martedì 31 dicembre 2019

Dio mandò il suo Figlio, nato da donna.

« … porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6, 22-27)

«Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.» (Gal 4,4-7)

«Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.» (Lc 2,16-21)

Il primo giorno dell’anno, giornata mondiale della Pace, la Chiesa celebra la solennità di Maria santissima Madre di Dio. La Parola di Dio di questa solennità si apre con la benedizione del Signore che, attraverso la sua santissima Madre, fa splendere il suo volto sui suoi consacrati.
La pagina evangelica ci conduce ancora una volta, insieme ai pastori, davanti la mangiatoia in cui è adagiato Gesù, il principe della Pace, che viene nel fragile segno di un bambino. Come i pastori, anche noi, siamo invitati a lasciarci prendere dallo stupore. Guardandomi attorno, ritengo di potere affermare che abbiamo perso la capacità di stupirci: assistiamo continuamente e con atteggiamento indifferente alle più alte vette del genere umano e alle più abbiette miserie della nostra umanità. Oggi siamo invitati a riscoprire il sentimento di stupore che prese i pastori dinanzi la gloria di Dio manifestata nel bambino Gesù. Come i pastori, fidiamoci del Signore e lasciamo che continui a meravigliarci, a mostrarci le sue meraviglie!
Per poterci stupire, però, è importante apprendere l’atteggiamento di Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore»:  meditava la povertà della stalla, la visita dei pastori mandati da un angelo, il canto delle schiere celesti degli angeli. Meditava soprattutto il mistero del suo figlio, Dio fatto uomo ed era consapevole della sua divina maternità. Quel bambino piccolo, debole e bisognoso di tutto era il suo Dio ed era suo figlio! L'infinita tenerezza della maternità di Maria è un riflesso della paternità di Dio.
Iniziando un nuovo anno civile,  oggi impariamo, inoltre, dalla nostra santissima Madre a mettere Gesù al centro della nostra vita. Maria, infatti, in quanto Madre di Dio, è costantemente rivolta al Figlio con lo sguardo, il pensiero, il cuore e tutta se stessa. Ha contemplato Gesù fin dalla sua nascita in costante atteggiamento di stupore e di adorazione.
Con le parole di quella che forse è la più antica preghiera mariana (III sec.), siamo invitati allora a pregare il Signore perché ci conceda la pace per intercessione della Madre di Dio: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”. Alla sua protezione affidiamo tutte le vittime della violenza e dell'odio, specialmente i cristiani vessati, sradicati, perseguitati e uccisi.
Guidati dalla Parola e resi figli nel Figlio, lasciamoci raggiungere dalla benedizione divina e, affidandoci al Cristo Signore cui appartengono i giorni i secoli e il tempo, lasciamo che il Suo volto risplenda attraverso di noi perché il mondo conosca quella Pace vera che il Signore è venuto a portare. Auguri di un Buon 2020.
Fr. Marco

sabato 28 dicembre 2019

La Santa Famiglia

«Chi onora il padre espìa i peccati e li eviterà e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita. Chi onora sua madre è come chi accumula tesori.» (Sir 3, 3-7.14-17)

«… rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto … La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori.» (Col 3,12-21)

«Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,13-15.19-23)

La liturgia della Parola della festa della santa Famiglia ci mostra come la Luce, la Pace e la Gioia, portati da Gesù con la sua nascita, si realizzano nella famiglia, nucleo fondamentale della Chiesa.
Il Vangelo di oggi, infatti, ci presenta la famiglia di Nazareth. Scopriamo subito che è una famiglia “esperta nel soffrire” (come la definisce l’inno delle Lodi mattutine), una famiglia perseguitata, che deve scappare e vivere da straniera in Egitto (il luogo biblico della schiavitù e oppressione). La Pace che viene a portare Gesù, infatti, non è assenza di tribolazioni, ma una capacità di affrontarle con la comunione animata dall’Amore; quell’amore che vince il mondo e che riempie di una forza invincibile.
Sappiamo da fonti storiche che il re Erode era un tiranno che non tollerava concorrenza al suo dominio arrivando per questo a sterminare la sua stessa famiglia. Nella parte del vangelo che questa domenica è omessa, è narrata la “strage degli innocenti” perpetrata dal re pur di eliminare Colui che è visto come concorrente del suo dominio. Purtroppo anche oggi continua la strage degli innocenti. Penso a tutti quei bambini sacrificati agli idoli dell'egoismo e del "progresso". Ai tanti bambini non nati; ai tanti uccisi dalle guerre; a quelli uccisi perché malati (penso alla eutanasia infantile approvata nel modernissimo nord Europa). Quanti innocenti sacrificati al nostro egoismo, alla nostra egolatria alla nostra pretesa di benessere!
La Famiglia è oggi osteggiata e messa in pericolo; non solo quella di Nazareth, ma le nostre famiglie, anzi l’istituzione famiglia. Oggi tante condizioni socioeconomiche minacciano la famiglia fin dal suo nascere: si ha sempre più paura di sposarsi e fare figli. La famiglia, inoltre, è minacciata dall’ “Erode” che è in noi, dal nostro egocentrismo elevato a sistema, divenuto individualismo ed edonismo. Oggi il piacere individuale, lo “stare bene”, è divenuto l’unico criterio delle scelte della nostra vita. Spinti da questa esigenza (che ha la sua legittimità, ma non va assolutizzata) , però, facciamo spesso scelte che ci rovinano la vita e, inseguendo un miraggio, soffriamo e siamo causa di sofferenza: quante famiglie rovinate perché si proietta nell’altro la causa della propria insoddisfazione! Oltre a tutto ciò, una legislazione che non tiene conto del dato oggettivo della natura sembra volere equiparare qualunque relazione affettiva (finanche quella col proprio animale domestico!) a famiglia; in tal modo svuotano di significato i concetti di amore e di famiglia: se tutto è famiglia, niente è famiglia! Non possiamo accettare supinamente tutto ciò, siamo chiamati a testimoniare il valore della famiglia.
Il Vangelo oggi ci presenta il modo principale per salvare la famiglia: l’obbedienza alla Parola di Dio. Giuseppe non esita un istante a mettere in pratica il comando dell’angelo. Non si cura dei sacrifici che questo comporterà e, in obbedienza, si mette in cammino. Anche per noi il modo per salvare la famiglia resta l’obbedienza alla Parola di Dio.
Ritengo che all’interno del matrimonio penso sia normale, dopo qualche anno (speriamo tanti), che passi l’entusiasmo iniziale; il rapporto si evolve: non c’è più la “fiamma viva” degli inizi, ma è importante che questo fuoco sia curato e alimentato perché diventi “brace ardente”:  la paglia brucia in fretta e con poco calore, è il carbone ardente che è capace di durare a lungo e dare calore.
Nella seconda lettura di oggi San Paolo ci dà qualche insegnamento per curare questa fiamma: rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri. Gli atteggiamenti che l’apostolo ci descrive, mettono l’altro al centro, ci fanno uscire dal nostro individualismo proiettandoci fuori di noi.
Vorrei sottolineare l’invito alla sopportazione e sottomissione reciproca. Oggi il termine ha assunto generalmente un’accezione negativa, ma in realtà sopportare significa “mettersi sotto (sotto-mettersi) per sorreggere/portare”. Altrove Paolo invita a “portare i pesi gli uni degli altri” (cfr. Gal 6,2). È normale che l’altro, proprio perché tale, in alcuni momenti sia per me un peso, mi “pesti i piedi” (e più si è vicini, più questo è facile); ma dobbiamo ricordare che anche a noi capita di “pestare i piedi” dell’altro. Ciascuno di noi ha bisogno che gli si usi misericordia, che si abbia pazienza con lui. È per questo motivo che l’Apostolo ci rimanda al fatto che siamo perdonati da Dio per motivare l’esigenza del perdono reciproco. Tutto questo va fatto non con rassegnazione, ma con Carità, con quell’amore che solo è capace di farci uscire da noi. Quest’amore, però, va custodito, coltivato, curato. Per questo Paolo ci invita alla frequente relazione con la Parola, la verità di Dio su noi, che meditata e pregata assieme diventi il collante delle nostre diversità.
Un’ultima sottolineatura voglio farla sulla gratitudine: non stiamo a ricordare ciò che di male abbiamo subito, ma coltiviamo la gratitudine verso il Signore e verso l’altro per ciò che di bello ci hanno donato. Fin dai primi giorni del suo pontificato Papa Francesco ci ha esortati a usare tre parole, tre atteggiamenti nella famiglia: permesso, grazie, scusa. Usiamo la delicatezza di chiedere permesso a chi ci sta accanto per non essere invadenti ed irruenti, per rispettare la sua alterità. Ringraziamo per il bene che riceviamo: non diamo nulla per dovuto. Impariamo a chiederci scusa: non lasciamo questioni insolute e non tramonti il sole sui nostri dissidi.
Preghiamo insieme perché ogni famiglia trovi la forza di vivere ogni giorno l’Amore vero che viene da Dio e, superando le difficoltà che la vita non risparmia a nessuno, costruisca ogni giorno la comunione e la pace.
Fr. Marco

