, ad insegnare con la Vita, a preoccuparci di più di vivere il vitale rapporto con Lui che del legare la gente a noi. Ciò non toglie che le nostre opere devono essere visibili, ma devono esserlo per dare gloria al Padre che è nei cieli e non a noi (Cfr. Mt 5,13-16).

Accogliamo l’insegnamento del Vangelo e l’esempio di San Paolo e, riconoscendo in Gesù l’unico Maestro e Signore, come discepoli serviamo i fratelli facendoci per essi modelli di sequela capaci di indicare a quanti il Signore ci ha messo accanto la Via, la Verità e la Vita.

Fr. Marco

martedì 31 ottobre 2023

Una moltitudine immensa di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.

 « … ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. ...“La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7, 2-4.9-14)

«… noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1Gv 3,1-3)

«Beati i poveri in spirito, … Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.» (Mt 5, 1-12)

Nella solennità di Tutti i Santi la liturgia della Parola ci presenta una moltitudine immensa: sono coloro i quali hanno realizzato la loro vocazione battesimale conformandosi a Cristo. Oggi, infatti, non celebriamo solo i santi che la Chiesa ha canonizzato, cioè posti a modello, misura (canone), per noi, ma anche quelli anonimi che nel silenzio della loro quotidianità hanno saputo vivere la logica delle Beatitudini, la logica del Vangelo, e non si sono conformati alla mentalità del mondo. Questa solennità è soprattutto per loro. Ma è anche per noi, per ricordarci di essere tutti chiamati alla santità, ad essere Beati, a vivere secondo la dignità di figli di Dio facendo emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio che ci è stata donata con il battesimo. 

La salvezza appartiene al nostro Dio … É questo il grido della moltitudine immensa che riconosce il dono gratuito di Dio. La santità, infatti, la realizzazione della nostra vita, è prima di tutto un dono e non merito dei nostri sforzi. A noi è chiesto solo di accogliere questo dono e di farlo fruttificare. È qui che entra in gioco il nostro impegno: nel fare sì che la Grazia non venga vanificata; nell’essere pronti a comprendere e fare la volontà di Dio nell’attimo presente; nel rifiutare la logica dell’egoismo, dell’edonismo, del potere e dell’avere, per assumere, invece, la logica dell’altruismo, dell’amore gratuito e disinteressato che si fa servizio e perdono.

… sono quelli che vengono dalla grande tribolazione … ; Beati i perseguitati per la giustizia …  Vivere come Figli di Dio, però, conformarsi alla logica del Beatitudini, non è mai accetto al mondo la cui logica è totalmente altra. Per questo i santi di tutti i tempi hanno affrontato la persecuzione. A volte si è trattato di persecuzione violenta come quella di Diocleziano (cui si riferisce l’autore dell’Apocalisse) o quella subita dai martiri di tutti i tempi (ancora oggi tanti  nostri fratelli in Siria, Iraq e Nigeria subiscono il martirio), Più spesso, però, soprattutto qui in Occidente si tratta di una persecuzione subdola tesa a screditare la Chiesa e i suoi ministri; ancora più frequente è l’insinuazione che “il nemico dell’umanità” ci mette nel cuore, anche attraverso i nostri fratelli, che “la santità non fa per noi”, “che non c’è niente di male a scendere a compromessi … d’altronde, bisogna aggiornarsi!”; “Se Dio veramente ti amasse, non permetterebbe questa sofferenza …” ; tutte cose che ci allontanano dalla nostra piena realizzazione e ci riducono a vivere una vita senza senso, una vita che non è Vita; non di rado, infatti, noi stessi o i nostri fratelli ci lamentiamo: «Ma è vita questa?»

Guardando all’esempio dei santi, non temiamo la persecuzione del mondo che, non avendo riconosciuto il nostro Maestro, non potrà certo accettare la vita secondo i Suoi insegnamenti, ma perseveriamo nell’adempimento della Volontà di Dio, nell’accoglienza della Sua Grazia, e giungeremo a quella Gioia piena che il Signore è venuto a regalarci.

