«Ecco, ora so che non
c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)
« … se lo
rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm 2, 8-13)
«Non ne sono stati
purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che
tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc
17, 11-19)
Questa domenica, XXVIII del tempo ordinario, la Parola di
Dio ci mette dinanzi l’importanza della relazione con il Datore di ogni Bene in
un percorso che va dalla guarigione al riconoscimento e alla riconoscenza.
Nella prima lettura e nel vangelo, infatti, assistiamo a due
guarigioni miracolose. La lebbra è una malattia fortemente simbolica della
condizione del peccatore: il lebbroso, come il peccatore, sperimenta la morte e
il disfacimento. È questo che il peccato compie in noi: ci allontana dalla
fonte della vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il
suo senso.
Penso sia da sottolineare in questi due racconti di
guarigione che in entrambi è richiesto un rapporto di personale fiducia in
colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le
nostre precomprensioni e attese: a Naaman il Siro, che si aspettava complicati
rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a
dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di
presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al
momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto
personale di fiducia può avvenire il miracolo.
Il miracolo, infatti, ha senso come Segno: indica l’identità
di colui che lo compie. Per questo Naaman guarito proclama l’unicità di Dio e
il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per
loro la guarigione diventa salvezza.
È ancora nell’ambito del rapporto personale e del
riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare,
infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il
dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti
del datore del dono, riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia,
un regalo, che mi è stato fatto. In tal modo, inoltre, sarò capace
di riconoscere il dono come segno dell’amore del donatore e ne avrò la giusta
considerazione.
Non è da passare sotto silenzio, poi, il fatto che l’unico
lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da
supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto.
Forse i nove Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro
dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati
“purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.
Ecco allora che fiducia e gratitudine vengono presentati
come l’antidoto alla lebbra del peccato. Il peccato, infatti, è non volere
accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di
grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli
come capaci di darci la vita e metterli al posto del donatore.
Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a
Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si
manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per
darGli gloria.
Fr. Marco
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