martedì 24 dicembre 2019

E' apparsa la Grazia di Dio


« … ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.» (Is 9,1-6)

« … è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà …» (Tt 2,11-14)

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.» (Lc 2,1-14)

È giunta la notte di Natale. La notte piena di gioia in cui celebriamo il memoriale della nascita del nostro Salvatore. Nella prima lettura di questa notte ascoltiamo la profezia di Isaia che annuncia la venuta del Principe della Pace che viene a portare la Luce, la Gioia e la Pace nel mondo. La Gioia caratterizzi questa notte e il giorno di Natale. Una gioia che riempia tutta la nostra vita nella sua estensione temporale e in tutte le sue espressioni: il Signore, l’Autore della Vita, il creatore del Mondo, viene a porre la sua tenda in mezzo a noi come Salvatore. Il Verbo si è fatto carne e viene in mezzo a noi per salvarci. Questo è il Vangelo, la buona notizia che, se ci crediamo realmente, riempie i nostri cuori di Gioia.
Nella pagina del Vangelo, ci viene raccontata la nascita del Salvatore che sceglie per sé l’umiltà e la debolezza. Gesù, infatti, il Verbo di Dio che si è fatto uomo, si manifesta al mondo nell’umile e indifeso bambinello deposto in una mangiatoia. Egli, tuttavia è il Dio potente, il Principe della pace. Viene infatti a portare nel mondo la Pace vera che nasce da un cuore riconciliato, capace di riconoscere il Padre e quindi anche i fratelli. Un cuore in pace con se stesso e quindi con i fratelli che ha attorno. Se davvero accogliessimo Gesù nella nostra vita, se lo lasciassimo entrare nei nostri cuori per riconciliarli con il Padre e con i fratelli, non avremmo più bisogno di fare guerre.
«… per loro non c’era posto nell’alloggio» oggi come allora, purtroppo Gesù non trova posto nella nostra vita: siamo troppo impegnati a cercare la felicità, la realizzazione, per accogliere Colui, l’unico, che può darcele! Ecco che allora continuiamo a fare guerra. Questa notte, contemplando la nascita del Principe della Pace, infatti, non posso fare a meno di pensare alle innumerevoli guerre che ancora si combattono nel mondo. Alle guerre che si combattono con le armi e che mietono innumerevoli vittime innocenti. Penso anche e soprattutto alle guerre che ancora combattiamo fra noi: guerre in famiglia, magari per una porzione di eredità; guerre sul posto di lavoro per accaparrarsi un po’ di autorità … guerre generate dalla brama di avere, di potere e di piacere. Siamo “assetati di vita”, ma nella nostra cecità la cerchiamo dove invece è morte.
Viene nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, lasciamolo entrare nei nostri cuori perché illumini le nostre tenebre e ci riconcili con Dio e con i fratelli. Accogliamo colui che è la nostra Gioia, la nostra letizia.
Auguri. Che questo Natale possa essere realmente l’inizio di una vita nuova in cui splende la Luce di Cristo.
Fr. Marco





sabato 21 dicembre 2019

Non temere, il Signore viene a salvarci


«…“Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto”. Ma Àcaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”». (Is 7,10-14)


« … Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome … » (Rm 1, 1-7)

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 18-24)

