venerdì 2 ottobre 2020

Triduo di S. Francesco d'Assisi. Terzo giorno: L’umiltà di cuore e il giogo del Signore

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.  Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero.» (Mt 11,25-30)

In questo terzo giorno del triduo il Maestro ci esorta: prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore. Come dicevamo ieri parlando della Minorità e dell’Umiltà, san Francesco, ci ricorda che di nostro abbiamo solo il peccato. Così scrive nell’Ammonizione V: «E tutte le creature, che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la propria natura, servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te. E neppure i demoni lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a crocifiggerlo, e ancora lo crocifiggi quando ti diletti nei vizi e nei peccati. Di che cosa puoi dunque gloriarti?» (FF 154; Amm. V) E ancora continua il Serafico Padre: «in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità  e nel portare sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo.» (Ibid.).

È l’invito che ci fa oggi il Vangelo. Gesù ci esorta ad andare a Lui e ad imitarlo nella virtù fondamentale dell’umiltà senza la quale non può esistere la vera Carità, il vero amore di Dio e del prossimo, e a prendere su di noi il suo giogo. Lo sappiamo bene, il giogo di Cristo è la Croce abbracciata per amore.

Credo sia il caso di ricordare ancora una volta che la Croce salvifica non è una sofferenza subita mio malgrado. La Croce salvifica è tutto ciò che ci permette di fare della nostra vita un dono d’Amore a Dio e ai fratelli. Come ci ricorda, infatti, il servo di Dio Don Tonino Bello, terziario Francescano e Vescovo, come lui stesso volle essere ricordato: «Amare è voce del verbo morire». L’amore vero, non quello adolescenziale, è quello che ci fa uscire da noi, quello che ci fa mettere il bene della persona amata prima del nostro: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per gli amici» (Gv 15,13)

Francesco d’Assisi è innamorato dalla Croce del Signore che, dicono le biografie, si impresse nella sua anima ben prima che nel suo corpo con le Stimmate. Tutte le ammonizioni del serafico Padre, infatti, girano intorno al tema della vera povertà interiore con la quale l’uomo riproduce la Kenosi, la spoliazione e l’annientamento, di Cristo che da Dio si è fatto uomo per amore nostro  e umiliò se stesso facendo obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Cfr. Fil 2,7-8).

Nella prima parte della V Amm. Francesco si sofferma sulla dignità eccelsa per la quale l’uomo è stato creato: essere a immagine e somiglianza di Dio. Di questa dignità non abbiamo alcun merito: è un dono gratuito dell’amore del Creatore. L’uomo, tuttavia, ha voltato le spalle al Datore di ogni bene, che senza suo merito lo aveva creato per tale altissima dignità e, nell’attuale stato di corruzione, è inferiore alle altre creature terrestri che servono e adorano il Creatore meglio dell’uomo peccatore. Francesco va oltre: fa notare che gli uomini, non i demoni, hanno crocifisso il Figlio di Dio. Di cosa possiamo dunque gloriarci?

Come ricordavamo ieri, da discepoli di Cristo sulle orme di Francesco, di fronte ai doni di Dio, anziché gloriarcene, dovremmo chiederci se li usiamo bene, cioè per la gloria di Dio e il bene dei fratelli. È allo scopo di farci fare questo esame di coscienza il più onestamente possibile, che Francesco ci pone a paragone con le creature irragionevoli che, a modo loro, servono il Creatore meglio di noi.

Se poi a questo aggiungiamo che è per il nostro peccato, con il quale ci sottraiamo alla Signoria di Dio rifiutandolo, che Nostro Signore Gesù Cristo è morto in Croce, risulta evidente che non abbiamo nulla di cui gloriarci.

Nell’ultima parte però, l’ammonizione si apre alla speranza. C’è in realtà qualcosa di cui possiamo gloriarci: l’essere amati da Dio al punto che si è incarnato ed è morto in croce per noi. È di questo che possiamo gloriarci e della possibilità di portare la nostra Croce ogni giorno nella sequela di Cristo. E ancora possiamo gloriarci delle nostre infermità vissute come partecipazione ai dolori di Cristo e nella Sua sequela. Il vero povero, poi, arriva anche a gloriarsi delle proprie debolezze che diventano occasione per affidarsi e farsi riempire dall’amore del Padre.

Proprio la consapevolezza della propria debolezza diventa, quindi, motivo di una gioia riconoscente di chi si rende conto che, senza suo merito e nonostante tutto, Dio lo ama. È questo il sentimento che anima S. Francesco quando ad un frate che gli chiede: «Padre, cosa ne pensi di te stesso?» rispose: «Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me» (FF 707).

Come il serafico Padre Francesco, impariamo anche noi da Cristo mite ed umile di cuore a portare ogni giorno la nostra Croce; impariamo a svuotarci di noi stessi e dei nostri motivi di vanto perché il nostro “avere niente” sia riempito dalla misericordia del Padre. Soltanto il povero riconoscente, come un vaso vuoto, può essere riempito dell’amore di Dio.

Vorrei concludere con una citazione tratta dalla Vita II di Tommaso da Celano (FF 718):

«[Francesco] Ripeteva spesso ai frati: «Nessuno deve lusingarsi con ingiusto vanto per quelle azioni, che anche il peccatore potrebbe compiere. Il peccatore – spiegava – può digiunare, pregare, piangere, macerare il proprio corpo. Ma una sola cosa non gli è possibile: rimanere fedele al suo Signore. Proprio di questo dobbiamo gloriarci, se diamo a Dio la gloria che gli spetta (Sir 35,10), se da servitori fedeli attribuiamo a lui tutto il bene che ci dona.»

Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

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