giovedì 1 ottobre 2020

Triduo di S. Francesco d'Assisi. Secondo giorno: Minorità

 

«In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: "Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?" … chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.» (Mt 18,1-5.10)

In questo secondo giorno del triduo, il Vangelo ci presenta i discepoli che ancora una volta si interrogano su chi è più grande. Questa volta pongono la domanda a Gesù. Il Maestro per rispondere pone a modello un bambino e chiede ai discepoli la conversione, il passaggio dalla mentalità del mondo, che non ha spazio per i piccoli (i bambini nella società giudaica non avevano diritti), che cerca il più grande, che gonfia il proprio io tanto da schiacciare il fratello per emergere, alla mentalità del Vangelo che riconosce la propria dipendenza dal Padre e la vera grandezza nel farsi piccolo per servire.

La Minorità è forse la caratteristica peculiare del serafico Padre Francesco: egli sceglie di rinunciare ad ogni superiorità, sceglie di stimare sempre gli altri come superiori a sé. Fa questa scelta spinto dall’imitazione di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero per noi”. Se Lui che è Dio si fa uomo e piccolo, quanto più noi suoi discepoli siamo chiamati a farci piccoli, a riconoscere la nostra reale piccolezza e a consegnarla nelle Sue mani perché Lui posa compiere grandi cose. Come abbiamo visto ieri anche la povertà per Francesco è segno di Minorità come rinuncia ad ogni potere, ad ogni idolatria e ad ogni autosufficienza.

Il Serafico Padre considera la Minorità come segno che si ha lo Spirito del Signore. In questi termini la presenta nella dodicesima ammonizione (FF 161).

« A questo segno si può riconoscere il servo di Dio, se ha lo Spirito del Signore: se quando il Signore compie per mezzo di lui qualcosa di buono, la sua carne[1] non se ne inorgoglisce – poiché la carne è sempre contraria ad ogni bene - , ma piuttosto si ritiene ancora più vile ai propri occhi e si stima più piccolo di tutti gi altri uomini.»

Il primo aspetto di questo segno distintivo ha a che fare con il bene che riusciamo a compiere, o meglio, che il Signore compie per mezzo nostro. Francesco, vero povero spirituale, ha chiarissima la verità biblica che tutto il bene della nostra vita viene da Dio, il Datore di ogni bene. Il sevo di Dio sa, quindi, che il bene che il Signore gli dona di compiere, non gli appartiene se non come un dono che gli è stato fatto senza suo altro merito che di averlo accettato. Poiché, invece il nostro Io a causa del peccato è “autoglorificante” e vede in Dio un antagonista alla sua realizzazione, vorrebbe appropriarsi dei doni di Dio attribuendosene il merito. Invece di dare gloria a Dio, vuole dare gloria a se stesso. Là dove il servo di Dio è pronto a restituire a Dio il merito del bene compiuto restando nell’atteggiamento della vera povertà spirituale, l’uomo schiavo del proprio io se ne insuperbisce.

Il secondo aspetto ha a che fare con l’immagine che abbiamo di noi. Se, infatti, guardiamo con sincerità alla nostra, vita scopriamo che di veramente nostro abbiamo solo i peccati e le incorrispondenze alle innumerevoli grazie che il Signore ci ha donato. È questa la base della vera umiltà e minorità. Francesco ha chiaro questo punto tanto da volere che i suoi frati siano detti e siano realmente “frati minori”. Chi è veramente “minore” ha vinto il proprio Io perché attribuisce tutto il bene della sua vita allo Spirito del Signore che opera in lui.

Il terzo aspetto ha a che fare con il modo i cui consideriamo noi stessi in confronto ai fratelli e  alle sorelle: « e si stima più piccolo di tutti gli altri uomini».

Davanti a tale aspetto, forse in molti ci scopriamo mancanti: quando nel segreto del nostro io ci confrontiamo con i fratelli spesso ci convinciamo di essere “più grandi”, “qualcosa in più”, di essere migliori di loro.

Se da una parte questo è un meccanismo psicologico che ci aiuta a rapportarci agli altri nutrendo una sana autostima, bisogna fare attenzione a evitare due errori: il nostro “termine di paragone” non devono essere i fratelli, ma Dio; facciamo inoltre attenzione a non confondere le “qualità” con “l’essenza”.

Per quanto riguarda il primo errore, è quello che compie il fariseo al tempio che invece di guardare a Dio guarda a se stesso confrontandosi con il pubblicano. L’oggetto della nostra contemplazione, la meta a cui guardare, non sono gli altri, ma Dio. Il servo di Dio quindi non si confronta con i fratelli, ma guarda a stesso e alla sua opera mettendosi dinanzi a Dio e alle innumerevoli grazie che da Lui ha ricevuto. Se faremo così scopriremo quante grazie abbiamo lasciato cadere, quanto poco abbiamo corrisposto all’amore di Dio e troveremo motivi per ritenere gli altri superiori a noi stessi. È facendo questa riflessione che Francesco arriva ad affermare: «Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me». (FF 707).

Per quanto riguarda il secondo errore, cerco di chiarire il mio pensiero con un esempio: se dopo un sincero esame mi accorgo di avere delle qualità che il mio fratello non ha, se per esempio io so cucinare e il mio fratello è incapace di friggere un uovo, sono chiamato a riconoscere che questo è un dono che il Signore mi ha fatto senza mio merito, una qualità che devo mettere al servizio dei fratelli; ciò, tuttavia, non intacca minimamente la mia essenza, non mi fa essere qualcosa in più di chi non sa cucinare. Così, d’altra parte, se il mio fratello è un grande oratore ed io sono incapace di esprimere chiaramente e forbitamente il mio pensiero, questo non intacca la mia essenza, non mi rende qualcosa in meno di lui.

Tornando al Vangelo, mi colpisce che il maestro non rimprovera i discepoli per il loro desiderio di grandezza: siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, siamo fatti per stare al cospetto di Dio; Gesù corregge il tipo di grandezza cercato dai discepoli: non quella diabolica del più grande a scapito degli altri, di colui che si erge sugli altri per dominarli (una grandezza che divide), ma la vera grandezza che è quella di lasciarci conformare a Lui, di affidarsi al Padre con la semplicità e la minorità dei bambini e di gioire di ciò che il Padre compie in noi e nei fratelli. Il Signore ce lo conceda.

fr. Marco



[1] Francesco usa qui “carne”, secondo il linguaggio paolino, per indicare il “proprio io” come antagonista di Dio.

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