In questa quarta domenica di Avvento, il messaggio che ci giunge dalla Parola di Dio, a mio parere potrebbe essere riassunto con: “Non temere, fidati di me”. Il Signore ci invita a riconoscere i segni della Sua opera in mezzo a noi, ci invita a fidarci di lui e a scacciare ogni timore.
Nella prima lettura, infatti, ascoltiamo il profeta Isaia che esorta il re Acaz a chiedere un segno e a fidarsi del Signore. Il regno è minacciato, ma il Signore, per bocca di Isaia, promette di sconfiggere i potenti invasori a condizione che Israele resti saldo nella fede (Cfr. Is. 7, 7-9). Purtroppo Acaz, come spesso siamo soliti fare anche noi, mosso dalla paura sceglie di fidarsi più delle sue capacità e dei suoi intrighi che del Signore e rifiuta di chiedere e riconoscere un segno per non essere vincolato a credere nella promessa del Signore. Dio stesso però concede un segno: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Dio con noi). Purtroppo Acaz, schiavo della sua paura, si ostinerà nei suoi piani e si alleerà con l’Assiria. Ciò che otterrà sarà proprio quello che temeva: il regno d’Israele sarà sottomesso alla dominazione assira.
Il Vangelo, quasi a contrappunto della mancanza di fede di Acaz, ci presenta la figura di Giuseppe sposo di Maria. Anche Giuseppe è confuso ed è preso da timore: il concepimento di Maria lo sconvolge, non capisce quale sia il suo ruolo in tutto questo. Pensa, quindi, di congedarla in segreto, di tirarsi indietro dinanzi a ciò che sta accadendo. È in questo momento che l’angelo del Signore viene a dirgli: «non temere ...». Giuseppe, contrariamente ad Acaz, sceglie di fidarsi, di credere a ciò che il Signore gli annuncia, e obbedisce silenziosamente al comando del Signore. È proprio con la sua silenziosa obbedienza che Giuseppe entra con un ruolo fondamentale nella storia della salvezza: dando il nome a Gesù lo inserirà nella discendenza davidica e permetterà il compiersi della promessa.

Anche a noi, che ci stiamo preparando a celebrare il Natale, il Signore viene a chiedere di avere fiducia, di non agire sotto il condizionamento della paura, di riconoscere i segni e di lasciarlo operare nella nostra storia perché Egli possa ancora compiere meraviglie per noi e per i fratelli.
Chiediamo al Signore di purificare i nostri occhi per vedere e riconoscere i segni della sua presenza. I segni dell’opera di Dio, infatti, possono in un primo tempo passare inosservati. Il Signore non si impone con violenza, ma chiede di essere ascoltato “nella brezza leggera” (Cfr. 1Re 19, 12): la nascita di un erede quando il regno è minacciato, un sogno, un bambino in fasce in una mangiatoia.
L’evangelista Matteo sceglie di usare due nomi per identificare il Verbo che si è fatto carne nel grembo di Maria: Gesù che significa “Dio salva” ed Emmanuele che, oltre a collegare quanto sta avvenendo alla profezia di Isaia, significa “Dio con Noi”. Egli è infatti il Dio che cammina con noi, non ci abbandona, non si dimentica di noi, ma è venuto per salvarci, perché abbiamo la Vita, perché la nostra gioia sia piena. Fidiamoci di Lui. Lasciamo che sia Lui ad insegnarci la Via della Vita.
Prepariamoci al Natale con l’obbedienza di fede perché, come ci invita a fare la colletta alternativa di questa domenica, possiamo accogliere e generare Gesù nello spirito nostro e dei fratelli ed essere in tal modo apostoli a gloria del suo nome.

Fr. Marco

sabato 14 dicembre 2019

Rallegratevi nel Signore sempre

«Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.» (Is 35,1-10)

«Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge … Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati» (Gc 5, 7-10)

«“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”». (Mt 11, 2-11)

La Parola di Dio della terza Domenica di Avvento ci invita a rallegrarci. Questa domenica, infatti è detta domenica “gaudete” dalla prima parola dell’antifona d’ingresso («Rallegratevi sempre nel Signore …»). Siamo, quindi, invitati a ravvivare la nostra speranza: il Signore è vicino.
Ecco il motivo per cui la pagina evangelica sottolinea la piena realizzazione delle attese messianiche presentate dalla prima lettura: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. Gesù afferma il suo essere il Messia atteso portando a testimonianza le opere che compie. Non va passata sotto silenzio, però, la beatitudine per chi non si scandalizzerà: Gesù è il Messia e realizza ciò che avevano annunciato i profeti; non si presenta, tuttavia, come re condottiero e vittorioso, ma come un Messia mite che viene a donare la salvezza manifestando la paternità di Dio.
Oltre che a rallegrarci, questa domenica, come su accennato, siamo invitati a ravvivare la nostra speranza, la nostra attesa, a farci coraggio, a prendere esempio dal contadino che sa attendere i frutti a suo tempo. Come direbbe papa Francesco, non lasciamoci rubare la speranza e con essa il nostro futuro.
Purtroppo ritengo che la società abbia perso il senso dell’attesa e della speranza: non ci si attende più nulla, il futuro appare come un vuoto che fa paura. Siamo disillusi, viviamo un presente disancorato da ogni attesa futura e quindi spesso senza senso. I nostri giovani (anche a causa di oggettive condizioni di precarietà) non sono più capaci di progettare o di sperare un futuro. Ciò che è peggio, però, è che non trovano più le forze per costruirlo questo futuro. Si accontentano di vivere un presente a cui manca il gusto e la pienezza perché vissuto senza speranza. La società dei consumi ci ha abituato a “tutto e subito” e ci troviamo incapaci di attendere, di desiderare. Il mito del “super uomo”, inoltre, ci ha convinti che dobbiamo salvarci da soli. Tutto ciò ci ha reso delusi, disillusi, sempre insoddisfatti e pronti a lamentarci di tutto e tutti.
Proprio in questo contesto di “deserto e terra arida” risuona l’invito di Isaia: rallegratevi, fatevi coraggio, non lasciatevi paralizzare dalla paura. Un invito a cui si associa S. Giacomo: siate costanti, imparate dall’agricoltore a sapere aspettare i frutti, e a lavorare animati dalla speranza. L’agricoltore, prepara il terreno, semina, irriga e attende. Non si accontenta del suo sacco di frumento, ma semina in attesa del più abbondante raccolto.

Facciamoci coraggio, allora, e ricominciamo a rallegrarci e a sperare. Per esercitarci in questo atteggiamento, S. Giacomo oggi ci da un consiglio molto pratico: smettiamo di lamentarci!

Fra Marco

sabato 7 dicembre 2019

«Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola»

«Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,9-15.20)

«Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, … In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,3-6.11-12)

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te … Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,26-38)

Nella solennità dell’Immacolata Concezione, la Parola di Dio nella prima lettura ci presenta il racconto delle conseguenze immediate del peccato dei progenitori: la rottura di ogni rapporto di amicizia tra l’uomo e Dio (“Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”), tra l’uomo e la donna (“La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”) e tra l’uomo e il creato (“Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”).
La conseguenza del peccato originale che si tramanda per ogni generazione, infatti, è l’inimicizia con Dio e la conseguente morte dell’anima, l’incapacità di vedere Dio come il Padre che ci ama al di là di ogni nostra immaginazione e i fratelli e il creato come un dono d’amore.