In questa giornata della santificazione universale, infine, voglio riportarvi un pensiero di San Paolo VI: «Siate santi in tutta la vostra condotta … L’esortazione … che vi rivolgiamo, non è fuori luogo, non è iperbolica; e non è anacronistica rispetto allo stile di vita, che il costume moderno impone a tutti; la santità non è cosa né di pochi privilegiati, né di cristiani dei tempi antichi; è sempre di moda; vogliamo dire è sempre programma attuale ed impegnativo per chiunque voglia chiamarsi seguace di Cristo.» (Udienza Generale 7 luglio 1965) Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

sabato 28 ottobre 2023

Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti

 «Così dice il Signore: Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, … Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.» (Es 22,20-26)

«… vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio …» (1Ts 1,5-10)

«“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 34-40)

Oggi la liturgia della Parola ci presenta il grande comandamento che anima e compendia tutta la Legge: il comandamento dell'Amore. Il dottore della Legge che oggi interroga Gesù per metterlo alla prova appartiene alla setta dei farisei, uomini consacrati al rispetto scrupoloso della Legge per osservare la quale avevano redatto una minuziosa casistica: una moltitudine di regole che rischiano di opprimere l’uomo. In questa miriade di regole, qual è il comandamento più grande, più importante?

Il Maestro risponde citando lo Shemà Ysrael (Dt 6, 4-5, “Ascolta Israele”), che gli israeliti pregavano quotidianamente, a cui associa il precetto dell’amore per il prossimo tratto dal “Codice di santità” (Lv 19,18).

«Amerai il Signore tuo Dio» Il primo e più grande comandamento ci richiama alla relazione con Dio. Una relazione che, come ci ricorda lo Shemà citato da Gesù, inizia con l’ascolto. I farisei non ascoltavano più la voce di Dio, ma le loro elucubrazioni intorno alla Legge. Impegnati nella scrupolosa osservanza dei comandamenti per raggiungere una vanagloriosa perfezione autocentrata,  avevano dimenticato la relazione d’amore con Dio. La Legge, che i farisei avevano assolutizzato facendone quasi un idolo, è stata data con lo scopo di custodire la relazione d’amore con Dio. Un amore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Un amore, quindi che coinvolga ogni sfera della nostra esistenza: pensieri, intelligenza, sentimenti e opere.

«Il secondo poi è simile...» Perché l’amore per Dio sia autentico, però, esso non può rimanere qualcosa di intimistico, ma deve coinvolgere anche le opere; deve diventare amore misericordioso nell’imitazione del Dio pietoso che ascolta il grido del forestiero, dell’orfano e della vedova. Sono loro, quanti non possono in alcun modo contraccambiare l’amore concreto che riceveranno, il prossimo da amare come te stesso: con la stesa attenzione ed urgenza con la quale si cerca soddisfazione alle proprie esigenze; con la stessa delicatezza che si desidera ricevere.

Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole … come potrebbe coprirsi dormendo? L’amore di Dio che siamo chiamati ad imitare, nella prima lettura  mostra quella tenerezza, quel prendersi cura, di cui spesso ci parla Papa Francesco: la tenerezza di un Padre che si preoccupa per i suoi figli.

Un ultima sottolineatura penso vada fatta sull’amore “come te stesso”. Il fatto che il Maestro leghi l’amore per il prossimo all’amore per se stessi, dà a quest’ultimo una certa legittimità a condizione che esso non diventi egoistico, ma si colleghi direttamente all'amore a Dio e al prossimo. Amare se stessi in Dio e senza escludere il prossimo fa parte del messaggio evangelico.

Nella seconda lettura di oggi, infine, S. Paolo si rallegra con i Tessalonicesi perché il loro servizio di Dio, che si è concretizzato nell’amore tra loro e per i fratelli, è diventato annuncio missionario. Anche noi, allora, accogliamo l’insegnamento del Maestro e, ravvivando la nostra vitale relazione con Dio, amiamolo con tutto noi stessi mettendoci al servizio dei fratelli. Il Signore ce lo conceda soprattutto in questo momento buoi dell'umanità in cui sembra prevalere l'odio tra i fratelli e l'incapacità di accogliersi e perdonarsi. 

Fr. Marco

sabato 21 ottobre 2023

Rendete a Dio quello che è di Dio

  «Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio» (Is 45, 1.4-6)

«Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.» (1Ts 1,1-5)

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 15-21)

La Parola di Dio della XXIX domenica del tempo ordinario anno A​ ci presenta una verità fondamentale: non c’è altro Dio che il nostro Dio. Chiunque agisce con retta coscienza, cercando di compiere il bene nella la sua vita con le sue azioni, anche se non conosce il nome di Dio, anche se non ha ancora incontrato Gesù Cristo, anche se inconsapevolmente e imperfettamente, compie la volontà di Dio ed accoglie la Sua salvezza (Cfr Gaudium et spes n.22).

