mercoledì 31 ottobre 2018

Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre!


«Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7,2-4.9-14)

​«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.» (1Gv 3,1-3)

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». (Mt 5,1-12)

Ogni anno l’1 novembre la Chiesa celebra tutti i santi, anche quelli anonimi e non canonizzati, e ci ricorda che tutti siamo chiamati alla santità.
Forse a volte pensiamo che essere santi significhi fare miracoli o avere il dono della bilocazione ecc.; queste, però, sono solo manifestazioni esterne che il Signore può concedere per il bene della Chiesa e che in se stesse non sono garanzia di santità. Essere santo significa principalmente e fondamentalmente vivere il proprio Battesimo cioè vivere la Fede, la Speranza e la Carità.
Vivere la Fede non significa credere che Dio esiste: questo lo credono anche i filosofi. Avere la Fede, dono dello Spirito, significa credere che Dio è il Padre che ci ama dall’eternità; che Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, si è fatto uomo ed è morto in croce per la nostra salvezza; che lo Spirito Santo, uno con il Padre e il Figlio, è stato effuso nei nostri cuori e ci guida alla Vita eterna. Avere fede significa fidarsi del Signore e riconoscere la Sua Signoria nella nostra vita.
La Speranza cristiana ha poco a che fare con la “speranza incerta” di chi “spera” di vincere il super enalotto. Come direbbe S. Francesco, la speranza cristiana è “Speranza Certa”: è la consapevolezza, fondata sulla fede che il Padre ci ha salvati e ci ha destinati alla Vita eterna. Come dice S. Giovanni nella seconda lettura di oggi: «noi fin d’ora sappiamo di essere Figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato …» La Carità, infine, ha poco a che fare con il superfluo che ogni tanto diamo in elemosina: è l’amore stesso di Dio che arde nei nostri cuori e che ci spinge ad Amare Dio e i fratelli più di noi stessi. È la capacità di amare gratuitamente, di donare amore anche quando non siamo contraccambiati.

Le Beatitudini che oggi il Vangelo ci presenta come progetto di vita per ogni cristiano, possono essere vissute solo accogliendo in noi la Fede, la Speranza e la Carità di Cristo (l’unico che vive pienamente le beatitudini). Potremo essere realmente “poveri in spirito”, quindi, perché sapremo che la nostra vita non dipende da ciò che possediamo, ma è nelle mani di un Padre che si prende cura di noi. Potremo essere misericordiosi perché avremo fatto esperienza della misericordia del Padre che nel suo Figlio ci ha liberati dai peccati … ecc.
Come si fa ad avere la Fede, la Speranza e la Carità? Bisogna forse impegnarsi? No! Non è questione di sforzo personale autocentrato. Ma di attenzione alla corrispondenza all’opera dello Spirito Santo in noi. Come ci insegna Papa Francesco, per essere santi è importante la docilità, lasciare operare Dio nella nostra vita, abbandonarsi a Lui. È Lui che ci ha conformati a sé e che ci ha donato Fede, Speranza e Carità come dono gratuito di Dio che ci è stato consegnato al momento del Battesimo: ogni battezzato, conformato a Cristo, ha in sé il seme della Fede che produce i frutti della Speranza e della Carità.
Questo dono però ci chiama alla responsabilità: se ci regalano una pianta che fa fiori meravigliosi, ma noi non la concimiamo, non la innaffiamo, non togliamo le erbacce e magari la teniamo al buio in un angolo nascosto della nostra casa, è forse colpa della pianta se non potrà fare fiori?
Così è della nostra Fede: il Padre ce la dona con il Suo Spirito al momento del Battesimo, sta a noi però coltivarla, nutrirla, purificarla. Il Padre ce ne dà pure l’occasione con i Sacramenti. Nutriamo allora la nostra Fede, procuriamo di farla crescere e senza nostro “sforzo” vedremo nascere nella nostra vita i frutti della Speranza e della Carità. Diventeremo così realmente ciò che siamo chiamati ad essere: santi che con la loro vita saranno capaci di testimoniare al mondo la Bellezza di Dio perché il mondo possa trasformarsi ogni giorno di più nel Regno di Dio. Il Signore ce lo conceda anche per l’intercessione dei suoi santi che contemplano già la Sua Gloria.