Il racconto della Genesi, però, si conclude con quello che viene chiamato il “proto-vangelo”: l’annuncio che la stirpe della donna avrebbe schiacciato il serpente antico. È quello che avviene in Maria che, in vista dei meriti di Cristo, è da Lui redenta fin dal grembo materno e quindi resa capace, con la sua obbedienza fiduciosa al progetto del Padre, di essere “aurora della redenzione”: colei attraverso la quale è giunto nel mondo il Redentore.
Va ricordato, infatti che la Grazia di Dio, di cui Maria è stata ricolmata, è anch’essa una “grazia di Cristo” (come ricorda la bolla di definizione. È la « grazia di Dio data in Cristo Gesù» - cfr. 1Cor 1, 4- , cioè il favore e la salvezza che Dio concede ormai agli uomini, a causa della morte redentrice di Cristo). Assumere questa prospettiva rende la vicenda di Maria straordinariamente significativa per noi, restituisce Maria alla Chiesa e all’umanità.
Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II, la categoria fondamentale con la quale si spiegava la grandezza della Madonna era quella del “privilegio” o dell’esenzione. Queste categorie, portate all’estremo, presentavano la Madre di Dio come una creatura in genere disincarnata e idealizzata che poco ha a che fare con le nostre quotidiane lotte. Qualcuno da venerare e contemplare, ma troppo distante da noi per potere essere un modello da imitare. Non ci si rendeva conto che, in questo modo, si dissociava completamente Maria da Gesù, che, pur essendo senza peccato, volle sperimentare a nostro vantaggio la fatica, il dolore, l’angoscia, la tentazioni e la morte.
Dopo il Vaticano II, la categoria fondamentale con la quale si parla  della santità unica di Maria non è più tanto quella del “privilegio”, quanto quella della fede. Maria ha camminato, anzi ha “progredito” nella fede (Lumen Gentium 58). Questo, anziché diminuire, accresce a dismisura la grandezza di Maria. Lei è colei che liberamente e per fede ha aderito al progetto di Dio; un progetto singolarissimo che le ha chiesto più che a ogni altra creatura.

Ma cosa dice a noi, per la nostra salvezza, il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria? Il prefazio della solennità ci presenta Maria come “avvocata di grazia e modello di santità”. Se è modello, allora siamo chiamati ad imitarla. L’opera redentrice di Cristo che ci raggiunge nei sacramenti, infatti,compie in noi ciò che ha operato in Maria fin dal concepimento: Maria è immacolata fin dal grembo materno, noi diventiamo immacolati con il battesimo.
A differenza di Maria, però, raramente noi siamo docili alla volontà di Dio e corrispondiamo pienamente alla Grazia di Cristo. Facilmente, invece, ci rendiamo colpevoli con i nostri peccati volontari (mai compiuti da Maria) e non aderiamo al progetto d’amore del Padre.

Per questo il Signore, che, come ci ricorda S. Paolo oggi nella seconda lettura, ci vuole “santi e immacolati di fronte a lui nella carità”, ha istituito il sacramento della riconciliazione: se ben celebrato (con un vero pentimento e un sincero proposito di non peccare più), la confessione ci restituisce la santità battesimale. Sta a noi decidere si sprecare tali doni d’Amore o piuttosto impegnarci a a corrispondere alla grazia di cui Dio vuole colmarci e compiere la volontà del Padre nella nostra vita.
Guardando a Maria “tota pulchra” (“tutta bella”), ricolma di ogni virtù e senza alcuna macchia di peccato, la Chiesa tutta e ogni singolo battezzato può oggi contemplare ciò che il Signore vuole fare con ciascuno di noi e con la Chiesa nel suo insieme: un capolavoro di Santità.
Contemplando Maria, la nostra madre immacolata, anche noi impegniamoci ogni giorno per dire a Dio la nostra risposta di obbedienza fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Fra Marco.

sabato 30 novembre 2019

Vegliate, tenetevi pronti!


«“Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.» (Is 2,1-5)

«Fratelli … è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.» (Rm 13,11-14)

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti» (Mt 24,37-44)

Oggi, prima domenica di Avvento, aprendo il nuovo Anno Liturgico, nel Vangelo sentiamo l’accorata esortazione del Maestro: «Vegliate … tenetevi pronti … » L’Avvento, infatti, è un tempo caratterizzato dall’attesa. Un’attesa che dà il carattere a tutto l’Anno Liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta” (vedi per es. il Mistero della fede che ripetiamo dopo la Consacrazione). 
I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore cui fare attenzione e prepararsi: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.
Vegliate dunque. Attendendo la Sua venuta gloriosa, siamo invitati a “vegliare”. A questo verbo possiamo dare almeno tre accezioni che indicano altrettanti atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: “stare svegli”, “stare vigili” (attenti) e “fare vigilia”.
Siamo invitati a “stare svegli”, a non lasciarci prendere dal torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. All’inizio del brano evangelico, Gesù riporta l’esempio dei contemporanei di Noè: si erano lasciti “intontire” dalla vita presente e non hanno prestato ascolto agli avvertimenti ricevuti. Il diluvio li ha quindi trovati impreparati e sono stati perduti. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, a rassegnarci accontentandoci di ciò che viviamo senza aspettare più niente, senza speranza. Lo “stare svegli” significa, quindi, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Stare svegli, inoltre, significa essere pronti a riconoscere il Signore quando viene a visitarci, nel povero o nel malato, e accoglierlo.
Siamo invitati ad “essere vigili”, attenti a non cadere nelle trappole del diavolo che “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”. Tra queste trappole, la più pericolosa è l’insinuazione che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Facciamo attenzione ad usare bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede: ne dovremo rendere conto. Non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che non ci ha abbandonati, ma si prende cura di noi, anche in modi misteriosi e non sempre comprensibili.
Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La gioia deve caratterizzare la nostra attesa: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia è caratterizzato anche dalla necessità di “tenersi pronti”, di prepararsi all’incontro con il Signore, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della “penitenza” cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento, una penitenza che è un “convertirci”, un cambiare la direzione della nostra vita, un decentrarci per fare spazio a Colui che viene.
Proprio nel contesto della “penitenza”, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio: nei secondi vespri delle domeniche di avvento ci sentiremo rivolgere  l’esortazione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Ritengo che il modo più immediato di mettere in pratica questa Parola, sia quello di avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Un esercizio di “conversione”, di decentramento. Spesso, presi dalle contrarietà della vita e dai nostri malumori, non sarà semplice, ma … il Signore è vicino!
Fr. Marco

sabato 23 novembre 2019

Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre


«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». (2Sam 5, 1-3)

«Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.» (Col 1, 12-20)

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava […] E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”». (Lc 23, 35-43)

