venerdì 27 novembre 2020

Fate attenzione, vegliate!

«Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto a noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.» (Is 63,16-17.19;64,2-7)

«Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, … la testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.» (1Cor 1,3-9)

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.» (Mc 13,33-37)

Con questa domenica si apre il tempo liturgico dell’Avvento e la pagina del Vangelo ci esorta con l’imperativo “Fate attenzione, Vegliate”. L’Avvento, infatti, è un tempo caratterizzato dall’attesa. Un’attesa che dà il carattere a tutto l’anno liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta”. I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore cui fare attenzione e prepararsi: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

In attesa della Sua venuta, siamo invitati a vegliare. A questo verbo possiamo dare almeno tre accezioni che indicano altrettanti atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: stare svegli, stare attenti (vigili) e fare vigilia.

Siamo invitati a “stare svegli”, a non lasciarci prendere dal torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. La prima lettura lamenta: nessuno si risvegliava per stringersi a te. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, ad accontentarsi di ciò che viviamo senza aspettare più niente, senza speranza. Stare svegli significa, quindi, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Lo stare svegli, inoltre, significa l’essere pronti a riconoscere e accogliere il Signore quando viene a visitarci nel povero o nel malato.

Siamo invitati a fare attenzione, ad “essere vigili”, per a non cadere nelle trappole del diavolo che “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”. Tra queste trappole, la più pericolosa è l’insinuazione che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Facciamo attenzione ad usare bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede - ne dovremo rendere conto - non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che non ci ha abbandonati, ma si prende cura di noi, anche in modi misteriosi e non sempre comprensibili.

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La gioia deve caratterizzare la nostra attesa: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia è caratterizzato dalla necessità di prepararsi all’incontro, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della penitenza cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento: convertirci, cambiare la direzione della nostra vita, decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della penitenza, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio che nei secondi vespri delle domeniche di avvento ci rivolgerà questo appello: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Credo che il modo più immediato di mettere in pratica questa Parola, sia quello di avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Un esercizio di “conversione”, di decentramento. Non credo che sarà semplice, … ma il Signore è vicino!

Fr. Marco

venerdì 20 novembre 2020

Ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo

 


«Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.» (Ez 34, 11-12. 15-17)

«È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.» (1Cor 15, 20-26.28)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.» (Mt 25, 31-46)

​Nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, ultima domenica dell’anno liturgico, la Parola ci presenta ancora ciò che sarà alla fine del tempo, quando Gesù prenderà possesso in maniera definitiva del suo Regno ricapitolando tutto in sé.

Le letture di questa domenica sono dominate dall’immagine del “re-pastore”. Nella prima lettura, tratta dal profeta Ezechiele, Dio è presentato come un pastore che raduna il suo gregge, lo passa in rassegna e conduce le sue pecore all’ovile. Il profeta scrive contro i governanti del suo tempo che non si sono curarti del bene del popolo, del gregge loro affidato, ma hanno cercato solo il loro interesse. Contro costoro Ezechiele  profetizza un tempo in cui sarà Dio stesso a prendersi cura del suo popolo e a dare a ciascuno ciò che meritano le sue azioni.

Nella seconda lettura san Paolo utilizza un’immagine assai comprensibile al suo tempo: un figlio di Re che, dopo avere condotto una battaglia contro gli usurpatori del regno, lo riconsegna al Padre. Cristo è presentato, quindi, come colui che vince ogni opposizione al Regno dei Cieli.

La pericope evangelica odierna, infine, fa una sintesi delle due figure (... siederà sul trono della sua gloria … come il pastore …). La parabola, infatti, ci mostra questo Re che, preso possesso del suo Regno riconosce “i suoi” distinguendoli da coloro che hanno scelto di vivere sotto un’altra signoria. Discrimine per essere riconosciuti come appartenenti al Regno è il riconoscere, coi fatti, la Signoria di Cristo: vivere come lui ci ha insegnato con l’esempio e la Parola.

Saremo giudicati davanti al trono della sua gloria (v.31). C’è una anticipazione del trono della gloria che è la croce. La Pasqua è il trono della gloria. La croce, allora, è il criterio di valutazione, per Dio, della vita di un uomo. Ogni discepolo è chiamato a “prendere la propria croce”, cioè a fare della propria vita un dono d’amore. Non basta dire “Signore, Signore”. Bisogna mettere in pratica ciò che Lui ha comandato: l’amore per Dio autenticato dall’amore per i fratelli. Soprattutto per i fratelli più piccoli, quelli che non contano nulla nel mondo e che non hanno da ricambiare. 

"Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Erediteremo il Regno. L’eredità appartiene ai figli e che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: "Abbà! Padre!" (Gal 4,6) Se viviamo secondo lo Spirito, allora, se ci lasciamo conformare al Figlio, siamo figli ed eredi e, quindi, non più schiavi degli idoli del mondo. Liberi dall’idolatria dell’avere, avremmo chiaro che la vita non dipende da ciò che uno possiede, ma viene dal Padre che conosce i nostri bisogni. Altrove il Maestro ci insegna: «cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33) la “cosa” più importante da cercare e da condividere con i fratelli, allora, non sono i beni materiali (che pure servono), ma la conoscenza e l'annunzio del Regno. Testimoniando con i nostri concreti gesti d’amore che «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4)

Non basta, allora assistere i fratelli, magari con il nostro superfluo e “per metterci a posto la coscienza”, a farci eredi. Eredi lo siamo se, avendo accolto lo Spirito in noi, desiderosi di compiacere il Padre, ci comportiamo da figli amando concretamente i fratelli che abbiamo accanto, condividendo con loro il pane materiale e la conoscenza del Regno. 

...quando mai ... Mi colpisce sempre lo stupore dei giusti e dei reprobi dinanzi la sentenza. entrambi non hanno riconosciuti Cristo nei fratelli. I giusti però, pur non riconoscendo Cristo, si sono conformati a Lui nell'amare i fratelli. Questo, infatti, è importante: che il fratello nel bisogno veda in noi i tratti del Figlio di Dio. 

Solo se saremo capaci di conformarci al Nostro Signore Gesù Cristo nell’amare gratuitamente i nostri fratelli, quindi, potremo essere riconosciuti come “Suoi” ed essere ammessi nel regno preparato per noi. Diversamente, se nella nostra vita non avremo concretamente ed esistenzialmente riconosciuto la signoria di Cristo, ma avremo servito altri padroni, primo fra tutti il nostro “io”, la sentenza finale non potrà che prendere atto di questo stato di cose: saremo esclusi dal Regno, che in sostanza non abbiamo mai riconosciuto, e subiremo la sorte dei ribelli (il diavolo e i suoi angeli).
Accogliamo l’invito di questa Parola e, contemplando le realtà ultime, cominciamo fin da ora a vivere nella Signoria di Cristo per potere, in quell’ultimo giorno, essere ammessi alla pienezza della gioia.

Fr. Marco

venerdì 13 novembre 2020

Prendi parte alla gioia del tuo padrone


«Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.» (Pr 31,10-13.19-20.30-31)

«Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.» (1Ts 5,1-6)

«Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni … Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, … "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". … Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse … “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse …”» (Mt 25,14-30)

In questa XXXIII domenica, ultima del tempo ordinario (domenica prossima celebreremo la solennità di Cristo Re), la Parola ci presenta ancora le “cose ultime” ribadendo la necessità di non farci trovare impreparati. La pericope evangelica, infatti, è tratta ancora dal discorso escatologico. Gesù sta rispondendo alla domanda che i discepoli gli hanno posto (in Mt 24,3) riguardo al “quando” della venuta del Figlio dell’uomo. Anche in questa  parabola, come nella precedente (le vergini sagge e quelle stolte), il Maestro sottolinea che non ci è dato di sapere il “quando”, ma è fondamentale usare bene il tempo presente.

La parabola odierna, inoltre, ci invita all’intraprendenza mossa dall’amore: ciò che il Signore ci chiede è “l’obbedienza creativa” dei figli che, per amore del Padre, non si risparmiano e fanno ciò che sanno può fargli piacere senza bisogno che glielo si chieda. È questo il “timor di Dio” di cui si parla nella prima lettura: il desiderio di compiacere il nostro Padre e il timore di contristarlo. Cosa, in effetti, può dispiacere di più un padre che vedere i figli che sprecano la loro vita?

Siamo invitati a focalizzare l’attenzione, allora, sulla relazione di fiducia che il Padrone vuole instaurare con i servi della parabola: affida loro i suoi beni perché li amministrino creativamente, perché li facciano fruttare, per poi introdurli “nella Sua gioia”. Così il Padre si comporta con ciascuno di noi: ci consegna la vita, la nostra storia, il nostro tempo, le occasioni della vita … perché noi facciamo della nostra vita un capolavoro!

… secondo le capacità di ciascuno Un’altra cosa su cui vorrei fermare l’attenzione, è la differenza nei beni consegnati ai servi e di conseguenza la differenza nel rendimento consegnato al Padrone: ciò che conta non è la quantità del risultato, ma l’atteggiamento di fiduciosa intraprendenza che i servi hanno dimostrato, il fatto che i talenti siano stati trafficati. L’ultimo servo, quindi, viene rimproverato e punito non per la scarsezza del risultato, ma per l’immagine distorta e ingiusta che si è costruito del suo Padrone; per essersi fatto bloccare dalla paura. Mentre i suoi compagni, vistisi trattare come figli, si comportano da tali e si prendono cura di ciò che il Padrone ha affidato loro, il "servo pigro" si trincera dietro una “rigida” giustizia (“ecco ciò che è tuo”), che poco ha a che fare con l’amore, e si comporta ingiustamente nei confronti del suo Padrone attribuendogli un’immagine distorta. La sua eccessiva e “vigliacca” paura lo paralizza e fa sì che i beni affidatigli non fruttifichino: la sua vita è stata sprecata. Il Padrone, quindi, non fa che prenderne atto e dare seguito a ciò che lui ha già determinato: lo tratta a partire dall’immagine che il servo si era costruito di lui e rende palese lo spreco della sua vita.