Auguri di santità. Fr. Marco​

sabato 27 ottobre 2018

Coraggio! Àlzati, ti chiama!

«“Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il  cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla.» (Ger 31,7-9)

«Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: “Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek”». (Eb 5,1-6)

«Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.» (Mc 10,46-52)

Questa domenica, trentesima del tempo ordinario, la liturgia della Parola si apre con un messaggio di speranza: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Oggi infatti Gesù ci viene presentato ancora una volta come il salvatore, colui che viene a cercare e salvare il cieco e lo zoppo, quanti sono ridotti a mendicare la vita. Il Salvatore viene a radunare tutta l’umanità per farla entrare nella pienezza della Vita.
Nel Vangelo, Gesù sta recandosi a Gerusalemme, la città santa simbolo della comunione con Dio, e attraversa Gerico, la città della resistenza a Dio (Cf. Gs 6,1-21), consegnata da Dio a Giosuè. Penso che si possa interpretare Gerico come la città dell’autoaffermazione contro Dio. Non è un caso se nella parabola “del buon samaritano” il tale incappato nei briganti sta scendendo da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,25-37). Mentre Gesù sta uscendo dalla città, Bartimeo, cieco e ridotto a mendicare lungo la strada, lo riconosce e comincia a chiamarlo con il titolo messianico di Figlio di Davide.
Bartimeo è simbolo dell’umanità che, volendo affermare se stessa resistendo a Dio, si trova cieca, lontana dalla Luce della Vita, e mendicante. Tuttavia, nella sua cecità, quest’uomo riconosce in Gesù l’unico che può salvarlo, che può strapparlo dalla sua miseria e restituirgli la Luce che aveva perduto (« … che io veda di nuovo!»).
«Coraggio! Àlzati, ti chiama!» Se Bartimeo può riconoscere Gesù, però è perché per primo Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, come dirà Luca nel racconto di Zaccheo (Lc 19,1-10). All’uomo nella miseria Gesù chiede di farsi coraggio e, lasciando le proprie misere sicurezze (la coperta), rispondere alla chiamata per lasciarsi risollevare dalla propria condizione e vivere la vita dei risorti (alzarsi è il verbo della resurrezione)
«Che cosa vuoi che io faccia per te?» Ancora una volta Gesù si mostra come colui che non è venuto per farsi servire ma per servire con quel servizio regale che è proprio di Dio perché proprio dell’Amore. Con questa domanda, però, Gesù vuole anche che Bartimeo completi la sua “confessione di fede”: solo Dio, infatti, avrebbe potuto restituirgli la vista. Chiedere a Gesù di farlo tornare a vedere, equivale quindi a riconoscerlo Dio e manifestare fiducia in lui.
A questo punto, guarito, Bartimeo che ha incontrato la Luce vera che viene nel mondo (cf. Gv 1,9), non può che mettersi gioiosamente alla sequela.
Anche noi siamo invitati quest’oggi a fare lo stesso percorso: riconoscendoci bisognosi della misericordia del Padre, siamo chiamati a lasciare le nostre misere sicurezze a cui tanto facilmente attacchiamo il cuore, e fidandoci di Gesù, metterci alla Sua sequela e vivere la Vita dei Risorti. Il Signore ce lo conceda.
Fr. Marco

sabato 20 ottobre 2018

«Che cosa volete che io faccia per voi?»

«Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,vedrà una discendenza, vivrà a lungo,si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.» (Is 53,10-11)

« … non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.» (Eb 4,14-16)

«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,35-45)
La liturgia della Parola della XXIX domenica del Tempo Ordinario, ci rivela qualcosa del nostro Maestro, ci fa crescere nella conoscenza di Cristo, perché noi possiamo conformarci a Lui.
La prima lettura, tratta da libro del Profeta Isaia, ci fa ascoltare un passaggio fondamentale del Carme del Servo Sofferente: un uomo che accoglie in sé la volontà divina e si fa solidale con i peccatori assumendo su di sé la conseguenza del loro peccato. In conseguenza di ciò ottiene la salvezza per sé e per coloro che per i quali intercedeva (per le sue piaghe siamo stati guariti). È facile per noi vedere in quest’uomo una profezia di Cristo: è Lui il Servo che fa della Sua vita un offerta, che accoglie su di sé tutto il male del mondo inchiodandolo ad una croce perché a noi possa venire la Vita.

« … vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» Nel Vangelo, Gesù si sta dirigendo a Gerusalemme e istruisce i discepoli su quello che dovrà subire. In questo contesto si colloca la “vanagloriosa” richiesta di Giacomo e Giovanni: incapaci di comprendere ciò che Gesù sta annunciando, chiedono con forza al Maestro un posto di gloria. Davanti a tale richiesta, contrariamente agli altri dieci (forse altrettanto “vanagloriosi”), Gesù non si scandalizza, ma insegna ancora una volta prima con l’esempio e poi con la parola, che il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire …: «Che cosa volete che io faccia per voi?». La risposta del Maestro è quella di chi, pienamente libero, si mette al servizio in maniera regale.
Il Maestro non resta scandalizzato dal desiderio di grandezza che emerge dal cuore dell’uomo, ma lo orienta correttamente: veramente grande non è chi siede per farsi servire, chi domina i fratelli soggiogandoli, chi viene apertamente ricoperto di onori; veramente grande è, invece, colui che si pone al servizio dei suoi fratelli, che ama gratuitamente, che è capace di accogliere e perdonare le miserie dei propri fratelli facendosi solidale con loro. Veramente grande, quindi, è colui che imita il Maestro il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Un’offerta che ancora si perpetua nel sacramento dell’Eucarestia: Gesù si fa pane spezzato per noi e ci invita ad unire la nostra vita alla Sua nell’offerta per la salvezza del mondo.
La “grandezza” proposta secondo la logica del Vangelo è una grandezza che il mondo non può capire. Una grandezza ardua: ci chiede di morire a noi stessi, di anteporre al nostro Io l’amore per Dio e per fratelli. Per questo oggi l’autore della Lettera agli Ebrei viene a confortarci: il nostro Maestro conosce per le nostre debolezze e ci chiede solo di attingere alla Sua forza, alla Grazia che ci raggiunge nei sacramenti, per conformarci a Lui e giungere a quella gloria che da sempre ha preparato per noi.
Fr. Marco

venerdì 12 ottobre 2018

Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse … vieni! Seguimi!

«Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto» (Sap 7,7-11)

«Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.» (Eb 4,12-13)

«Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” … “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» (Mc 10,17-30)

Avvicinandoci alla conclusione dell’anno liturgico, la parola di Dio della XXVIII Domenica del Tempo ordinario, comincia a indirizzare i nostri cuori verso le cose eterne che sole possono saziare la nostra “fame di vita”.
Protagonista della pericope evangelica di questa domenica, infatti, è un “Tale” che, pur possedendo molti beni, non è un uomo felice, realizzato. Dal racconto evangelico, infatti, veniamo a sapere che questo tale ha apparentemente tutto ciò che si potrebbe desiderare: abbondanza di beni materiali ed una vita “ricca di virtù” («queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»). Eppure sente che gli manca qualcosa: cerca la “Vita eterna”, quella Vita Piena che non avrà mai fine e che sa di dovere attendere come un dono (parla di “ereditare”).
Penso se non sia un caso se l’evangelista non dà un nome a questo “tale”: incarna le attese di ogni uomo la cui speranza ha bisogno di orizzonti ampi e non può ridursi al solo orizzonte materiale.
Quelle stesse attese che ispirarono l’autore sapienziale a implorare il dono della Sapienza (I lettura): una guida sicura nella vita che ci dia le giuste coordinate per Vivere veramente.

Al popolo di Israele questa sapienza viene donata sotto forma della Legge: le Dieci Parole destinate a guidare il comportamento del popolo eletto e a custodire l’Alleanza con Dio. È a questa sapienza che Gesù inizialmente rimanda il suo interlocutore. Il “Tale”, però, non è soddisfatto: sa di avere dinanzi il “Maestro Buono” capace di indicargli la via migliore.
«Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse …» È a questo punto che Gesù lo invita alla sequela nell’Amore, a “perdere” la vita abbandonando ogni sicurezza precedente, per vivere la Vita lasciandosi guidare dalla Luce della Fede, dalla fiducia nel Maestro Buono. La sapienza antica, infatti, pur non essendo mai stata abrogata, è adesso superata dalla “Sapienza personificata”: è Gesù adesso che noi siamo chiamati a seguire per giungere alla Pienezza della vita.
Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. È il triste esito di quest’incontro: il Tale “possedeva molti beni”, o meglio era posseduto da molti beni, quindi, pur con la morte nel cuore, torna alla misera vita di prima.