Nella XXXIV domenica, l’ultima del tempo ordinario, celebriamo la solennità di Cristo re dell’universo. La regalità presentataci nel Vangelo, tuttavia, non è quella che intende il mondo: Cristo è un re che regna dalla Croce. È proprio in questo contesto così lontano dalla regalità mondana, però, che il “buon ladrone” è capace di riconoscere in quell’uomo crocifisso il Messia atteso, il re il cui regno non avrà mai fine: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». E Gesù manifesta la sua regalità concedendo la Grazia: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Elevato sulla Croce per amore nostro, infatti, Gesù manifesta pienamente la sua regalità: non si lascia condizionare, non si lascia sopraffare da tutta la cattiveria e il male del mondo; non subisce gli eventi, ma li vive trasformandoli in un’offerta d’amore. Altrove Gesù aveva affermato: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Sulla Croce Gesù è veramente re secondo il cuore del Padre. Vince contro il peccato del mondo offrendo la propria vita e perdonando i suoi crocifissori; vince contro il tentatore che, attraverso chi gli sta attorno, continua a chiedergli di salvare se stesso.
“Salva te stesso”: un invito che torna tre volte in questa breve pagina del vangelo. È la prospettiva egoistica ed egocentrica che regola il mondo. Attraverso i capi, i soldati e uno dei malfattori crocifissi con Lui,  il tentatore continua a suggerire a Gesù di preferire l’egoismo all’amore;  continua a suggerire l’illusione di salvare se stesso non fidandosi dell’amore del Padre. Gesù, però, non cade nell’inganno e con una libertà veramente regale si offre per Amore.
Quest’oggi, celebrando la regalità di Cristo, siamo chiamati a fare memoria anche della nostra regalità, di quella regalità di cui Gesù ci ha resi partecipi.
Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Nella prima lettura le tribù d’Israele fanno una professione di appartenenza a Davide che richiama il libro della Genesi (cfr. Gen 2,23). Un’espressione che allude ad un’appartenenza intima. Sappiamo che Davide è “un’immagine” (un Typos) di Gesù re messia. Anche noi possiamo dire a Gesù Cristo “Ecco noi siamo tue ossa e tua carne”. Come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura, infatti, la Chiesa è il corpo di Cristo. Noi tutti siamo innestati in Cristo per il battesimo. Proprio per questo ogni battezzato è con Cristo re, sacerdote e profeta.
Come Cristo, che oggi contempliamo re, anche noi siamo chiamati a vivere la nostra regalità sul peccato, sulle passioni, sul giudizio del mondo. Anche noi abbiamo ricevuto quella libertà regale che ci permette di trasformare la nostra vita in un’offerta d’amore. Non viviamo come schiavi delle nostre passioni e dei piaceri passeggeri; facciamo il bene senza lasciarci condizionare dal “che penseranno?”; non lasciamoci prendere dall’illusione: “se non ci salviamo da noi, saremo persi”; è esattamente il contrario: “chi perderà la vita per causa mia, la salverà” (cfr. Mt 16,25). Celebrando Cristo re dell’universo, riconosciamo la Signoria di Cristo sulla nostra vita. Obbediamo a Lui per sperimentare la pienezza della regalità nella nostra vita. Impariamo dal nostro maestro Gesù Cristo la regalità “a gloria di Dio Padre” (Cfr. Fil 2,11).
Fr. Marco

sabato 16 novembre 2019

Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta


«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno … Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.» (Ml 3,19-20)

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.» (2Ts 3,7-12)

«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta … Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». (Lc 21, 5-19)

Giunti alla XXXIII domenica del Tempo ordinario, siamo ormai quasi alla conclusione dell’anno liturgico (che si concluderà domenica prossima con la solennità di Cristo re) ecco perché la Parola di questa domenica ci invita a guardare la realtà presente della nostra vita avendo come orizzonte le “realtà ultime”.
«… quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno …? Badate di non lasciarvi ingannare …» Oggi il Maestro ci invita a non preoccuparci di “quando” verrà il giorno del Signore, ciò che è fondamentale è vivere ogni giorno in modo da essere trovati pronti. Gesù, infatti, ci mette in guardia dai “falsi profeti”, da coloro che per guadagno ci “predicono il futuro”. Il nostro futuro lo costruiamo ogni giorno collaborando al progetto d’amore che il Padre ha per noi (o, per nostra rovina, discostandoci da esso). Cercare di conoscere/controllare il futuro con la magia e con gli oroscopi è una grave mancanza di Fede incompatibile con il nostro essere cristiani, discepoli di Cristo, figli nel Figlio. Gesù ci invita anche a diffidare da profezie millenaristiche, messaggi autoreferenziali («Sono io») e segni grandiosi dal Cielo che starebbero ad indicare come ormai prossima fine del mondo.
Ciò che è importante non è “quando” verrà il giorno del Signore, ma “come” oggi io vivo in preparazione ad esso. Nella prima lettura, il messaggio del profeta Malachia assume toni minacciosi per tutti coloro che con superbia non tengono conto del giudizio di Dio e commettono ogni sorta di ingiustizia. Verrà il giorno del Signore e costoro, che si pensavano al di sopra di ogni giudizio, dovranno rendere conto della loro vita. Per quanti, invece, riconoscono la Signoria di Dio sulla loro vita e vivono protesi verso il suo Regno, quel giorno verrà come il compimento della loro Speranza.
«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Oggi il Maestro invita i suoi a relativizzare le realtà terrene. È costante per l’uomo la tentazione di “farsi da se”, di idolatrare il proprio lavoro quasi che esso debba dargli la Vita. Gesù, però, ci ricorda che la nostra Vita (la nostra salvezza) non dipende da ciò che siamo capaci di realizzare: passa la scena di questo mondo e non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Ciò che conta, quindi, non è tanto ciò che abbiamo realizzato, ma il motivo per cui lo abbiamo realizzato, l’orientamento che abbiamo dato alla nostra vita. In questa prospettiva trova posto anche la persecuzione. Una conseguenza inevitabile se ci facciamo testimoni della logica evangelica, una logica diversa da quella del mondo e che il mondo non può accogliere. In questa prospettiva, in fine, anche “la grazia di lavorare”, usando l’espressione di S. Francesco, trova la sua giusta collocazione come collaborazione all’opera creatrice di Dio e condizione in cui giungere alla piena realizzazione della nostra vita: la santità (cfr. Gaudium et Spes 67 e Lumen Gentium 41).
Alla tentazione di salvarsi la vita con il proprio lavoro e con i beni di questo mondo (una tentazione attualissima), San Paolo, nella seconda lettura, ne affianca una opposta: la tentazione di non lavorare e di attendere passivamente il giorno del Signore. A Tessalonica, probabilmente, la comunità cristiana, o alcuni suoi membri, era caduta in questo inganno. L’Apostolo, prima con il suo esempio e poi con il suo insegnamento, ribadisce la dignità, il senso e la necessità del lavoro.
Non preoccupiamoci, allora, del quando sarà il giorno del Signore; preoccupiamoci piuttosto di come ci troverà quel giorno: indaffarati nelle nostre cose e dimentichi di Lui, intenti a gozzovigliare oppure perseveranti nella fede, occupati nel lavoro che Lui ci ha assegnato e tutti protesi verso l’incontro?

