venerdì 29 settembre 2023

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù

 «… se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso …» (Ez 18, 25-28)

« … Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù …» (Fil 2-1-11)

« … Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Mt 21, 28-32)

La Parola di Dio della XXVI domenica del Tempo Ordinario ci ricorda la nostra personale responsabilità nella risposta da dare al Signore. Siamo noi, con la nostra obbedienza o disobbedienza, i responsabili della nostra salvezza o della nostra rovina.

«Egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò.» Non basta dire “Signore, Signore” (Cfr Mt 7, 21-23), l’obbedienza che ci è richiesta è un’obbedienza “operosa”. Non basta neanche avere avuto la grazia di rispondere “sì” una volta: il nostro sì va confermato ogni giorno. Non di rado noi battezzati, “gente di chiesa”, corriamo il rischio di trovarci nella stessa situazione dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo a cui si rivolge oggi Gesù: attraverso i nostri genitori, abbiamo detto sì al Signore con il nostro Battesimo; abbiamo “confermato” questo sì con la Cresima; molti di voi nel Matrimonio hanno detto sì a quello che hanno riconosciuto come la loro specifica vocazione e via di santità; io ho detto sì al Signore nella vocazione religiosa e sacerdotale; tra poco tutti insieme, come ogni domenica, diremo al Signore: “Credo …”; infine, tra non molto, ricevendo l’Eucarestia, uniremo sacramentalmente la nostra vita a quella di Gesù nell’offerta per la salvezza del mondo. A tutti questi nostri “sì” abbiamo fatto seguire le opere corrispondenti? Questi nostri “sì” sono realmente maturati nella conversione, nell’amore operoso per Gesù messo al centro della nostra vita? Credo che ad un serio e sincero esame dovremo ammettere che a molti nostri “sì” non sono seguite le opere corrispondenti o magari che i nostri “sì” siano motivati dalla ricerca del nostro io, dal desiderio della ricompensa e dalla paura del castigo.

«... voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”». Chissà quante volte anche noi abbiamo perfino osato giudicare Dio pretendendo di sapere meglio di Lui ciò che è giusto o sbagliato. Per questo oggi Gesù ci parla di “convertirsi per credere”: per credere dobbiamo convertirci, lasciare la mentalità del mondo e accogliere la logica del Vangelo; dobbiamo smettere di sentirci “a posto” per lasciare che il Padre ci mostri la giusta via.

Convertirsi, inoltre, significa anche cambiare la motivazione alla nostra obbedienza: non “la legge per la legge”; non il desiderio del premio o la paura del castigo, ma l’amore per il Padre e per i fratelli; non un’obbedienza “legalista” (dalla quale nascono domande come: «Questa messa è valida per la domenica? … «Se sono arrivato all’omelia, la messa mi vale?»), ma un’obbedienza d’amore che non si accontenta di soddisfare il precetto, ma cerca la comunione con il Signore. Solo così potremo realmente scoprire quanto bisogno abbiamo di pentimento. Diversamente sarà facile cadere nell’errore di sentirsi “a posto”: «Non ho ammazzato nessuno, non ho rubato  …»; ma ci siamo interessati dei fratelli in difficoltà? Abbiamo fatto attenzione a non diffamare il fratello mettendo in piazza il suo errore? Ci siamo comportati sempre onestamente o magari abbiamo ceduto alla logica del “così fan tutti”?

Nella seconda lettura di oggi S. Paolo ci esorta ad avere gli stessi sentimenti di Cristo, il quale è mosso dall’amore per il Padre e i fratelli, e ci prescrive qualche comportamento pratico: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». Proviamo a prendere sul serio questa Parola e, confidando nella Misericordia del Padre, cerchiamo di compiere “ciò che è giusto e retto” per giungere a quella pienezza di Vita che Cristo è venuto a donarci.

Oggi inizia il triduo in preparazione alla solennità di S. Francesco d’Assisi il quale si fece in tutto imitatore di Cristo mettendo in pratica sine glossa il Vangelo e divenendo realmente operatore della vera Pace portata da Cristo. Proprio a proposito del “dire e non fare”, parlando in particolare ai predicatori, ma non solo ad essi, nella Regola non Bollata così il Serafico Padre ci esorta: «Tutti noi frati guardiamoci da ogni superbia e vana gloria; e difendiamoci dalla sapienza di questo mondo e dalla prudenza della carne . Lo spirito della carne, infatti, vuole e si preoccupa molto di possedere parole, ma poco di attuarle, e cerca non la religiosità e la santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera avere una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini. È di questi che il Signore dice: "In verità vi dico, hanno ricevuto la loro ricompensa". Lo spirito del Signore invece vuole che la carne sia mortificata e disprezzata, vile e abbietta, e ricerca l'umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito; e sempre desidera soprattutto il divino timore e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.»

