lunedì 31 ottobre 2022

Beati voi. Rallegratevi ed esultate

 «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:

“La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7,2-4.9-14)

«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.» (1Gv 3,1-3)

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». (Mt 5,1-12)

Con la solennità di Tutti i Santi la Chiesa, ricordandoci che tutti siamo chiamati alla santità, celebra tutti cristiani che hanno vissuto pienamente il loro battesimo e hanno realizzato la chiamata alla santità, anche quelli “anonimi”, non canonizzati. Penso che sia il caso, allora, di chiarire cosa significhi essere santo. Fare miracoli? Leggere le coscienze? Avere il dono della bilocazione? … No! Queste sono solo manifestazioni visibili, doni che il Signore può concedere per il bene della Chiesa. Essere santo significa principalmente e fondamentalmente vivere il proprio Battesimo, fare giungere a pienezza quella conformità a Cristo che ci è stata donata, cioè vivere la Fede, la Speranza e la Carità.

Vivere la Fede non significa credere che Dio esiste: questo lo credono anche i filosofi e lo sanno anche i demòni. Avere la Fede, vivere la Fede ricevuta nel nostro Battesimo, significa credere che Dio è il Padre che ci ama dall’eternità; che Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, si è fatto uomo ed è morto in croce per la nostra giustificazione ed è risorto per la nostra salvezza; che lo Spirito Santo, uno con il Padre e il Figlio, è stato effuso nei nostri cuori e ci guida alla Vita eterna. Avere Fede significa fidarsi del Signore e riconoscere la Sua Signoria nella nostra vita.

La Speranza virtù teologale che abbiamo ricevuto nel Battesimo, non ha niente a che fare con la “speranza incerta” di chi “spera” di vincere il super enalotto, una speranza di cui giustamente il proverbio dice «chi di speranza vive, disperato muore». La Speranza cristiana è “Speranza Certa”, come direbbe S. Francesco: è la consapevolezza, fondata sulla Fede, che il Padre ci ha salvati, ci ha destinati alla Vita eterna e ad essa ci conduce se noi ci lasciamo guidare. Come dice S. Giovanni nella seconda lettura di oggi: «noi fin d’ora sappiamo di essere Figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato …»

Vivere la Carità, infine, ha ben poco a che fare con “l’elemosina” fatta dando il nostro superfluo perché il fratello bisognoso smetta di importunarci. La Carità è l’amore stesso di Dio che arde nei nostri cuori e che ci spinge ad Amare Dio e i fratelli più di noi stessi. È la capacità di amare gratuitamente, di donare amore anche quando non siamo contraccambiati.

Solo vivendo quella conformità a Cristo ricevuta nel Battesimo, cioè  vivendo la Fede, la Speranza e la Carità, sperimenteremo quella Vita pienamente realizzata che il Padre ha pensato per noi. Solo così riusciremo a vivere le Beatitudini, che oggi ci vengono riproposte: potremo essere realmente “poveri in spirito” perché sapremo che la nostra vita non dipende da ciò che possediamo, ma è nelle mani di un Padre che si prende cura di noi. Potremo essere misericordiosi perché avremo fatto esperienza della misericordia del Padre che nel suo Figlio ci ha liberati dai peccati … ecc.

Come si fa ad avere la Fede, la Speranza e la Carità? È questione di “impegnarsi”? No! Come Papa Francesco ci ha ricordato, per essere santi è importante lasciare operare Dio nella nostra vita, abbandonarsi a Lui: «Cercare il Signore, custodire la sua Parola, cercare di rispondere ad essa con la propria vita, crescere nelle virtù, questo rende forti i cuori dei giovani. Per questo occorre mantenere la “connessione” con Gesù, essere “in linea” con Lui, perché non crescerai nella felicità e nella santità solo con le tue forze e la tua mente» (Christus Vivit n. 158)