Fr. Marco.

sabato 9 novembre 2019

Il Re dell'universo ci risusciterà a vita nuova ed eterna


«Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». (2Mac 7,1-2. 9-14)

«Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.» (2Ts 2,16 – 3,5)

​«… quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, … sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui.» (Lc 20,27-38)

​Questa domenica, XXXII del tempo ordinario, avvicinandosi la conclusione dell’anno liturgico, la Parola di Dio ci invita a pensare alle “cose ultime”. Oggi ci mette dinanzi la realtà della resurrezione dei corpi per la vita eterna alla fine dei tempi.
«Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.» Così diciamo professando la nostra fede. Noi lo proclamiamo, ma siamo consapevoli che è difficile vivere esistenzialmente questa fede, perché la nostra cultura scientista e razionalista ci dice che è impossibile la resurrezione della carne.
L’uomo, quindi, è diviso tra il desiderio di “ulteriorità” che sente nel suo intimo (“non può finire tutto qui”) e l’impossibilità scientifica della resurrezione. Per questo si rifugia in credenze di matrice orientali che, però, gli fanno perdere il senso della sua individualità; o vive ancorato a questo mondo tutto in tensione verso una sorta di “vita futura” nella memoria dei suoi discendenti a cui lasciare le proprietà accumulate.
È quest’ultima la logica  che sta a fondamento della legge del levirato richiamata dai Sadducei nel Vangelo. Provocato dai Sadducei, Gesù dice una parola autorevole sul tema della resurrezione. I Sadducei, difensori della legge del levirato, forse vedono in esso un mezzo per continuare ad avere proprietà e un ruolo di rilievo nella società; forse sono anche influenzati dall’antropologia dualistica dell’ellenismo che vede nel corpo la prigione dell’anima e la radice di ogni male (quanto questa antropologia, estranea alla Rivelazione, ha influenzato anche il nostro modo di pensare!) e aspirano alla liberazione dell’anima dal corpo. Per questo motivo vedono come impensabile la risurrezione dei corpi.
Quale che sia la loro motivazione, la loro argomentazione, però, pur rifacendosi alla legge mosaica del levirato, mostra una concezione errata sia della vita futura, sia della donna e del matrimonio. La donna, infatti, è vista come una proprietà che tutti e sette i fratelli del racconto hanno il diritto di rivendicare. Non a caso, nel parallelo di Marco, Gesù li rimprovera: «Siete in grande errore!» (Mc 12, 27). Nella sua risposta il Maestro non si concentra tanto sul “come”, ma attesta la realtà della resurrezione rifacendosi anche Lui alla tradizione mosaica: il modo in cui Dio si presenta a Mosè: «il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Al tempo della rivelazione a Mosè, Abramo, Isacco e Giacobbe erano ormai morti da generazioni. Se questi patriarchi con la loro morte avessero cessato di esistere, allora Dio sarebbe un Dio dei morti, degli inesistenti, e quindi morto/inesistente egli stesso. Dio, invece «non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Anche i fratelli di cui ci narra la prima lettura mostrano di avere questa fede ed è essa a dare loro la forza di rimanere fedeli a Dio anche nella persecuzione.

Certamente il “come” della resurrezione resta un mistero. Gesù si limita a dire che saremo come angeli. L’appellativo di “figli di Dio” mi ricorda la prima lettera di Giovanni nella quale si dice: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Non sappiamo come avverrà la resurrezione della carne e come sarà questa carne; sappiamo, però, che Gesù è risorto come primizia e possiamo quindi intuire, contemplando Lui risorto, che il corpo della resurrezione sarà un “corpo glorioso”, spirituale, capace di entrare a porte chiuse eppure tangibile. Sarà il “nostro” corpo pur non essendo “questo” corpo soggetto alla corruzione.
Confortati da questa fede, viviamo la vita tenendo lo sguardo fisso alle realtà ultime.

Fr. Marco

sabato 2 novembre 2019

Sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi


«Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento … tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.» (Sap 11, 22 – 12, 2)

«… il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.» (2Ts 1, 11 – 2, 2)

​« “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. … “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”». (Lc 19, 1-10)

Ritengo che il tema della Parola di Dio di questa XXXI domenica del Tempo Ordinario possa essere ben sintetizzato da questo versetto della seconda lettura: «sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui». Glorificare Dio, infatti, significa riconoscere e proclamare la Sua gloria, ma anche vivere in modo che la Sua gloria sia visibile: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.» (Mt 5,16).
Se la nostra vita sarà una vita bella, “Piena”, secondo la volontà di Dio, una vita in cui la condivisione fraterna risplende nelle opere, allora sarà una vita che rende gloria al Padre che ne è l’autore. Per contro, una vita in cui si idolatrano i beni della terra, in cui si vive come se Dio non esistesse, in cui l’egoismo è la regola di vita, una vita in cui non si cerca la gloria di Dio, ma la vana-gloria propria, non rende gloria e si rivela essere una vita infelice in cui gli uomini corrono sempre alla ricerca di una pienezza che non possono raggiungere.
La pagina evangelica di questa domenica, con il racconto della “chiamata” di Zaccheo, ci mostra il miracolo della conversione dalla vana-gloria alla gloria di Dio. Zaccheo, infatti, è presentato come il capo dei pubblicani nella commerciale città di Gerico. È quindi un uomo ricco e potente che probabilmente non si è fatto molti scrupoli per raggiungere la sua posizione. L’evangelista lo descrive «pubblicano e ricco … piccolo di statura». È un peccatore pubblico, un uomo piccolo forse anche di statura morale, che ha un “orizzonte ristretto”: si accontenta di ciò che riesce ad arraffare in questa vita terrena. Tuttavia Zaccheo appare anche come un uomo inquieto, alla ricerca di qualcosa che gli manca: probabilmente ha sentito parlare di Gesù, di questo Maestro che parla con autorità, e vuole vederlo. Sembrerebbe, quindi, che sia Zaccheo a cercare Gesù ma, quando giunge sotto l’albero su cui Zaccheo si è arrampicato, lo sguardo di Gesù, rivela una ricerca che precede quella di Zaccheo: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Sembra quasi che Gesù avesse appuntamento con lui. In quest’incontro di sguardi che si cercano (che i “benpensanti” non mancano di criticare) avviene il miracolo: Zaccheo è capace di cambiare orientamento alla sua vita. Non agisce più per vanagloria. Quando sente che a causa sua il Maestro è criticato, non si difende dall’accusa di essere un peccatore, ma “difende” Gesù, mostrando il cambiamento frutto della presenza del Signore. Un cambiamento che si manifesta in opere concrete che rendono gloria a Dio: riconosce il valore della condivisione (“do la metà di ciò che possiedo ai poveri”), e rimedia ai peccati commessi (“se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”).
Accogliamo anche noi l’invito del Signore che ha pazienza con la nostra miseria (I lettura) e viene in cerca di coloro che si sono rovinati la vita per restituire loro una vita Bella, Piena, che renda gloria al Padre.
Fr. Marco.