La Pace cui si riferisce S. Francesco, evidentemente, non è la semplice “non belligeranza”, una pace apparente, ma la Pace che è dono della Pasqua, la piena riconciliazione con Dio e con gli uomini; la consapevolezza di avere un Padre che ci Ama e dei fratelli da Amare. Il saluto «Il Signore ti dia Pace» che il Signore stesso gli rivela (Test. 23; FF 121), quindi, non è soltanto un augurio, ma corrisponde al comando di Gesù agli apostoli (Cfr. Lc 10,5) e porta in sé il dono pasquale della riconciliazione. Questo saluto, anche nella forma «Pace e Bene» (che traduce lo shalom ebraico) diventa per chi lo pronunzia un’esortazione a farsi operatore della vera Pace vivendo la comunione con Dio nell’amare i fratelli che il Signore gli ha donato. Un amore che non di rado deve diventare perdono, servizio, attenzione “materna”. Un amore che non può essere riservato solo a chi mi ama, ma deve raggiungere anche i nemici, quanti non corrispondono al mio amore e tuttavia sono miei fratelli perché figli dell’unico Padre e amati dal Figlio che è morto e risorto anche per loro. Così lo ha vissuto Francesco che si è fatto fratello di tutti.

Noi che abbiamo riconosciuto Gesù come Signore e Maestro e ci siamo messi alla Sua sequela sulle orme di S. Francesco non limitiamoci, allora, a dire Pace e Bene, ma come il Serafico Padre accogliamo realmente in noi l’Amore di Cristo e amiamoci gli uni gli altri con i fatti e nella verità (Cfr 1Gv 3,18).

Fr. Marco

sabato 23 settembre 2023

Misericordioso e pietoso è il Signore

 «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.» (Is 55,6-9)

«Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.» (Fil 1,20-24.27)

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16)

la Parola di Dio di questa XXV domenica del tempo ordinario ci ricorda che i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri: la Sua giustizia misericordiosa sovrasta la nostra come il cielo sovrasta la terra.

La Parabola degli operai mandati nella vigna in diverse ore del giorno, ci mostra la distanza tra i pensieri e la giustizia di Dio e quelli nostri. Gesù coglie lo spunto da un evento abbastanza comune: un proprietario di una vigna che, nel periodo della vendemmia, va in cerca di operai durante tutto il corso della giornata. I primi vengono assunti all’alba; gli ultimi, dopo essere stati rimproverati per essere rimasti oziosi tutta la giornata, vengono mandati nella vigna “verso le cinque”. Con i primi si concorda la paga di un denaro, agli altri viene promesso quello che è giusto. La sorpresa arriva al momento in cui gli operai vengono pagati: tutti ricevono la stessa paga di un denaro. Gli “operai della prima ora”, a questo punto, si lamentano pensando di essere stati defraudati: coloro che hanno lavorato un’ora soltanto vengono trattati come loro che hanno sopportato il peso di una giornata; ciò non è secondo giustizia, loro meritano di più! Se ci pensiamo un attimo, però, il “padrone della vigna” non viola la “giustizia umana”: ai primi viene dato esattamente quanto concordato.

Si manifesta qui la grande distanza tra i pensieri di Dio e i nostri pensieri, tra la Sua giustizia e la nostra. Noi giudichiamo in ragione del merito, abbiamo una “logica servile”: lavoro per essere “pagato”, faccio ciò che devo fare per la ricompensa; più e meglio lavoro, più ricompensa merito. Il Padre, però, non misura il merito, ma il bisogno; non ci considera salariati, ma figli! Proprio perché ci ama come figli, non vuole farci mancare ciò che è necessario.

Il denaro della parabola, infatti, è simbolo della comunione con Cristo. Di cosa, infatti, abbiamo bisogno se non di Cristo, della comunione con Lui? Il salario è la comunione con Dio, il diventare una cosa sola con Cristo. Cristo ci dona tutto se stesso. Cos’altro potrebbe darci ancora? Se abbiamo Cristo, cos’altro potremmo desiderare? Se non abbiamo Lui, cos’altro potrebbe saziarci?