È Gesù che ci ha conformati a sé e che ci ha donato Fede, Speranza e Carità. Sono dono gratuito di Dio che ci è stato consegnato al momento del Battesimo: ogni battezzato ha in se il seme della Fede che produce i frutti della Speranza e della Carità. Un dono che ci chiama a responsabilità: se ci regalano una pianta che fa fiori meravigliosi, ma noi non la concimiamo, non la innaffiamo, non togliamo le erbacce e magari la teniamo al buio in un angolo nascosto della nostra casa, è forse colpa della pianta se non potrà fare fiori? Così è della nostra Fede: il Padre ce la dona con il Suo Spirito al momento del Battesimo; sta a noi però coltivarla, nutrirla, purificarla. Il Padre ce ne dà pure l’occasione con i Sacramenti. Nutriamo allora la nostra Fede, procuriamo di farla crescere e vedremo nascere nella nostra vita i frutti della Speranza e della Carità. Diventeremo così realmente ciò che siamo chiamati ad essere: santi che con la loro vita bella e piena saranno capaci di testimoniare al mondo la Bellezza di Dio perché il mondo possa trasformarsi ogni giorno di più nel Regno di Dio. Il Signore ce lo conceda anche per l’intercessione dei suoi santi che contemplano già la Sua Gloria. Auguri di santità.

Fr. Marco

sabato 29 ottobre 2022

Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto

 «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento … tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.» (Sap 11, 22 – 12, 2)

«… il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.» (2Ts 1, 11 – 2, 2)

​«“Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. … “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”». (Lc 19, 1-10)

Il messaggio centrale della Parola di Dio di questa XXXI domenica del Tempo Ordinario può essere ben sintetizzato da questo versetto della seconda lettura: «sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui». Glorificare Dio, infatti, significa riconoscere e proclamare la Sua gloria, ma anche vivere in modo che la Sua gloria sia visibile: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.» (Mt 5,16).

Perché la nostra vita renda gloria al Padre, tuttavia, è necessario che essa sia una vita “bella”, “Piena”, secondo la volontà di Dio, una vita in cui la condivisione fraterna risplende nelle opere. Per contro, una vita in cui si idolatrano i beni della terra, in cui si vive come se Dio non esistesse, in cui l’egoismo è la regola di vita, una vita in cui si cerca esclusivamente propria la vana-gloria, si rivela essere una vita infelice in cui gli uomini corrono sempre alla ricerca di una pienezza che non possono raggiungere, una vita che non rende gloria a nessuno.

Con il racconto della “chiamata” di Zaccheo, la pagina evangelica di questa domenica ci mostra il miracolo della conversione dalla vana-gloria alla gloria di Dio. Zaccheo, infatti, è presentato come il capo dei pubblicani nella commerciale città di Gerico. È quindi un uomo ricco e potente che probabilmente non si è fatto molti scrupoli per raggiungere la sua posizione. L’evangelista lo descrive «pubblicano e ricco … piccolo di statura». È un peccatore pubblico, un uomo piccolo forse anche di statura morale, che ha un “orizzonte ristretto”: si accontenta di ciò che riesce ad arraffare in questa vita terrena. Zaccheo appare, però, anche come un uomo inquieto, alla ricerca di qualcosa che gli manca: probabilmente ha sentito parlare di Gesù, di questo Maestro che parla con autorità, e vuole vederlo.

Sembrerebbe, quindi, che sia Zaccheo a cercare Gesù ma, quando il Maestro giunge sotto l’albero su cui Zaccheo si è arrampicato, lo sguardo di Gesù, rivela una ricerca che precede quella di Zaccheo: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Sembra quasi che Gesù avesse appuntamento con lui. In quest’incontro di sguardi che si cercano (che i “benpensanti” non mancano di criticare) avviene il miracolo: Zaccheo è capace di cambiare orientamento alla sua vita. Non agisce più per vanagloria: quando sente che a causa sua il Maestro è criticato, non si difende dall’accusa di essere un peccatore, ma “difende” Gesù, mostrando il cambiamento frutto della presenza del Signore. Un cambiamento che si manifesta in opere concrete che rendono gloria a Dio: riconosce il valore della condivisione («do la metà di ciò che possiedo ai poveri»), e rimedia ai peccati commessi («se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»).

Accogliamo anche noi l’invito del Signore che ha pazienza con la nostra miseria (I lettura) e viene in cerca di coloro che si sono rovinati la vita, per restituire loro una vita Bella, Piena, che renda gloria al Padre.

Fr. Marco.

sabato 22 ottobre 2022

Chi si esalta sarà umiliato; chi si umilia sarà esaltato

 «Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.» (Sir. 35, 15-17.20-22)

«Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.» (2Tm 4, 6-8.16-18)

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

Nel Vangelo​ di questa XXX domenica del Tempo Ordinario, il Maestro, dopo averci istruito sulla necessità di pregare sempre, ci presenta una caratteristica fondamentale della preghiera: l’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli.