giovedì 31 ottobre 2019

Quale grande amore ci ha dato il Padre, siamo realmente figli di Dio!


«Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:“La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7,2-4.9-14)


«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.» (1Gv 3,1-3)

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». (Mt 5,1-12)

Con la solennità odierna la Chiesa celebra tutti i santi, anche quelli “anonimi”, non canonizzati, e ci ricorda che tutti siamo chiamati alla santità.
Penso che sia il caso, allora, di chiedersi cosa significhi essere santo. Fare miracoli? Leggere le coscienze? Avere il dono della bilocazione? … No! Queste sono solo manifestazioni visibili, doni che il Signore può concedere per il bene della Chiesa. Essere santo significa principalmente e fondamentalmente vivere il proprio Battesimo, fare giungere a pienezza quella conformità a Cristo che ci è stata donata, cioè vivere la Fede, la Speranza e la Carità.
Vivere la Fede non significa credere che Dio esiste: questo lo credono anche i filosofi e lo sanno anche i demòni. Avere la Fede, vivere la Fede ricevuta nel nostro Battesimo, significa credere che Dio è il Padre che ci ama dall’eternità; che Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, si è fatto uomo ed è morto in croce per la nostra giustificazione ed è risorto per la nostra salvezza; che lo Spirito Santo, uno con il Padre e il Figlio, è stato effuso nei nostri cuori e ci guida alla Vita eterna. Avere Fede significa fidarsi del Signore e riconoscere la Sua Signoria nella nostra vita.
La Speranza virtù teologale che abbiamo ricevuto nel Battesimo non ha niente a che fare con la “speranza incerta” di chi “spera” di vincere il super enalotto, una speranza di cui giustamente il proverbio dice «chi di speranza vive, disperato muore». La Speranza cristiana è “Speranza Certa”, come direbbe S. Francesco: è la consapevolezza, fondata sulla Fede che il Padre ci ha salvati, ci ha destinati alla Vita eterna e ad essa ci conduce se noi ci lasciamo guidare. Come dice S. Giovanni nella seconda lettura di oggi: «noi fin d’ora sappiamo di essere Figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato …»
Vivere la Carità, infine, ha ben poco a che fare con l’elemosina fatta dando il nostro superfluo perché il “fratello bisognoso” smetta di importunarci. La Carità è l’amore stesso di Dio che arde nei nostri cuori e che ci spinge ad Amare Dio e i fratelli più di noi stessi. È la capacità di amare gratuitamente, di donare amore anche quando non siamo contraccambiati.
Solo vivendo quella conformità a Cristo ricevuta nel Battesimo, cioè  vivendo la Fede, la Speranza e la Carità, sperimenteremo quella Vita pienamente realizzata che il Padre ha pensato per noi. Solo così riusciremo a vivere le Beatitudini, che oggi ci vengono riproposte: potremo essere realmente “poveri in spirito” perché sapremo che la nostra vita non dipende da ciò che possediamo, ma è nelle mani di un Padre che si prende cura di noi. Potremo essere misericordiosi perché avremo fatto esperienza della misericordia del Padre che nel suo Figlio ci ha liberati dai peccati … ecc.
Come si fa ad avere la Fede, la Speranza e la Carità? È questione di “impegnarsi”? No! Come Papa Francesco ci ha ricordato, per essere santi è importante lasciare operare Dio nella nostra vita, abbandonarsi a Lui: «Cercare il Signore, custodire la sua Parola, cercare di rispondere ad essa con la propria vita, crescere nelle virtù, questo rende forti i cuori dei giovani. Per questo occorre mantenere la “connessione” con Gesù, essere “in linea” con Lui, perché non crescerai nella felicità e nella santità solo con le tue forze e la tua mente» (Christus Vivit n. 158)
 È Gesù che ci ha conformati a sé e che ci ha donato Fede, Speranza e Carità. Sono dono gratuito di Dio che ci è stato consegnato al momento del Battesimo: ogni battezzato ha in se il seme della Fede che produce i frutti della Speranza e della Carità. Un dono che ci chiama a responsabilità: se ci regalano una pianta che fa fiori meravigliosi, ma noi non la concimiamo, non la innaffiamo, non togliamo le erbacce e magari la teniamo al buio in un angolo nascosto della nostra casa, è forse colpa della pianta se non potrà fare fiori? Così è della nostra Fede: il Padre ce la dona con il Suo Spirito al momento del Battesimo; sta a noi però coltivarla, nutrirla, purificarla. Il Padre ce ne dà pure l’occasione con i Sacramenti. Nutriamo allora la nostra Fede, procuriamo di farla crescere e vedremo nascere nella nostra vita i frutti della Speranza e della Carità. Diventeremo così realmente ciò che siamo chiamati ad essere: santi che con la loro vita saranno capaci di testimoniare al mondo la Bellezza di Dio perché il mondo possa trasformarsi ogni giorno di più nel Regno di Dio.
Il Signore ce lo conceda anche per l’intercessione dei suoi santi che contemplano già la Sua Gloria. Auguri di santità.

Fr. Marco

sabato 26 ottobre 2019

«O Dio, abbi pietà di me peccatore»

«Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.» (Sir. 35, 15-17.20-22)

«Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.» (2Tm 4, 6-8.16-18)

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

Questa domenica, XXX del Tempo Ordinario, il Maestro continua ad istruirci sulla Preghiera. Domenica scorsa ci aveva istruito sulla necessità di pregare sempre, oggi ci presenta una caratteristica fondamentale della preghiera: l’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli.
La prima cosa che ritengo sia il caso di chiarire è che l’umiltà è una virtù particolare: come e più delle altre virtù, va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario. Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà (I lettura). Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere (II lettura).