«… tu sei invidioso perché io sono buono?» Quanto è importante che riconosciamo la Bontà e l’amore gratuito del Padre! Troppo spesso anche noi, come i farisei, pensiamo che il Signore sia in debito con noi, pensiamo di meritarci il suo amore. Può capitare addirittura che anche noi, come i farisei, ci permettiamo, dall’alto della nostra presunta giustizia, di condannare i fratelli; di additarli come indegni di ricevere l’amore del Signore.

«… nessuno ci ha presi a giornata» Vorrei soffermarmi brevemente su questa risposta degli “operai dell’ultima ora” al rimprovero del padrone. Si trovano oziosi perché ancora non avevano incontrato il padrone. Appena lo incontrano anch’essi vanno nella vigna e si mettono al lavoro. Chissà quanti nostri fratelli “lontani” si trovano in quella condizione perché ancora non hanno incontrato il Signore; e magari proprio per colpa nostra che non siamo stati testimoni credibili!

Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo. Questa esortazione di Paolo, con cui si conclude la seconda lettura, vale soprattutto per gli “operai della prima ora” chiamati ad annunciare la buona notizia del vangelo e a conformare la loro mentalità ai pensieri e alla giustizia misericordiosa di Dio e, sull’esempio di Paolo, a lavorare con frutto anelando solo alla comunione con Cristo.

Misericordioso e pietoso è il Signore. Così abbiamo pregato nel salmo responsoriale. Smettiamo, quindi, di condannare i fratelli lontani; facciamoci strumenti della misericordia del Padre perché i “lontani”, gli “oziosi”, possano incontrare il Signore, sentirsi amati e chiamati alla comunione; perché lascino le vie di morte e possano ricevere quella Vita piena di cui tutti abbiamo bisogno.

Fr. Marco

venerdì 15 settembre 2023

La misura del perdono

«Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (Sir 27,33 – 28,9)

«Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.» (Rm 14,7-9)

«“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”» (Mt 18,21-35)

Nella pagina di Vangelo di questa domenica, XXIV del tempo ordinario, Gesù continua ad insegnarci come comportarsi col fratello che sbaglia: alla correzione fraterna segue il perdono, cioè dare al fratello una nuova possibilità.

Prima di proseguire chiariamo alcune cose sul perdono. Perdonare non significa “dimenticare” il torto subito; un dimenticare che se da una parte sentiamo come impossibile, dall’altra potrebbe significare non voler guardare in faccia la realtà. Il perdono non è dato per debolezza; non è cioè fingere di non tener conto di un torto subìto per paura del più forte che l’ha commesso. Il perdono non consiste nell’affermare senza importanza ciò che è grave, o bene ciò che è male. Il perdono non è indifferenza.

Il perdono è un atto di volontà e di lucidità, quindi un atto di libertà, che consiste nell’accogliere il fratello e la sorella così com’è, nonostante il male che ci ha fatto, come Dio accoglie noi peccatori, nonostante i nostri peccati. Il perdono consiste nel non rispondere all’offesa con l’offesa, ma nel fare quanto ci dice S. Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12,21). Il perdono consiste nel donare al fratello che ha sbagliato la possibilità di un nuovo rapporto con te, la possibilità quindi, per lui e per te, di ricominciare la vita, di far sì che il male non abbia l’ultima parola.

«Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». Un numero simbolico che indica la sovrabbondanza, il perdono illimitato. Pietro forse pensava di essere stato generoso nel perdonare “sette volte”: sette è il numero della pienezza, ma una pienezza “limitata”. Il Maestro chiede, invece, che il perdono sia illimitato, come quello che il Padre è disposto a concederci. Interessante, poi, che alcuni codici riportino “settantasette volte” con un chiaro riferimento a Gen 4,24: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette». Lì dove l’uomo cerca la vendetta, il Signore chiede il perdono.

La parabola che segue spiega anche il motivo del perdono: siamo del Signore, come ci ricorda oggi san Paolo nella seconda lettura, e a lui dobbiamo rendere conto delle nostre mancate corrispondenze, delle nostre ingratitudini … dei nostri peccati. Se prendessimo davvero coscienza di tutto l’amore che il Signore ogni giorno ci dona e delle nostre non corrispondenze, non potremmo che riconoscerci nel servo debitore di diecimila talenti che è impossibilitato a restituire. Gesù, nel Padre Nostro, ci ha insegnato a chiedere ogni giorno «rimetti a noi i nostri debiti». È il motivo per il quale cominciamo ogni nostra celebrazione con l’atto penitenziale, chiedendo perdono al Signore di tutti i nostri peccati.