Ritengo sia il caso di chiarire che l’umiltà è una “virtù particolare”: come e più delle altre virtù va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario. Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà (I lettura). Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere (II lettura).

Accostandoci alla lettura della pagina del Vangelo, dobbiamo subito fare attenzione alla motivazione per cui il Maestro dice la parabola: «… per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.

«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Il Vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, inoltre, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo pensa di non avere bisogno di Dio!

Purtroppo mi è capitato di ascoltare “confessioni” che assomigliano alla “preghiera” del fariseo: iniziano con l’affermazione di non avere peccati (almeno non peccati gravi) e continuano con un elenco di opere buone. Sostanzialmente questi fratelli e sorelle vanno a “confessarsi” per formalità, perché è l’ennesima “opera buona” da aggiungere all’elenco, ma non sembrano convinti di avere bisogno della Misericordia del Padre.

«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso da quello del fariseo: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.

Penso sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio cuore malato potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro termine di riferimento, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.

A questo punto sarebbe facile (e comodo) cadere nella tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari cadere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Come ci ricorda P. Raniero Cantalamessa, «Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.».

Fr. Marco

sabato 15 ottobre 2022

Il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra?

 «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk» (Es 17, 8-13)

«Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.» (2Tm 3,14 – 4,2)

«… Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». (Lc 18, 1-8)

La Parola di Dio della XXIX domenica del tempo ordinario, già dal primo versetto della pagina del  Vangelo, ci presenta quale insegnamento Gesù vuole darci: la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. Solo con la preghiera, infatti, possiamo trovare vittoria contro il nostro “avversario”, il “nemico” dei figli di Dio: Satana (che in ebraico indica proprio il nemico, l’avversario), il diavolo (colui che divide) che vuole allontanarci dalla Vita vera. Solo nella preghiera, inoltre, possiamo ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

«il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Voglio iniziare proprio da questa domanda con cui si conclude la pagina evangelica. Per pregare sempre senza stancarsi, infatti, è necessario mantenere desta la fede. Per contro, stancarsi di pregare significa non avere più fede/fiducia, convincersi che la nostra preghiera sia inutile, che Dio non ci ascolta e che “dobbiamo salvarci da soli”.

La preghiera autentica, quindi, si alimenta di fiducia, è l’espressione di un cuore di figlio che si fida del Padre e confida in Lui dal quale si sa amato. La preghiera, infatti, non è una “formula magica” con la quale convinciamo Dio a darci ciò che vogliamo. Chi intendesse così la preghiera dimostrerebbe di non avere fede in Dio: non sa (o almeno non ci crede veramente) che Dio è il Padre che conosce e vuole darci ciò che è buono per noi.

«La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera.» (San Giovanni Crisostomo). La preghiera, allora, è un dialogo con Dio, ma non è “questione di parole”: «Quando pregate, non sprecate parole come i pagani,  i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7).

L’evangelista Luca è quello che più degli altri tratta della preghiera e specialmente della preghiera di Gesù. Il Maestro è spesso presentato in preghiera, ma non certo per chiedere “cose”. La preghiera di Gesù presentataci da Luca consiste nel mettersi alla presenza del Padre, sperimentare la comunione con Lui per potere sempre meglio compiere la Sua volontà. Questo il Maestro ci ha insegnato consegnandoci il modello di ogni preghiera, il Padre Nostro, nel quale ci insegna a chiedere “Sia fatta la Tua volontà”. Questo è il modo in cui gli evangelisti ci presentano Gesù in preghiera al Getsèmani, nel momento della sofferenza: «Padre, passi da me questo calice, ma sia fatta la Tua e non la mia volontà» (Cfr. Lc 22,43 e paralleli)

Essendo dialogo, la preghiera ci mette in comunione con Dio, ci illumina, ci fa comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ecco l’esigenza del pregare sempre: la preghiera non serve a convincere Dio a darci ciò che vogliamo, ma a rimanere in comunione d’amore con Lui, a comprendere quale progetto d’amore il Padre ha per noi e ad avere la forza per realizzarlo anche quando passa per la “croce”. Le formule che i santi e la Chiesa ci hanno consegnato, i luoghi e i tempi particolarmente consacrati al dialogo con Dio, sono tutte cose buone nella misura in cui non spengono, ma ravvivano e “incanalano”, la spontaneità del cuore che si affida al Padre e confida in Lui.