«… per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri» Nell’accostarci al Vangelo dobbiamo subito fare attenzione alla motivazione per cui il Maestro dice la parabola. Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.
«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Il vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, ancora, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo non ha bisogno di Dio.
«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.
Penso sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio cuore malato potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro metro di misura, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.
A questo punto sarebbe facile (e comodo) cadere nella tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari cadere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Come ci ricorda P. Raniero Cantalamessa, «Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.».
Fr. Marco

sabato 19 ottobre 2019

Il mio aiuto viene dal Signore.


«Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk» (Es 17, 8-13)

«Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.» (2Tm 3,14 – 4,2)

«… Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». (Lc 18, 1-8)

In questa XXIX domenica del tempo ordinario, il vangelo, già dal primo versetto, ci presenta quale insegnamento Gesù vuole darci: la necessità di pregare sempre senza stancarci. Solo con la preghiera, infatti, possiamo trovare la vittoria contro il nostro “avversario”, il “nemico” dei figli di Dio: Satana (che in ebraico indica proprio il nemico, l’avversario), il diavolo (colui che divide) che vuole allontanarci dalla Vita vera. Solo nella preghiera, ancora, possiamo ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.
«il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». In questo mio breve commento voglio partire proprio da questa domanda con cui si conclude la pagina evangelica. Per pregare sempre senza stancarsi, infatti, è necessario mantenere desta la fede. Per contro, stancarsi di pregare significa non avere più fede/fiducia, convincersi che la nostra preghiera è inutile, che Dio non ci ascolta e che “dobbiamo salvarci da soli”.
La preghiera autentica si alimenta di fiducia, è l’espressione di un cuore di figlio che si fida del Padre e confida in Lui dal quale si sa amato. Così S. Giovanni Crisostomo parla della preghiera: «La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.»
La preghiera, allora, è un dialogo con Dio, ma non è “questione di parole”. «Quando pregate, non sprecate parole come i pagani,  i quali credono di venire ascoltati a forza di parole». Così ci ammonisce Gesù nel vangelo di Matteo. La preghiera non è una “formula magica” con la quale convinciamo Dio a darci ciò che vogliamo. Chi prega in questa maniera dimostra di non avere fede in Dio: non sa (o almeno non ci crede veramente) che Dio è il Padre che conosce e vuole darci ciò che è buono per noi.
L’evangelista Luca è quello che più degli altri tratta della preghiera e specialmente della preghiera di Gesù. Il Maestro è spesso presentato in preghiera, ma non certo per chiedere “cose”. La preghiera di Gesù è mettersi alla presenza del Padre, sperimentare la comunione con Lui per potere sempre meglio compiere la Sua volontà. Questo il Maestro ci ha insegnato consegnandoci il modello di ogni preghiera, il Padre Nostro, nel quale ci insegna a chiedere “Sia fatta la Tua volontà”. Questo è il modo in cui gli evangelisti ci presentano Gesù in preghiera al Getsemani, nel momento della sofferenza: «Passi da me questo calice, ma sia fatta la Tua e non la mia volontà».
Essendo dialogo, la preghiera ci mette in comunione con Dio, ci illumina, ci fa comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ecco l’esigenza del pregare sempre: la preghiera non serve a convincere Dio a darci ciò che vogliamo, ma a rimanere in comunione d’amore con Lui, a comprendere quale progetto d’amore Dio ha per noi e ad avere la forza per realizzarlo anche quando passa per la “croce”. Le formule che i santi e la Chiesa ci hanno consegnato, i luoghi e i tempi particolarmente consacrati al dialogo con Dio, sono tutte cose buone nella misura in cui non spengono, ma ravvivano e “incanalano”, la spontaneità del cuore che si affida al Padre e confida in Lui.
L’esortazione a pregare sempre senza stancarsi, ha influenzato molto la spiritualità cristiana ed ha prodotto, nella spiritualità ortodossa, la “preghiera del cuore”, o “preghiera di Gesù” di cui si tratta anche nella Filocalia e che è stata largamente diffusa dei Racconti di un Pellegrino Russo. Si tratta della ripetizione, collegata al respiro ed ai battiti del cuore, della preghiera pronunciata nel vangelo dal cieco di Gerico (che l’evangelista Luca riporta più avanti nello stesso capitolo 18): «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Una preghiera quindi, volta a mettersi dinanzi a Gesù, il nostro Signore, nell’atteggiamento di chi non chiede qualcosa di particolare, ma tutto si aspetta da Dio di cui riconosce la maestà. Penso possa essere annoverata in questo genere di preghiera anche quella fatta da Francesco durante le lunghe notti di veglia: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915).
Accogliamo l’insegnamento del Vangelo e, con Fiducia, viviamo la comunione con Dio per potere compiere la Sua Volontà.
Fr. Marco.

sabato 12 ottobre 2019

In ogni cosa rendete grazie ..


«Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)

« … se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm  2, 8-13)

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 11-19)

Questa domenica, XXVIII del tempo ordinario, la Parola di Dio ci mette dinanzi l’importanza della relazione con il Datore di ogni Bene in un percorso che va dalla guarigione al riconoscimento e alla riconoscenza.
Nella prima lettura e nel vangelo, infatti, assistiamo a due guarigioni miracolose. La lebbra è una malattia fortemente simbolica della condizione del peccatore: il lebbroso, come il peccatore, sperimenta la morte e il disfacimento. È questo che il peccato compie in noi: ci allontana dalla fonte della vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il suo senso.
Penso sia da sottolineare in questi due racconti di guarigione che in entrambi è richiesto un rapporto di personale fiducia in colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le nostre precomprensioni e attese: a Naaman il Siro, che si aspettava complicati rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto personale di fiducia può avvenire il miracolo.
Il miracolo, infatti, ha senso come Segno: indica l’identità di colui che lo compie. Per questo Naaman guarito proclama l’unicità di Dio e il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per loro la guarigione diventa salvezza.
È ancora nell’ambito del rapporto personale e del riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare, infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti del datore del dono, riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia, un regalo, che mi è stato fatto. In tal  modo, inoltre, sarò capace di riconoscere il dono come segno dell’amore del donatore e ne avrò la giusta considerazione.
Non è da passare sotto silenzio, poi, il fatto che l’unico lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto. Forse i nove Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati “purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.
Ecco allora che fiducia e gratitudine vengono presentati come l’antidoto alla lebbra del peccato. Il peccato, infatti, è non volere accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli come capaci di darci la vita e metterli al posto del donatore.
Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per darGli gloria.
Fr. Marco