Nel Padre Nostro chiediamo «rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Una preghiera che ci impegna a perdonare e ci rende “misura” del perdono che riceviamo. Come possiamo, infatti, chiedere al Signore di perdonarci se noi non siamo disposti a fare altrettanto con il nostro fratello? È ciò che si chiede nella prima lettura l’autore del libro del Siracide: «Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?». Quella sul perdono, inoltre, è l’unica petizione del Padre Nostro che Gesù riprende e commenta: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.» (Mt 6,14-15)

Accogliamo l’insegnamento di Gesù e perdoniamoci a vicenda di vero cuore per potere ricevere il perdono del Padre.

Fr. Marco

sabato 9 settembre 2023

Ti ho posto come sentinella

 «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. … Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.» (Ez 33,1.7-9)

«Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. … La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.» (Rm 13,8-10)

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello … se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà.» (Mt 18,15-20)

La Parola di Dio della XXIII domenica del tempo ordinario, invitandoci a la carità che è la pienezza della Legge, ci presenta un modo particolare di esprimere l’amore vicendevole: la correzione fraterna. La prima cosa che voglio sottolineare è che la correzione di cui si parla è “fraterna”, cioè è fatta da un fratello e per amore del fratello, per avvisarlo che sta sbagliando, che si sta perdendo, perché ritorni sui suoi passi e si salvi.

Nella prima lettura, infatti, il Signore richiama il profeta Ezechiele alla sua responsabilità nei confronti della rovina del malvagio che non desiste dal compiere il male. Se la sua condotta malvagia non gli è stata rimproverata, il malvagio morirà per la sua iniquità, ma della sua morte sarà domandato conto al profeta che non ha compiuto il suo dovere di parlare come inviato di Dio.

Come sappiamo, nella Nuova ed Eterna Alleanza, tutti i cristiani, conformati a Cristo nel Battesimo, siamo unti Re, Sacerdoti e Profeti. Ne consegue che ogni battezzato è chiamato a svolgere il compito sacerdotale di ascoltare e annunciare ai fratelli la Parola di Dio perché si salvino. Dinanzi ad un fratello che pecca, che fa ciò che è male agli occhi di Dio, il cristiano non può “farsi i fatti suoi”; sarebbe colpevole di omissione, non avrebbe vissuto il vero amore per il fratello disinteressandosi della sua rovina. È questo il senso della “correzione fraterna” che è tale solo se mossa dall’amore, dal desiderio di guadagnare il fratello, non di umiliarlo; né è fatta per vendicarsi di presunti torti subiti. Il fratello va corretto per amore e con amore. A fondamento della nostra correzione, quindi, deve esserci quella carità che non fa alcun male al prossimo. Siamo chiamati ad essere “sentinelle”, custodi dei nostri fratelli, non “accusatori”. L’accusatore è il diavolo (Cfr. Ap 12,10) che vuole la rovina degli uomini, la loro disperazione.

«Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo». È questa la differenza pratica e visibile tra accusatore e custode: l’accusatore è pronto ad additare gli errori, ma ne parla sempre in terza persona, con gli altri, non con il fratello che sbaglia. Il discepolo di Cristo, invece, custode del proprio fratello, non ha alcuna intenzione di lederne il buon nome e, quando lo vede sbagliare, lo ammonisce con amore e discrezione. Non dimentichiamo che lo scopo della correzione è sempre e solo guadagnare il fratello. Anche gli altri due passaggi che il Vangelo oggi ci indica (i testimoni e la comunità) sono ordinati a questo scopo: convincere il fratello del proprio errore perché si converta. L’ultimo passaggio, infine, «sia per te come il pagano e il pubblicano», è l’extrema ratio per “scuotere” il fratello e correggerlo: rendere visibile che il suo comportamento lo pone fuori dalla comunità ecclesiale. Il pagano e il pubblicano, inoltre, sono coloro ai quali si indirizza l’annuncio missionario: «Convertitevi, il regno dei Cieli è vicino».

«Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo …» Penso che sia importante sottolineare che l’insegnamento sulla correzione fraterna si conclude con la promessa che la preghiera concorde sarà esaudita. Dinanzi al peccatore impenitente, che non vuole convertirsi e, quindi, si pone fuori dalla Chiesa, ai discepoli di Cristo rimane sempre la possibilità della preghiera per guadagnare il fratello. Il Signore li esaudirà.