L’esortazione a pregare sempre senza stancarsi, ha influenzato molto la spiritualità cristiana ed ha prodotto, nella spiritualità ortodossa, la “preghiera del cuore”, o “preghiera di Gesù” di cui si tratta anche nella Filocalia e che è stata largamente diffusa dai Racconti di un Pellegrino Russo. Si tratta della ripetizione, collegata al ritmo del respiro ed ai battiti del cuore, della preghiera pronunciata nel vangelo dal cieco di Gerico (Lc 18, 38): «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Una preghiera quindi, volta a mettersi dinanzi a Gesù, il nostro Signore, nell’atteggiamento di chi non chiede qualcosa di particolare, ma tutto si aspetta da Dio di cui riconosce la maestà. Penso possa essere annoverata in questo genere di preghiera anche quella fatta da S. Francesco durante le lunghe notti di veglia: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915).

 Accogliamo l’insegnamento del Vangelo e, con Fiducia, viviamo la comunione d’Amore con Dio per potere compiere la Sua Volontà.

Fr. Marco.

sabato 8 ottobre 2022

Si prostrò davanti a Gesù per ringraziarlo

«Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)

« … se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm  2, 8-13)

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 11-19)

La Parola di Dio della XXVIII domenica del tempo ordinario, ci presenta l’importanza della relazione con Dio, Datore di ogni Bene, in un percorso che va dalla guarigione al riconoscimento e alla riconoscenza.

Sia nella prima lettura che nella pagina evangelica, infatti, assistiamo a due guarigioni miracolose dalla lebbra. La lebbra è una malattia che ha una grande valenza simbolica della condizione del peccatore: il peccatore, come il lebbroso, vive una vita in cui sperimenta la morte. Il peccato, infatti, ci allontana dalla fonte della vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il suo senso.

È importante notare come in entrambi questi racconti di guarigione sia richiesto un rapporto di fiducia personale in colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le nostre precomprensioni e attese: a Naamàn il Siro, che si aspettava complicati rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto personale di fiducia può avvenire il miracolo.

Il miracolo, infatti, ha senso come “segno”: indica l’identità di colui che lo compie. Per questo Naamàn guarito proclama l’unicità di Dio e il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per loro la guarigione diventa salvezza.

È in quest’ambito del rapporto personale e del riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare, infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti del datore del dono; riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia, un regalo, che mi è stato fatto. In tal  modo, inoltre, sarò capace di riconoscere nel dono ricevuto l’amore del donatore e ne avrò la giusta considerazione.

Va sottolineato, inoltre, il fatto che l’unico lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto. Forse i nove lebbrosi Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati “purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.

Fiducia e gratitudine, allora, ci vengono presentati oggi come l’antidoto alla lebbra del peccato e atteggiamenti per accogliere la Salvezza. Il peccato, infatti, è non volere accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli come capaci di darci la vita e metterli al posto del Donatore.

Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per darGli gloria.

Fr. Marco

martedì 4 ottobre 2022

Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra - Solennità di San Francesco d'Assisi

 «Ecco chi nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario.» (Sir 50,1.3-7)

«Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.» (Gal 6,14-18)

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» (Mt 11, 25-30)

La liturgia della Parola della Solennità di san Francesco ce lo presenta come il restauratore della Chiesa (I lettura); colui che si è lasciato conquistare da Cristo Crocifisso ed è stato talmente docile alla grazia da lasciarsi conformare totalmente a Cristo, anche esteriormente con il dono delle stigmate (II lettura); colui, infine, che si è fatto piccolo e fratello di tutti e per questo è diventato sapiente della vera Sapienza che viene dall’alto (Vangelo).