Nella seconda lettura S. Paolo ci ammonisce: noi non siamo nelle tenebre, ma sappiamo Chi è il Nostro Signore e ciò che chiede a ciascuno di noi. Non lasciamoci, dunque sorprendere, ma facciamo tesoro del tempo presente e, mettendo al bando la paura, agiamo con una intraprendenza fiduciosa nell’amore del Padre. Ricordiamo: chi vuol salvare la vita, la perde!

Fr. Marco.

sabato 7 novembre 2020

“Ecco lo sposo! Andategli incontro!”

 

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.» (Sap. 6, 12-16)

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.» (1Ts 4, 13-18)

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.» (Mt 25, 1-13)

​Essendo ormai prossimi alla conclusione dell’anno liturgico, in questa XXXII Domenica del Tempo Ordinario, la Parola ci fa contemplare le “cose ultime”. La pagina del Vangelo, infatti, è tratta dal “discorso escatologico” del Vangelo di Matteo (capp. 24-25). Gesù sta rispondendo alla domanda dei discepoli riguardo il “quando” della venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo (Mt 24,3). Non ci è dato di conoscere il “quando”, “l’ora” della venuta; ciò che è indispensabile, però, è farsi trovare pronti. Per questo motivo oggi il Maestro ci invita alla vigilanza, a vegliare, a non lasciare che il protrarsi dell’attesa ci faccia dimenticare chi stiamo aspettando.

È ciò che ci vuole comunicare la “parabola delle dieci vergini”: l’esortazione alla vigilanza che si fa attesa di un evento che, per quanto possa “ritardare” rispetto alle nostre aspettative, di sicuro avverrà. 

È anche il motivo per cui la prima lettura ci esorta a vivere con “Sapienza”, cioè secondo la volontà di Dio. La Sapienza che dobbiamo ricercare, infatti, è quel “vivere bene” che si può apprendere solamente ascoltando e meditando la Parola di Dio. Questa Sapienza, va “cercata”, “desiderata”, per essa bisogna “vegliare”; ci viene richiesto, quindi, un certo impegno, una “dolce fatica”; quella fatica che non viene percepita tale perché sostenuta dall’amore. Questo deve essere il nostro impegno nel meditare e comprendere sempre più pienamente la Parola di Dio.

Essere vigilanti nell’attesa, tuttavia, significa anche attrezzarsi per non essere trovati impreparati al momento dell’incontro con lo Sposo. Nella parabola evangelica, tutte e dieci le vergini hanno le lampade, ma solo le vergini sagge si sono procurate l’olio perché queste lampade possano risplendere. 

Fuori di parabola, per la Grazia di Dio ricevuta nel Battesimo, tutti i cristiani siamo nelle condizioni di risplendere della luce di Cristo. Solo coloro che ascoltando la Parola vivono con sapienza, però, restano vigili nella Speranza e vivono una Fede operosa che si traduce nella Carità. Solo loro alla fine avranno raggiunto quella conformità a Cristo che li farà riconoscere come “giusti” e li ammetterà al “banchetto nuziale”.

In verità io vi dico: non vi conosco Gli stolti, coloro che vivono senza sapienza (quindi una vita “insipida”) sono coloro che hanno lasciato sopire la loro speranza (non sperano più nulla e non aspettano nulla); se vivono una parvenza di “fede”, questa è appunto una fede inoperosa, che non si traduce nella vita, ed è, quindi una “fede morta”, come la definirebbe S. Giacomo; spesso l’unico amore che li muove è un disordinato amore del proprio io. Costoro non si conformano al solo Giusto e non potranno essere da Lui riconosciuti ed introdotti al banchetto.

Non facciamoci trovare impreparati! Procuriamoci per tempo “l’olio” per le nostre lampade in modo che possano splendere della Luce di Cristo.

Andate dai venditori e compratevene. I venditori, coloro presso i quali ci possiamo procurare l’olio che faccia splendere la nostra vita, sono i poveri, i piccoli. I primi discepoli di Gesù l’hanno capito subito. Ci apprestiamo a celebrare la memoria di S. Martino di Tour (316-397) il cui gesto più famoso è l’avere tagliato il suo mantello per coprire un povero. Gesto simbolico di una vita in cui si prese cura degli ultimi della società. Come lui, i santi di ogni epoca hanno brillato di quella Carità operosa che nasce dalla Speranza certa fondata sulla Fede. Illuminati dalla Parola e dall’esempio dei santi, allora, impariamo anche noi a vivere praticando la Sapienza che ci viene dal nostro Maestro.

Fr. Marco.