«Io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.» Nella prima lettura, infatti, il profeta Isaia si rivolge a Ciro, un re pagano che non conosce il nome di JHWH, come all’eletto attraverso il quale il Signore farà risorgere Gerusalemme.

«Io sono il Signore e non c’è alcun altro» Nessuna autorità, quindi, può sentirsi esonerata dall’osservanza della Volontà di Dio. Dio Padre, Figlio e Spirito Santo è il Signore della storia, Colui che, se glielo permettiamo, guida i nostri passi nelle via della Vita. Ecco perché, come ci ricorda Papa Francesco, «La santità cristiana non è prima di tutto opera nostra, ma è frutto della docilità – voluta e coltivata – allo Spirito del Dio tre volte Santo.» (omelia 23/2/14).

Se il nostro Dio è il Signore della Storia e l’unico Dio, allora non ha senso rivolgersi agli “idoli” cercando in essi salvezza. Non penso solo agli “idoli” più evidenti, quelli di cui ascoltiamo nella Scrittura o a cui alcune popolazioni fanno una statua e danno un nome; penso anche e soprattutto a quegli idoli che subdolamente si insinuano nel nostro cuore e a cui ci attacchiamo aspettando da essi vita e “salvezza”: le superstizioni con tutti i riti magico/scaramantici che troppo spesso facciamo in modo di osservare; gli oroscopi con la loro pretesa di farci conoscere in anticipo ciò che ci accadrà; il “mito” della vincita milionaria al “gratta e vinci”; il politico “amico” che spesso promette di concederci come favore ciò che in realtà ci spetta come diritto (e a volte neanche mantiene la promessa); etc. Perfino il lavoro, quando nella nostra vita prende il posto di Dio, può diventare un idolo dal quale aspettiamo salvezza, ma che in realtà ci riduce a schiavi.

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.» Il Maestro è chiaro: a ciascuno il suo. A “Cesare”, all’autorità civile, va dato il rispetto per le leggi, il pagamento del tributo, ma a Dio va data tutta la nostra vita. Se, infatti, a Cesare va restituita l’immagine incisa nella moneta, a Dio va restituita l’immagine che Egli ha impresso in noi. Consapevoli della nostra “doppia cittadinanza” (Celeste e terrena), i cristiani siamo chiamati a testimoniare nella società civile la Vita bella del Vangelo con l’osservanza delle leggi giuste, comportandoci da cittadini responsabili attenti al Bene Comune quanto e forse più che al proprio particolare interesse privato; più attenti ai nostri doveri verso Dio e verso i fratelli, che ai nostri diritti.

Proprio perché cristiani, siamo chiamati ad essere presenti nella società civile anche con una consapevole partecipazione alla vita politica, ma soprattutto, come oggi ci invita a fare S. Paolo: con l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo.

Un ultima parola voglio spenderla sul verbo usato da Gesù nella sua risposta: “rendete”. Non usa il verbo dare, ma rendere, restituire. Un concetto molto caro anche a s. Francesco d’Assisi. È Dio il datore ci ogni bene. Noi non possiamo dare nulla a Dio che Lui non ci abbia già dato. È per il dono che ci è fatto che possiamo vivere la comunione con Dio per mezzo del nostro rendere ciò che ci ha dato. Non c’è rapporto con Dio che parta da noi stessi: ogni rapporto con Dio parte dal suo dono. Ogni comunione con Lui parte dal Suo dono. Restituiamo a Dio, allora, i doni che ci ha dato facendoli fruttificare a gloria del Suo nome.

Fr. Marco

sabato 14 ottobre 2023

Tutto è pronto; venite alle nozze!

«Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.» (Is 25,6-10)

«Tutto posso in colui che mi dà la forza. … Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.» (Fil 4, 12-14.19-20)

«Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.» (Mt 22,1-14)

Questa domenica, XXVIII del tempo ordinario, la Parola di Dio ci fa contemplare il Regno dei Cieli attraverso l’immagine del Banchetto. Il Padre ha preparato per noi un banchetto di grasse vivande: vuole saziare ogni nostro appetito dandoci ciò che è gustoso e nutriente; ci chiede soltanto di accogliere il suo invito per fare festa con Lui.

Nella pagina evangelica, Gesù racconta la parabola del banchetto nuziale. Con l’immagine degli invitati che non si curano dell’invito e addirittura uccidono i servi del re, si sta rivolgendo principalmente ai rappresentanti del Popolo dell’Alleanza, i primi invitati a prendere parte a questa festa, che hanno però smarrito il senso del culto e che, pur avendo in mezzo a loro lo Sposo, il Messia atteso, non vogliono riconoscerlo: sono troppo impegnati a praticare la loro “giustizia”, per potere accogliere l’amore di Dio!

La seconda scena della parabola si apre all’universalità: vengono invitati alla festa tutti gli uomini, cattivi e buoni. Nessuno è escluso; ciò che rende “degni” gli invitati sarà solo l’avere accolto l’invito.

Nella terza scena della parabola, infine, il Maestro si sofferma su un invitato particolare: un uomo che non indossa l’abito della festa e che per questo viene rimproverato dal Padrone di casa. Per comprendere questa scena, va tenuto presente che in Oriente chi invitava ad una festa solenne, insieme all’invito mandava anche l’abito con cui onorare la festa. Forse è retaggio di quest’uso - che in alcune parti del mondo è ancora attuale - il fatto che quando il Papa o il Vescovo di una Diocesi invitano a qualche celebrazione particolarmente solenne, donano ai concelebranti i paramenti da indossare. L’uomo della parabola, quindi, ha ricevuto l’abito nuziale; il Padrone di casa glielo ha donato. Se quest’uomo non lo indossa è, probabilmente, perché non ha preso sul serio la solennità dell’invito. Si tratta, dunque, di un grave affronto che giustifica la durezza della punizione: l’esclusione dal banchetto.

Fuori di parabola, oggi il Signore sta parlando a noi. Siamo noi, la Chiesa, il Popolo della Nuova Alleanza, gli invitati. Il Signore viene a ricordarci che siamo invitati ad un Banchetto, che vuole fare festa con noi. Credo vada sottolineato che sempre, parlando del Regno, Gesù usa l’immagine di una festa. Il “principe di questo mondo”, volendo allontanarci dal Signore, vuole convincerci che entrare nel Regno significa vivere da sacrificati, fare cose per il Signore, mortificare la nostra vita. Gesù, invece, ci insegna la verità: entrare nel Regno significa realizzare pienamente la nostra Vita, lasciare che il Signore faccia meraviglie con noi e per noi e sazi ogni nostro più autentico bisogno dandoci tutto se stesso.

Troppo spesso, però, abbiamo rifiutato l’invito perché troppo impegnati nelle nostre cose. Troppo spesso abbiamo detto al Signore che non abbiamo tempo per Lui. Troppo spesso la Chiesa che invita al banchetto è stata messa a tacere proprio da quelle popolazioni che si vantano delle loro radici cristiane. Non è raro, infatti, che la “gente di fuori”, i “lontani” siano più pronti di noi battezzati ad accogliere l’invito e così rendersi degni del Banchetto.

Oggi il Signore ci invita ancora a ravvederci. Accogliamo l’invito alla festa. Ricordiamoci che non possiamo avere da fare nulla di più importante che entrare nel Banchetto Celeste.

Per entrare al Banchetto, però, anche noi siamo chiamati ad indossare “l’abito nuziale” che il Padre ci ha donato il giorno del nostro Battesimo quando siamo stati rivestiti di Cristo. Così ci viene ricordato dal rito del Battesimo: «… sei diventato  nuova creatura, e ti sei rivestito  di Cristo. Questa veste bianca sia segno della tua nuova dignità: aiutato dalle parole e dall’esempio dei tuoi cari, portala senza macchia per la vita eterna.» Curiamo sempre la nostra conformità a Cristo: è un dono che siamo tenuti a custodire.

Nutriti dalla Parola e dai sacramenti, impegniamoci per fare emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio che il Padre ha impresso in noi; solo così potremo prendere parte alla “festa eterna”, alla Vita Piena che il Padre ha preparato per noi fin dall’eternità.

Fr. Marco.