sabato 8 ottobre 2022

Si prostrò davanti a Gesù per ringraziarlo

«Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)

« … se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm  2, 8-13)

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 11-19)

La Parola di Dio della XXVIII domenica del tempo ordinario, ci presenta l’importanza della relazione con Dio, Datore di ogni Bene, in un percorso che va dalla guarigione al riconoscimento e alla riconoscenza.

Sia nella prima lettura che nella pagina evangelica, infatti, assistiamo a due guarigioni miracolose dalla lebbra. La lebbra è una malattia che ha una grande valenza simbolica della condizione del peccatore: il peccatore, come il lebbroso, vive una vita in cui sperimenta la morte. Il peccato, infatti, ci allontana dalla fonte della vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il suo senso.

È importante notare come in entrambi questi racconti di guarigione sia richiesto un rapporto di fiducia personale in colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le nostre precomprensioni e attese: a Naamàn il Siro, che si aspettava complicati rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto personale di fiducia può avvenire il miracolo.

Il miracolo, infatti, ha senso come “segno”: indica l’identità di colui che lo compie. Per questo Naamàn guarito proclama l’unicità di Dio e il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per loro la guarigione diventa salvezza.

È in quest’ambito del rapporto personale e del riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare, infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti del datore del dono; riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia, un regalo, che mi è stato fatto. In tal  modo, inoltre, sarò capace di riconoscere nel dono ricevuto l’amore del donatore e ne avrò la giusta considerazione.

Va sottolineato, inoltre, il fatto che l’unico lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto. Forse i nove lebbrosi Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati “purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.

Fiducia e gratitudine, allora, ci vengono presentati oggi come l’antidoto alla lebbra del peccato e atteggiamenti per accogliere la Salvezza. Il peccato, infatti, è non volere accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli come capaci di darci la vita e metterli al posto del Donatore.

Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per darGli gloria.

Fr. Marco

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