Oggi noi siamo invitati a non fare la stessa scelta. Anche noi, infatti, che ne siamo consapevoli o meno, come il tale del Vangelo, abbiamo bisogno di sperare e di allargare i nostri orizzonti di speranza: anche noi aneliamo alla Vita Eterna. Troppo spesso soffochiamo il bisogno di Vita accumulando beni che, in fin dei conti, non sono capaci di soddisfare le nostre attese (tanto che non ci bastano mai). Anche a noi il Maestro chiede di abbandonare le nostre fallaci sicurezze per abbandonarci al Suo Amore e metterci alla Sua sequela, divenendo Suoi discepoli e lasciandoci guidare la Lui. Se sceglieremo di rispondere alla Sua chiamata, sperimenteremo anche noi quel centuplo che il Maestro promette, insieme all’incomprensione da parte del mondo, a coloro che lo seguono.
Fr. Marco

sabato 6 ottobre 2018

Non è bene che l’uomo sia solo


«Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”»(Gen 2,18-24)

«Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.» (Eb 2,9-11)

«In quel tempo, … domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. …  Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne.» (Mc 10,2-16)

La liturgia della Parola di questa domenica XXVII del tempo ordinario, si apre con una solenne dichiarazione di Dio: « Non è bene che l’uomo sia solo». L’uomo, infatti, creato a immagine e somiglianza del Dio Amore che è in se stesso relazione, è creato per la relazione e solo nella relazione trova la sua realizzazione.
Una relazione, però, con qualcuno che gli corrisponda (letteralmente “come di fronte”) e con il quale vivere una comunione vitale: i due diventeranno una carne sola. Una relazione, quindi, “paritaria” e non “strumentale” come potrebbe essere quella con gli animali che l’uomo concorre a “creare” stappandoli dall’anonimato, ma che non gli corrispondono. Ecco allora la creazione della donna e il grido di giubilo dell’uomo: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne.»
Purtroppo, a causa del peccato, l’uomo ha perso di vista la verità sulla relazione a tutti i livelli, con Dio, con la donna e con la creazione, e ha reso i doni di Dio “oggetto di rapina” di cui appropriarsi anche con la violenza. Anche il tu della relazione, viene così reificato, reso un oggetto da possedere. Da qui la pretesa di “prendere” moglie, “pagandola” al padre, e lasciarla quando non soddisfa più. Ai tempi di Gesù si dibatteva se l’uomo potesse ripudiare la moglie “per qualsiasi motivo” (Cfr. Mt 19,3). Oggi il dibatto è stato tristemente risolto con l’unico progresso che sia la moglie che il marito possono lasciarsi per qualsiasi motivo.
Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Il Maestro, nel vangelo, oggi è chiaro nel denunciare la durezza di cuore di chi si pone la questione la ripudio. Una questione che assume tutta un’altra prospettiva nel momento in cui si realizza la profezia di Ezechiele: «toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26). Se l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (Cfr. Rm 5,5), se Egli adesso Ama in noi, allora siamo chiamati a realizzare il progetto originario del Padre al quale oggi Gesù ci rinvia: una relazione autentica, libera e paritaria con un tu che mi corrisponda (non che mi sia uguale); una relazione che rende i due una sola carne. Da sempre la tradizione ha visto qui il duplice richiamo all’indissolubilità del matrimonio e all’apertura feconda verso la vita (la carne) di cui più immediata, ma non esclusiva, manifestazione sono i figli.
La relazione autentica, però, l’Amore, ci porta ad uscire da noi, a non porre più in noi il nostro centro, a rinnegare se stessi (cfr. Mt 16,24). Credo sia per questo che oggi la seconda lettura richiama il sacrificio salvifico di Cristo sulla croce. Dalla croce, infatti, dalla piena manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo, siamo stati redenti. Dalla croce siamo anche invitati a imparare ad Amare prendendo anche noi ogni giorno la nostra croce, facendo della nostra vita un dono d’amore a chi il Signore ci ha messo accanto. Solo in questa autentica relazione d’amore, che ha il suo centro fuori di noi, troveremo la nostra piena realizzazione: «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).
Fr. Marco