 La Chiesa del tempo di Francesco (il XIII secolo) è una chiesa “in rovina”, per usare le parole del Crocifisso di San Damiano: il Papa e i vescovi vivono come principi e, come loro, sono più impegnati in cose temporali che in cose spirituali; c’è tanta ignoranza della Parola di Dio ed essa è riservata solo a pochi; gran parte del clero è quasi analfabeta e alcuni vivono una dubbia morale. Non a caso, in questo periodo nascono numerosi movimenti che, cercando un ritorno al Vangelo e rifiutando la Chiesa, cadono nell’eresia. Francesco, uomo veramente evangelico, sa bene che Gesù Cristo ha scelto e formato la Chiesa e solo in essa può essere incontrato. Per questo restaura la Chiesa “dall’interno” (realizzando il sogno di Innocenzo III): senza farsi giudice di nessuno e in obbedienza al Papa, vive lui per primo il Vangelo spinto dall’amore per Cristo Crocifisso e diventa così modello attraente per quanti gli stanno attorno.

Come dicevo, Francesco arde d’amore per Cristo Crocifisso  e quindi per tutti gli uomini e tutte le creature da Cristo redente (per questo il titolo di “serafico”: ardente come i serafini). I biografi ricordano che ogniqualvolta pensava al Cristo Crocifisso non riusciva trattenere le lacrime per “l’Amore non amato”. Da qui anche il suo impegno nel predicare la conversione, i vizi e le virtù, perché gli uomini corrispondessero all’infinito amore di Cristo. Due anni prima di morire (1224), sul monte della Verna, Francesco chiede al Signore di potere sperimentare almeno un briciolo del dolore della Sua Passione. Il Signore lo esaudisce e gli concede le Stimmate che completano e rendono visibile la conformità a Cristo presentandolo al mondo come modello affidabile da imitare.

È ancora l’amore a Cristo, che pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini (Fil 2,6-7), che spinge Francesco a lasciare ogni sogno di grandezza per farsi piccolo con i piccoli. Innamorato di Cristo, Francesco sceglie di spogliarsi di tutto e di vivere da “minore”, di vivere la vera umiltà e povertà che pur essendo visibili, non sono solo ostentazione di virtù. Ed è proprio perché si fa piccolo che Francesco viene esaltato da Cristo e reso sapiente di quella Sapienza dall’alto che è opera dello Spirito Santo, l’Amore di Dio effuso nei nostri cuori, e che diventa vita. Per il serafico Padre, infatti, la pratica del Bene deve accompagnare la scienza (Amm VII). Per questo vuole vivere il Vangelo sine glossa, senza commenti e accomodamenti, ma così come lo comprende ed, in tal modo, lo comprende sempre meglio e sperimenta quella Vita piena ed eterna che il Figlio di Dio ci ha regalato.

Festeggiando questa solennità, fratelli e sorelle, siamo chiamati non solo alla contemplazione dell’opera di Dio in Francesco, ma anche e soprattutto ad imitarne la docilità alla Grazia. Anche noi, mettendoci alla sequela di Cristo sulle orme di Francesco, siamo chiamati a corrispondere sempre meglio al Suo Amore e a vivere il Vangelo per lasciarci conformare a Cristo e realizzare pienamente la nostra vocazione battesimale. Sperimenteremo quella Vita piena ed Eterna che il mondo non conosce e contribuiremo anche noi, come Francesco al suo tempo, all’avvento del Regno. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

lunedì 3 ottobre 2022

Messa della Vigilia: Chi è san Francesco

Nella vigilia  dellasolennità  di S. Francesco,vorrei provare a riassumere brevissimamente i tratti salienti del Serafico Padre a partire dalla domanda: “Chi è S. Francesco?”.  La risposta più immediata che mi viene in mente è che Francesco è un uomo pienamente realizzato: ha realizzato pienamente la vocazione battesimale conformandosi a Cristo ed, in tal modo, ha vissuto pienamente la vita.

Il giovane Francesco sente forte in lui, come ogni uomo, un desiderio di grandezza, di pienezza di vita, che il mondo non riesce a soddisfare. La sua giovinezza è fortemente segnata da questa ricerca di una vita piena. Il Signore interviene in questa ricerca orientandola, mettendo spine sulle strade sbagliate che Francesco percorre perché, ravvedendosi, possa imboccare la strada giusta.

La prima caratteristica di Francesco che vorrei evidenziare è proprio l’autenticità della sua ricerca. Nel ricercare il suo posto nel mondo Francesco non si fa condizionare da ciò che possono pensare gli altri: se comprende che sta percorrendo una strada errata, torna indietro.
L’autenticità e l’entusiasmo della sua ricerca fanno anche in modo che, appena comprende la volontà di Dio, Francesco la compie senza perdere tempo in vane speculazioni. Per questo Francesco è uomo veramente evangelico, perché si lascia guidare dal vangelo in tutte le sue scelte.
Chiediamo a S. Francesco di pregare per noi perché anche la nostra ricerca possa essere autentica e come lui posiamo mettere in pratica con immediatezza e semplicità ciò che il Signore ci fa comprendere della sua volontà senza dar tempo alle nostre paure di bloccarci o di “ammorbidire” ciò che abbiamo compreso.