«Ti ho posto come sentinella». Vorrei concludere ricordando che questo ruolo di custode e sentinella è di ogni cristiano nel luogo in cui vive, ma anche della Chiesa nel suo insieme. La società attuale vorrebbe relegare la vita di fede ad un fatto privato, da vivere nel nascondimento: “Puoi vivere e credere come ti piace, purché lo faccia a casa tua!”. La Chiesa, nella persona del Papa, dei Vescovi e dei sacerdoti, spesso è stata accusata di ingiusta ingerenza quando annuncia che alcuni comportamenti che la società vorrebbe fare passare per normali e “giusti”, sono contrari alla Verità, sono malvagi. Penso, per esempio, all’aborto, all’eutanasia, alla eugenetica, al modo di vivere la propria sessualità sganciata dalla verità inscritta nella creazione … Siamo chiamati ad annunciare ciò che ascoltiamo dalla Parola, non possiamo tacere. Ce ne verrà chiesto conto.

Fr. Marco

venerdì 1 settembre 2023

Non conformatevi a questo mondo!

«Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.» (Ger 20,7-9)

«Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare.» (Rm 12,1-2)

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.» (Mt 16,21-27)

In questa XXII domenica del tempo ordinario il Signore ci invita ancora una volta a “convertirci”, a rinnovare il nostro modo di pensare, a non conformarci al modo di pensare del “mondo”, per metterci alla Sua sequela.

«Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» La logica del mondo, infatti, è inconciliabile con la logica di Dio. È evidente che parlando di “mondo” la Scrittura intende tutto ciò che in noi si oppone a Dio. La “logica del mondo”, il pensare secondo gli uomini, mi insegna che “tutto gira intorno a me”, che “io valgo”, che “devo stare bene”. Per quanto riguarda la sofferenza, poi, come Pietro, afferma: «Questo non ti accadrà mai!».

È questo il motivo per cui la sequela di Cristo richiede il rinnegamento di sé: se scegliamo di seguire Cristo, dobbiamo smettere di seguire il nostro io. 

Secondo la “logica del mondo”, gli altri trovano posto nella mia vita solo finché “mi servono”, finché mi gratificano. È la logica dell’egoismo e dell’edonismo: un disordinato amore di sé che cerca sempre ciò che mi fa “stare bene”, piuttosto che ciò che è Bene. Una ricerca destinata al fallimento. Facciamo l’esperienza, infatti, che più mettiamo il nostro io al centro cercando di essere felici, magari a scapito di qualcun altro, più scopriamo di essere degli infelici: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà»

I “potenti di questo mondo” ce ne danno la dimostrazione: uomini insaziabili (e quindi “poveri” a prescindere da quanti beni possano avere), affannati ad inseguire l’eterna giovinezza e l’immortalità. Dei poveracci che rischiano di fallire la vita. Possono pensare di avere tutto, ma non hanno l’essenziale, l’unica cosa che conta: Amare ed essere Amato. Spesso, infatti, scoprono che accanto a loro non hanno fratelli che amano e dai quali si sentono amati, ma persone che usano e che, a loro volta, vogliono usarli. Avendo posto nella bellezza, nel potere e nella ricchezza la loro vita, quando verrà il momento di lasciare questo mondo - un momento che prima o poi viene per tutti! -, se ne andranno infelici e maledetti da coloro che prendono il loro posto: «poteva lasciare di più!» (vedi S. Francesco nella Lettera ai fedeli, FF 205).

Opposta a questa logica che pone nel proprio io il centro dell’esistenza, la logica del Vangelo mi insegna a mettere il Tu di Dio e del fratello al centro della mia vita; mi insegna a cercare al di sopra di tutto il Regno dei Cieli, cioè a fare regnare Dio nella mia vita; mi insegna che una vita vissuta “per me” è una vita sprecata e che solo una vita vissuta “per te” è degna di essere vissuta e risulta essere una vita bella e piena di senso. Se, egoisticamente, inseguiamo la nostra felicità, infatti, non la raggiungeremo mai; se, però, mettendoci alla sequela di Cristo, ci impegniamo a fare felice chi ci sta accanto, allora sì che otterremo anche la nostra vera felicità: «chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà»

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Rinnegare se stesso, quindi, significa imparare a fare spazio in noi alla logica del Vangelo, alla volontà di Dio; significa imparare a fare spazio ai bisogni di chi ci sta accanto, imparare la logica dell’amore che non rifiuta di soffrire, di salire sulla croce, per colui che ama. Gesù ci ha mostrato questa via; ci ha mostrato che la croce non ha l’ultima parola.

Impariamo a fare della nostra vita, un’offerta a Dio e ai fratelli; impariamo ad offrire a Dio anche le inevitabili sofferenze che la vita porta con se, a viverle per amore Suo. Impariamo, infine, a perdere la nostra vita per Dio, amando Lui e i fratelli più del nostro io: solo questa è la via per Vivere veramente.

Fr. Marco