Un’altra caratteristica di Francesco che vorrei sottolineare è il suo essere fratello. Francesco comprende che il comandamento fondamentale, la “sintesi della legge e dei profeti” è l’amore. Vive pienamente quest’amore per Dio e per i fratelli. Il titolo di “serafico” che la Chiesa gli ha attribuito richiama, infatti, i Serafini: le creature angeliche che ardono d’amore per Dio. Francesco sceglie quindi di vivere l’amore e di farsi fratello di ogni creatura. Francesco vuole che l’ordine da lui fondato sia una fraternità. Ritengo, però, sia significativo il fatto che raramente nei suoi scritti parli di “fraternità”, ma infinite volte parli di fratelli: la fraternità in astratto non esiste. Esistono degli uomini e delle donne che scelgono di farsi fratelli e sorelle di chi il Signore pone loro accanto. È questa la fraternità francescana: riconoscere l’unica paternità di Dio e per questo scegliere di farsi fratelli di ogni uomo amandolo per primo come noi ci sentiamo amati dal Padre. Solo quando ciascuno di noi si farà fratello/sorella dell’altro ci sarà tra noi vera fraternità.

Un’altra caratteristica di Francesco che va evidenziata, forse la sua caratteristica più peculiare, è la minorità: Francesco sceglie di rinunciare ad ogni superiorità, sceglie di stimare sempre gli altri come superiori a se. Fa questa scelta spinto dall’imitazione di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero per noi”. Se Lui che è Dio si fa uomo e piccolo, quanto più noi suoi discepoli siamo chiamati a farci piccoli, a riconoscere la nostra reale piccolezza e a consegnarla nelle Sue mani perché Lui posa compiere grandi cose.

La minorità di Francesco, caratteristica fondamentale della sua sequela di Cristo, si traduce anche nella sua povertà come rinuncia ad ogni potere, ad ogni idolatria e ad ogni autosufficienza.
La povertà di Francesco è certamente motivata dall’imitazione di Cristo, ma anche dalla sua comprensione di quanto qualunque ricchezza ci separa rendendoci autosufficienti; la ricchezza, inoltre, va difesa e questo fa si che non vediamo più in chi ci sta accanto un fratello, ma un nemico. Facciamo attenzione, però, che la ricchezza rifiutata da Francesco è dentro l’uomo, non fuori dall’uomo: si può essere ricchi anche della propria povertà quando la si usa come arma per sentirsi superiori ai fratelli. Quella di Francesco, invece, è una reale povertà interiore che diventa visibile anche esteriormente.

Parlando della minorità di Francesco, però, dobbiamo dire che essa diventa anche obbedienza: scegliendo Dio come suo Signore, Francesco mette realmente la sua vita sotto la sua Signoria; riconoscendo gli altri come superiori a se, vive in continuo ascolto della volontà di Dio che può manifestarsi attraverso qualunque dei suoi fratelli.

L’obbedienza di Francesco, naturalmente, si fa estrema nei riguardi della Chiesa e di ogni suo rappresentante in cui vede una mediazione diretta e privilegiata della voce di Dio. Solo in questo modo Francesco poté realizzare la restaurazione della Chiesa che anche altri avevano inutilmente tentato. La Chiesa ai tempi di Francesco è una Chiesa che va in rovina, in cui solo con grande fatica si riconosce la Sposa di Cristo: i vescovi vivono come principi e come loro sono più impegnati in cose temporali che in cose spirituali. I sacerdoti spesso sono quasi analfabeti e vivono una dubbia morale. È questa la Chiesa che Francesco è chiamato a restaurare dall’interno, ed è questa la Chiesa alla quale Francesco vuole obbedire perché sa che, nonostante tutto, in essa il Signore continua a parlare. Come seguaci di Francesco, quindi, anche noi disponiamoci ad accogliere la volontà di Dio che si manifesta nei fratelli che il Signore ha chiamato al governo della Chiesa e al governo delle nostre fraternità, sicuri che il Signore che li ha chiamati li assisterà nel compito loro affidato e che, come dice S. Agostino: «Se il Signore può permettere che sbagli chi comanda, non permette che sbagli chi obbedisce».

In conclusione, celebrando questa solennità, fratelli e sorelle, guardiamo a ciò che S. Francesco ha fatto della sua vita, seguiamo il suo esempio nella disponibilità a compiere il progetto d’amore del Padre per noi e come lui; mettiamo realmente la nostra vita sotto la Signoria di Cristo; in tal modo saremo realmente discepoli di Cristo e seguaci di Francesco, uomini e donne pienamente realizzati, strumenti di Dio per edificare giorno dopo giorno il Regno dei Cieli. Il Signore ce lo conceda per intercessione di S. Francesco nostro Serafico Padre.

Fr. Marco

sabato 1 ottobre 2022

Accresci in noi la fede!

 «Scrivi la visione … È una visione che  attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». (Ab 1,2-3;2,2-4)

« … Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, … » (2Tm 1,6-8.13-14)

​«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. … quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17,5-10)

​​La Parola di Dio della XXVII domenica del tempo ordinario ci fa invocare insieme agli apostoli: «Accresci in noi la fede!». Basta guardare un telegiornale, infatti, per rimanere sgomenti dinanzi la violenza e l’iniquità del mondo: pandemia, guerra, cambiamenti climatici amplificati da una cattiva gestione del Creato, crisi economica, criminalità ….

Fino a quando, Signore … ? Anche il profeta Abacuc (I lettura) resta sgomento dinanzi il male nel mondo e chiede al Signore di intervenire. A lui e a noi il Signore risponde che tutto ciò avrà un termine. La violenza, l’iniquità e la follia del mondo non hanno l’ultima parola: «soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». Oggi il Signore ci invita a fidarci e a Sperare. La Fede, infatti, non può essere vissuta separata dalla Speranza che si fonda sull’ascolto della Parola.

Il giusto vivrà per la sua fede. Siamo chiamati a fidarci, a non indurire il nostro cuore, ad ascoltare la sua Parola con un ascolto attivo e operoso. Non possiamo, infatti, limitarci a professare delle “verità teoriche”. Vivere per la Fede, significa vivere conseguentemente a ciò che crediamo. È a questo che ci esorta s. Paolo nella seconda lettura scrivendo a Timoteo: rinnoviamo il dono della fede che abbiamo ricevuto con il nostro Battesimo, non vergogniamoci di testimoniare Cristo, non conformiamoci al mondo. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.

Facciamo attenzione, però, a non cadere nell’errore di comportarci come “salariati” e non come figli; di credere di “fare qualcosa per Dio”, di “accumulare meriti” dinanzi a Lui, di renderlo “nostro debitore”. Anche questo, infatti, sarebbe sintomo della nostra mancanza di fede: significherebbe che pensiamo di doverci “guadagnare” la salvezza  e, quindi, che non conosciamo il Padre che esaudisce le preghiere del suo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito e aggiunge ciò che la preghiera non osa sperare (preghiera Colletta).

«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» Per aiutarci a non cadere in questo errore, Gesù ci esorta oggi a riconoscerci “servi inutili”, che fanno ciò che devono fare senza aspettarsi niente in cambio. Guardiamoci dalla mentalità mercantile del “io faccio perché tu mi dia”. Assumiamo la mentalità dei figli che, animati dalla Carità, dall’Amore per il Padre e per i fratelli, non chiedono altro che di servire perché il Padre possa rallegrarsi di loro e con loro.

Oggi, quindi il Signore ci invita a vivere le tre Virtù Teologali che ci conformano a Cristo, il solo giusto: Fede, Speranza e Carità, ricevute nel Battesimo, indivisibili, che possono essere possedute e vissute solo insieme.

È grazie alla Fede, vissuta insieme alla Speranza e alla Carità, infine, che potremo convertirci, che potremo cambiare mentalità, luogo a cui attingiamo vita: è l’immagine del gelso che si sradica per trapiantarsi in mare. Siamo chiamati a cambiare il nostro modo di vedere, il nostro modo di vivere, attingendo vita là dove il mondo pensa che sia assurdo: attingendo Vita dal Vangelo. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco