giovedì 31 ottobre 2024

Quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui

« … ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7, 2-4.9-14)

«… noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1Gv 3,1-3)

«Beati i poveri in spirito, … Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.» (Mt 5, 1-12)

La Parola di Dio della solennità di Tutti i Santi si apre con l’immagine di una moltitudine immensa: sono tutti i nostri fratelli e sorelle nella fede che hanno realizzato la loro vita conformandosi a Cristo. Non solo i santi che la Chiesa ha canonizzato, cioè posti a modello, misura (canone) per noi, ma anche quelli anonimi che nel silenzio della loro quotidianità hanno saputo vivere la logica delle beatitudini e non si sono conformati alla mentalità del mondo.

Questa solennità è soprattutto per loro. Ma è anche per noi, per ricordarci che siamo tutti chiamati alla santità, alla beatitudine, a vivere secondo la dignità di figli di Dio facendo emergere nella nostra vita l’immagine del Figlio per eccellenza. 

«La salvezza appartiene al nostro Dio …» Così grida la moltitudine immensa riconoscendo che la realizzazione della nostra vita, la santità, è prima di tutto un dono gratuito di Dio e non merito dei nostri sforzi. Ciò che il Padre chiede a noi è solo di accogliere questo dono e farlo fruttificare. Ecco dove entra in campo il nostro impegno: nel fare sì che la Grazia non venga vanificata; nell’essere pronti a comprendere e fare la volontà di Dio nell’attimo presente; nel rifiutare la logica dell’egoismo, dell’edonismo, del potere e dell’avere, per assumere, invece, la logica dell’altruismo, dell’amore gratuito e disinteressato che si fa servizio e perdono.

«…  Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione …» ; «Beati i perseguitati per la giustizia …» Vivere come Figli di Dio, conformarsi alla logica del Beatitudini, non è mai accetto al mondo la cui logica è totalmente altra. Per questo i santi di tutti i tempi hanno affrontato la persecuzione. A volte si è trattato di persecuzione violenta come quella di Diocleziano (cui si riferisce l’autore dell’Apocalisse) o quella subita dai martiri di tutti i tempi (ancora oggi tanti  nostri fratelli subiscono il martirio, per esempio in Siria, Iraq e Nigeria), Più spesso, però, soprattutto qui in Occidente si tratta di una persecuzione subdola tesa a screditare la Chiesa e i suoi ministri; ancora più frequente è l’insinuazione che “il nemico dell’umanità” ci mette nel cuore, anche attraverso i nostri fratelli, che la santità non fa per noi; che non c’è niente di male a scendere a compromessi … d’altronde, bisogna aggiornarsi!; o, ancora, la suggestione: «Se Dio veramente ti amasse, non permetterebbe questa sofferenza …» ; tutte cose che ci allontanano dalla nostra piena realizzazione e ci riducono a vivere una vita senza senso, una vita che non è Vita tanto che non di rado sentiamo i nostri fratelli lamentarsi: «Ma è vita questa?». Guardando all’esempio dei santi, non temiamo la persecuzione del mondo che, non avendo riconosciuto il nostro Maestro, non potrà certo accettare la vita secondo i Suoi insegnamenti, ma perseveriamo nell’adempimento della Volontà di Dio, nell’accoglienza della Sua Grazia, e giungeremo a quella Gioia piena che il Signore è venuto a regalarci.

In questa giornata della santificazione universale, infine, voglio riportarvi un pensiero di Papa Francesco tratto dalla Gaudete et Exultate: « Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. In realtà, fin dalle prime pagine della Bibbia è presente, in diversi modi, la chiamata alla santità. Così il Signore la proponeva ad Abramo: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1).» (Gaudete et Exultate, 1) Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

sabato 26 ottobre 2024

Coraggio! Alzati, ti chiama!

 «Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il  cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla.» (Ger 31,7-9)

«Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”, gliela conferì come è detto in un altro passo: “Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek”». (Eb 5,1-6)

«Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Àlzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.» (Mc 10,46-52)

Questa domenica, XXX del tempo ordinario, la liturgia della Parola si apre con un messaggio di speranza: «Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele». Nella pagina di Vangelo, infatti, Gesù ci viene presentato ancora una volta come colui che viene a cercare e salvare “il cieco e lo zoppo”, quanti sono ridotti a mendicare la vita. Il Salvatore che viene a radunare tutta l’umanità per farla entrare nella pienezza della Vita.

L’evangelista Marco racconta che Gesù sta recandosi a Gerusalemme, la città santa simbolo della comunione con Dio, e attraversa Gerico, la città simbolo di peccato e della resistenza a Dio (Cf. Gs 6,1-21), consegnata da Dio a Giosuè. Non è un caso se nella parabola “del buon samaritano” il tale incappato nei briganti sta scendendo da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,25-37): la città di Gerico è simbolo dell’autoaffermazione contro Dio.

Mentre Gesù sta uscendo da Gerico, Bartimeo, cieco e ridotto a mendicare lungo la strada, lo riconosce e comincia a chiamarlo con il titolo messianico di Figlio di Davide. Bartimeo racchiude in sé l’immagine dell’umanità che, resistendo a Dio per affermare se stessa, si trova cieca, lontana dalla Luce della Vita, e mendicante. Pur nella sua cecità, tuttavia, quest’uomo riconosce in Gesù l’unico che può salvarlo, che può strapparlo dalla sua miseria e restituirgli la Luce che aveva perduto: « … che io veda di nuovo!».

«Coraggio! Àlzati, ti chiama!» Gesù è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, come dirà Luca nel racconto di Zaccheo (Lc 19,1-10), per questo Bartimeo può riconoscere in Lui il salvatore. All’uomo nella miseria il Signore chiede di farsi coraggio e, lasciando le proprie misere sicurezze (la coperta), rispondere alla chiamata per lasciarsi risollevare dalla propria condizione e vivere la vita dei risorti (alzarsi è il verbo della resurrezione).

«Che cosa vuoi che io faccia per te?» Come domenica scorsa, Gesù si mostra come colui che non è venuto per farsi servire ma per servire con quel servizio regale che è proprio di Dio perché proprio dell’Amore. Con questa domanda, nondimeno, Gesù vuole anche che Bartimeo completi la sua “confessione di fede”: lo aveva riconosciuto “figlio di Davide”, quindi il Messia atteso, e rabbunì (mio maestro); ora manifestando la sua richiesta deve riconoscerlo Signore. Solo Dio, infatti, avrebbe potuto restituirgli la vista. Chiedere a Gesù di farlo tornare a vedere, equivale quindi a riconoscerlo Dio e manifestare fiducia in lui.

«Va’, la tua fede ti ha salvato» A questo punto, guarito, Bartimeo che ha incontrato la Luce vera che viene nel mondo (cf. Gv 1,9), non può che mettersi gioiosamente alla sequela.

Anche noi siamo invitati quest’oggi a fare lo stesso percorso: riconoscendoci bisognosi della misericordia del Padre, siamo chiamati a lasciare le nostre misere sicurezze a cui tanto facilmente attacchiamo il cuore, e fidandoci di Gesù, metterci alla Sua sequela e vivere la Vita dei Risorti. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

sabato 19 ottobre 2024

Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti

 «Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.» (Is 53,10-11)

« … non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.» (Eb 4,14-16)

«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,35-45)

​La Parola di Dio della XXIX domenica del tempo ordinario, ci fa crescere nella conoscenza del nostro Maestro perché noi possiamo sempre più lasciarci conformare a Lui.

La liturgia della Parola di oggi si apre con un passaggio fondamentale del Carme del Servo Sofferente (Is 52,13-53,12): un uomo che, accogliendo in sé la volontà divina, si fa solidale con i peccatori assumendo su di sé la conseguenza del loro peccato. In questo modo ottiene la salvezza per sé e per coloro che per i quali intercedeva («per le sue piaghe siamo stati guariti»). È facile per noi vedere in quest’uomo una profezia di Cristo: è Lui il Servo che fa della Sua vita un offerta, che accoglie su di sé tutto il male del mondo inchiodandolo ad una croce perché a noi possa venire la Vita.

Nella pagina di Vangelo, ascoltiamo che Gesù, mentre si sta dirigendo a Gerusalemme, istruisce i discepoli su quello che lì dovrà patire. In questo contesto, assistiamo alla “vanagloriosa” richiesta di Giacomo e Giovanni: incapaci di comprendere ciò che Gesù sta annunciando, chiedono al Maestro un posto di gloria. Il tono della richiesta sembra quasi di pretesa: «vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».

Davanti a tale richiesta, contrariamente agli altri dieci apostoli (forse altrettanto “vanagloriosi”), il Maestro non si scandalizza, ma orienta correttamente il desiderio di grandezza che emerge dal cuore dell’uomo e insegna ancora una volta, prima con l’esempio e poi con la parola, che il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire: «Che cosa volete che io faccia per voi?». La risposta di Gesù è quella di chi, pienamente libero, si mette al servizio in maniera regale.

«… chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore …». Veramente grande, infatti, non è chi siede per farsi servire, chi domina i fratelli soggiogandoli, chi viene apertamente ricoperto di onori; veramente grande è, invece, colui che si pone al servizio dei suoi fratelli, chi ama gratuitamente, chi è capace di accogliere e perdonare le miserie dei propri fratelli facendosi solidale con loro. Veramente grande, infine, è colui che imita il Maestro il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Un’offerta che ancora si perpetua nel sacramento dell’Eucarestia: Gesù si fa pane spezzato per noi e ci invita ad unire la nostra vita alla Sua nell’offerta per la salvezza del mondo.

La “grandezza” proposta secondo la logica del Vangelo è una grandezza che il mondo non può capire. Una grandezza ardua: ci chiede di morire a noi stessi, di anteporre al nostro Io l’amore per Dio e per fratelli. Per questo oggi l’autore della Lettera agli Ebrei viene a confortarci: «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze …»; il nostro Maestro conosce per le nostre debolezze e ci chiede solo di attingere alla Sua forza, alla Grazia che ci raggiunge nei sacramenti, per conformarci a Lui e giungere a quella gloria che da sempre ha preparato per noi.

Fra Marco

venerdì 11 ottobre 2024

Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?

 «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto» (Sap 7,7-11)

«Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.» (Eb 4,12-13)

«Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” … “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» (Mc 10,17-30)

La liturgia della parola di questa domenica, XXVIII del TO, ci invita ad indirizzare i nostri cuori verso le cose eterne che sole possono saziare la nostra “fame di vita”.

La pagina evangelica di oggi, infatti, ci presenta “un tale” che sembra avere tutto quello che si possa desiderare: possiede molti beni ed una vita “ricca di virtù” di cui va fiero («queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»); quest’uomo, tuttavia, non è un uomo felice, realizzato, sente che gli manca qualcosa: cerca la “Vita eterna”, quella Vita Piena che non avrà mai fine e che sa di dovere attendere come un dono: parla di “ereditare”.

Credo che non sia un caso se l’evangelista non identifica in alcun modo questo tale: incarna le attese di ogni uomo la cui speranza ha bisogno di orizzonti ampi e non può ridursi al solo orizzonte materiale. La stessa speranza che ispirò l’autore sapienziale a implorare il dono della Sapienza (I lettura): una guida sicura nella vita che ci dia le giuste coordinate per Vivere veramente. Questa Sapienza viene data al Popolo di Israele sotto forma della Legge: le Dieci Parole destinate a guidare il comportamento del popolo eletto e a custodire l’Alleanza con Dio. È a questa sapienza che Gesù inizialmente rimanda il suo interlocutore: «… Tu conosci i comandamenti.»

Il “tale”, però, non è soddisfatto dalla risposta di Gesù, non gli basta l’osservanza della Legge, non gusta ancora la Vita Piena. Il Maestro, allora, lo invita ad uscire dal suo inganno e a liberarsi dall’idolatria che gli impedisce di osservare realmente i comandamenti: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”»; lo invita a vendere i suoi beni dimostrando che non sono essi il suo dio (osservando realmente i primi tre comandamenti che riguardano l’amore per Dio), e a dare il ricavato ai poveri (osservando i restanti sette riguardanti l’amore per il prossimo). Solo allora sarà disponibile alla sequela, a “perdere” la vita abbandonando ogni sicurezza precedente, per vivere la Vita lasciandosi guidare dalla Luce della Fede, dalla fiducia nel Maestro Buono. La sapienza antica, infatti, pur non essendo mai stata abrogata, è adesso superata dalla “Sapienza personificata”: è Gesù adesso che noi siamo chiamati a seguire per giungere alla Pienezza della vita.

Sappiamo qual è il triste esito di quest’incontro: il Tale “possedeva molti beni”, o meglio era posseduto da molti beni, quindi, pur con la morte nel cuore (scuro in volto e rattristato), torna alla misera vita di prima.

«Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». … «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Anche a noi oggi il Maestro chiede di abbandonare le nostre fallaci sicurezze per metterci alla Sua sequela, per divenire Suoi discepoli lasciandoci guidare la Lui. Anche noi siamo invitati ad entrare nella verità di noi stessi: non siamo capaci di salvarci da soli! Per quanti beni accumuliamo e per quanto bene crediamo di fare, non siamo in grado di darci da soli la Vita piena che desideriamo. Dinanzi a questa verità che potrebbe scoraggiarci, il Maestro ci conforta: nulla è impossibile a Dio! Se sceglieremo di rispondere alla Sua chiamata, e di lasciarci guidare da Lui rinunciando alle nostre false sicurezze, sperimenteremo anche noi quel centuplo che il Maestro promette, insieme all’incomprensione da parte del mondo, a coloro che lo seguono.

Fr. Marco

venerdì 4 ottobre 2024

L'uomo non divida quello che Dio ha congiunto

 

«Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”». (Gen 2,18-24)

«Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.» (Eb 2,9-11)

​«In quel tempo, … domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. …  Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne.» (Mc 10,2-16)

la liturgia della Parola della XXVII domenica del tempo ordinario, ​si apre con una solenne dichiarazione di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo». L’uomo, infatti, creato a immagine e somiglianza del Dio Amore che è in se stesso relazione, è creato per la relazione e solo nella relazione trova la sua realizzazione.

Una relazione, però, con qualcuno che gli corrisponda (letteralmente “come di fronte”) e con il quale vivere una comunione vitale: i due saranno un’unica carne. Una relazione, quindi, “paritaria” e non “strumentale” come potrebbe essere quella con gli animali che l’uomo concorre a “creare” dando loro il nome, ma che non gli corrispondono. Ecco allora la creazione della donna e il grido di giubilo dell’uomo: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne!»

A causa del peccato, tuttavia, l’uomo ha perso di vista la verità sulla relazione a tutti i livelli: con Dio, con la donna e con la creazione; ha reso i doni di Dio “oggetto di rapina” di cui appropriarsi anche con la violenza. Anche il “tu” della relazione, viene “cosificato”, reso un oggetto da possedere. Da qui la pretesa di “prendere” moglie (magari “pagandola” al padre) e lasciarla quando non soddisfa più. Ai tempi di Gesù si dibatteva se l’uomo potesse ripudiare la moglie “per qualsiasi motivo” (Cfr. Mt 19,3). Oggi il dibatto è stato tristemente risolto con l’unico progresso che sia la moglie che il marito possono lasciarsi “per qualsiasi motivo”.

«Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma». Il Maestro, nel vangelo, oggi è chiaro nel denunciare la durezza di cuore di chi si pone la questione del ripudio. Una questione che assume tutta un’altra prospettiva nella “pienezza dei tempi” in cui si realizza la profezia di Ezechiele: «toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26). Se l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (Cfr. Rm 5,5), se Egli adesso Ama in noi, allora siamo chiamati a realizzare il progetto originario del Padre al quale oggi Gesù ci rinvia: una relazione autentica, libera e paritaria con un tu che mi corrisponda; una relazione che rende i due una sola carne. Da sempre la tradizione ha visto qui il duplice richiamo all’indissolubilità del matrimonio e all’apertura feconda verso la vita (i due saranno un’unica carne) di cui più immediata, ma non esclusiva, manifestazione sono i figli.

La relazione autentica, però, l’Amore, ci porta ad uscire da noi, a non porre più in noi il nostro centro, a rinnegare se stessi (cfr. Mt 16,24). Credo sia per questo che oggi la seconda lettura richiama il sacrificio salvifico di Cristo sulla croce. Dalla croce, infatti, dalla piena manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo, siamo stati redenti. Dalla croce siamo anche invitati a imparare ad Amare prendendo anche noi ogni giorno la nostra croce, facendo della nostra vita un dono d’amore a chi il Signore ci ha messo accanto. Solo in questa autentica relazione d’amore, che ha il suo centro fuori di noi, troveremo la nostra piena realizzazione: «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).

Fr. Marco

giovedì 3 ottobre 2024

Solennità di San Francesco restauratore della Chiesa

 «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 25-30)

Oggi celebriamo la solennità del serafico Padre S. Francesco. In questo triduo abbiamo visto san Francesco come modello di chi ripara la Chiesa di Cristo restaurando l’immagine di Cristo impressa i lui nel Battesimo. Oggi vorrei provare a fare una sintesi dei tratti salienti che hanno caratterizzato la risposta del nostro Serafico Padre alla Grazia del Signore.

Francesco sente forte in lui, come ogni uomo, un desiderio di grandezza, di pienezza di vita, che il mondo non riesce a soddisfare. La sua giovinezza è fortemente segnata da questa ricerca di una vita piena. E il Signore interviene in questa ricerca orientandola, mettendo spine sulle strade sbagliate che Francesco percorre perché, ravvedendosi, possa imboccare la strada giusta.

Una prima grandezza di Francesco che vorrei evidenziare è l’autenticità della sua ricerca: nel ricercare il suo posto nel mondo Francesco non si fa condizionare da ciò che possono pensare gli altri: se comprende di star percorrendo una strada errata, torna indietro. L’autenticità e l’entusiasmo della sua ricerca fanno anche in modo che, appena comprende la volontà di Dio, Francesco la compie senza perdere tempo in vane speculazioni. Per questo Francesco è uomo veramente evangelico, perché si lascia guidare dal vangelo in tutte le sue scelte. Chiediamo a S. Francesco di pregare per noi perché anche la nostra ricerca possa essere autentica e come lui posiamo mettere in pratica con immediatezza e semplicità ciò che il Signore ci fa comprendere della sua volontà senza dar tempo alle nostre paure di bloccarci o di “ammorbidire” ciò che abbiamo compreso.

Un’altra caratteristica di Francesco che vorrei sottolineare è il suo essere fratello. Francesco comprende che il comandamento fondamentale, la “sintesi della legge e dei profeti” è l’Amore. Vive pienamente quest’amore per Dio e per i fratelli. Il titolo di “serafico” che la Chiesa gli ha attribuito richiama, infatti, i Serafini: le creature angeliche che ardono d’amore per Dio. Francesco sceglie quindi di vivere l’amore e di farsi fratello di ogni creatura. Francesco vuole che l’ordine da lui fondato sia una fraternità; ritengo sia significativo, tuttavia, il fatto che raramente nei suoi scritti parli di “fraternità”, ma innumerevoli volte parli di “fratelli”. La fraternità in astratto non esiste, esistono degli uomini e delle donne che scelgono di farsi fratelli e sorelle di chi il Signore pone loro accanto. È questa la fraternità francescana: riconoscere l’unica paternità di Dio e per questo scegliere di farsi fratelli di ogni uomo amandolo per primo come noi ci sentiamo amati dal Padre. Solo quando ciascuno di noi si farà fratello/sorella dell’altro ci sarà tra noi vera fraternità.

Un’altra caratteristica di Francesco che va evidenziata, forse la sua caratteristica più peculiare, è la minorità: Francesco sceglie di rinunciare ad ogni superiorità, sceglie di stimare sempre gli altri come superiori a sé. Fa questa scelta spinto dall’imitazione di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero per noi”. Se Lui che è Dio si fa uomo e piccolo, quanto più noi suoi discepoli siamo chiamati a farci piccoli, a riconoscere la nostra reale piccolezza e a consegnarla nelle Sue mani perché Lui posa compiere grandi cose.

La minorità di Francesco, caratteristica fondamentale della sua sequela di Cristo, si traduce anche nella sua povertà come rinuncia ad ogni potere, ad ogni idolatria e ad ogni autosufficienza. La povertà di Francesco è certamente motivata dall’imitazione di Cristo, ma anche dalla sua comprensione di quanto qualunque ricchezza ci separa rendendoci autosufficienti; la ricchezza, inoltre, va difesa e questo fa sì che non vediamo più in chi ci sta accanto un fratello, ma un nemico. Facciamo attenzione, però, che la ricchezza rifiutata da Francesco è dentro l’uomo, non fuori dall’uomo: si può essere ricchi anche della propria povertà quando la si usa come arma per sentirsi superiori ai fratelli. Quella di Francesco, invece, è una reale povertà interiore che diventa visibile anche esteriormente.

Parlando della minorità di Francesco, però, dobbiamo dire che essa diventa anche obbedienza: scegliendo Gesù come suo Signore, Francesco mette realmente la sua vita sotto la sua Signoria; e riconoscendo gli altri come superiori a sé vive in continuo ascolto della volontà di Dio che può manifestarsi attraverso qualunque dei suoi fratelli. L’obbedienza di Francesco, naturalmente, si fa estrema nei riguardi della Chiesa e di ogni suo rappresentante in cui vede una mediazione diretta e privilegiata della voce di Dio. Solo in questo modo Francesco poté realizzare la restaurazione della Chiesa che anche altri avevano inutilmente tentato. La Chiesa ai tempi di Francesco è una Chiesa che va in rovina, in cui solo con grande fatica si riconosce la Sposa di Cristo: i vescovi vivono come principi e come loro sono più impegnati in cose temporali che in cose spirituali. I sacerdoti spesso sono quasi analfabeti e vivono una dubbia morale. È questa la Chiesa che Francesco è chiamato a restaurare dall’interno, ed è questa la Chiesa alla quale Francesco vuole obbedire perché sa che nonostante tutto in essa il Signore continua a parlare.

Come seguaci Francesco, quindi anche noi disponiamoci ad accogliere la volontà di Dio che si manifesta nei fratelli che il Signore ha chiamato al governo della Chiesa e al governo delle nostre fraternità, sicuri che il Signore che li ha chiamati li assisterà nel compito loro affidato e che, come dice S. Agostino: «Se il Signore può permettere che sbagli chi comanda, non permette che sbagli chi obbedisce».

In conclusione, celebrando questa solennità, fratelli e sorelle, guardiamo a ciò che S. Francesco ha fatto della sua vita, seguiamo il suo esempio nella disponibilità a compiere il progetto d’amore del Padre per noi e, come lui, mettiamo realmente la nostra vita sotto la Signoria di Cristo; in tal modo saremo realmente discepoli di Cristo e seguaci di Francesco, uomini e donne pienamente realizzati, strumenti di Dio per edificare giorno dopo giorno il Regno dei Cieli. Il Signore ce lo conceda per intercessione di S. Francesco nostro Serafico Padre.

Fr. Marco

mercoledì 2 ottobre 2024

In questo possiamo gloriarci

 «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.  Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero.» (Mt 11,25-30)

In questo terzo giorno del triduo il Maestro ci esorta: prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore. Come dicevamo ieri parlando della Minorità, san Francesco, ha chiaro che di nostro abbiamo solo il peccato. Così scrive nell’Ammonizione V:

«E tutte le creature, che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la propria natura, servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te. E neppure i demoni lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a crocifiggerlo, e ancora lo crocifiggi quando ti diletti nei vizi e nei peccati. Di che cosa puoi dunque gloriarti?in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità  e nel portare sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo.» (FF 154; Amm. V)

È l’invito che ci fa oggi il Vangelo. Gesù ci esorta ad andare a Lui e ad imitarlo nella virtù fondamentale dell’umiltà senza la quale non può esistere la vera Carità, il vero amore di Dio e del prossimo, e a prendere su di noi il suo giogo. Lo sappiamo bene, il giogo di Cristo è la Croce abbracciata per amore.

Credo sia il caso di ricordare ancora una volta che la Croce salvifica non è una sofferenza subita mio malgrado. La Croce salvifica è tutto ciò che ci permette di fare della nostra vita un dono d’Amore a Dio e ai fratelli. Come ci ricorda, infatti, il servo di Dio Don Tonino Bello, terziario Francescano e Vescovo, come lui stesso volle essere ricordato: «Amare è voce del verbo morire». L’amore vero, non quello adolescenziale, è quello che ci fa uscire da noi, quello che ci fa mettere il bene della persona amata prima del nostro: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per gli amici» (Gv 15,13)

Francesco d’Assisi è innamorato dalla Croce del Signore che, dicono le biografie, si impresse nella sua anima ben prima che nel suo corpo con le Stimmate. Tutte le ammonizioni del serafico Padre, infatti, girano intorno al tema della vera povertà interiore con la quale l’uomo riproduce la Kenosi, la spoliazione e l’annientamento, di Cristo che da Dio si è fatto uomo per amore nostro  e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Cfr. Fil 2,7-8).

Nella prima parte della V Amm. Francesco si sofferma sulla dignità eccelsa per la quale l’uomo è stato creato: essere a immagine e somiglianza di Dio. Di questa dignità non abbiamo alcun merito: è un dono gratuito dell’amore del Creatore. L’uomo, tuttavia, ha voltato le spalle al Datore di ogni bene, che senza suo merito lo aveva creato per tale altissima dignità e, nell’attuale stato di corruzione, è inferiore alle altre creature terrestri che servono e adorano il Creatore meglio dell’uomo peccatore. Francesco va oltre: fa notare che gli uomini, non i demoni, hanno crocifisso il Figlio di Dio. Di cosa possiamo dunque gloriarci?

Da discepoli di Cristo sulle orme di Francesco, di fronte ai doni di Dio, anziché gloriarcene, dovremmo chiederci se li usiamo bene, cioè per la gloria di Dio e il bene dei fratelli. È allo scopo di farci fare questo esame di coscienza il più onestamente possibile, che Francesco ci pone a paragone con le creature irragionevoli che, a modo loro, servono il Creatore meglio di noi.

Se poi a questo aggiungiamo che è per il nostro peccato, con il quale ci sottraiamo alla Signoria di Dio rifiutandolo, che Nostro Signore Gesù Cristo è morto in Croce, risulta evidente che non abbiamo nulla di cui gloriarci.

Nell’ultima parte, però, l’ammonizione si apre alla speranza. C’è in realtà qualcosa di cui possiamo gloriarci: l’essere amati da Dio al punto che si è incarnato ed è morto in croce per noi. È di questo che possiamo gloriarci e della possibilità di portare la nostra Croce ogni giorno nella sequela di Cristo. E ancora possiamo gloriarci delle nostre infermità vissute come partecipazione ai dolori di Cristo e nella Sua sequela. Il vero povero, poi, arriva anche a gloriarsi delle proprie debolezze che diventano occasione per affidarsi e farsi riempire dall’amore del Padre.

Proprio la consapevolezza della propria debolezza diventa, quindi, motivo di una gioia riconoscente di chi si rende conto che, senza suo merito e nonostante tutto, Dio lo ama. È questo il sentimento che anima S. Francesco quando ad un frate che gli chiede: «Padre, cosa ne pensi di te stesso?» rispose: «Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me» (FF 707).

Come il serafico Padre Francesco, impariamo anche noi da Cristo mite ed umile di cuore a portare ogni giorno la nostra Croce; impariamo a svuotarci di noi stessi e dei nostri motivi di vanto perché il nostro “avere niente” sia riempito dalla misericordia del Padre. Soltanto il povero riconoscente, come un vaso vuoto, può essere riempito dell’amore di Dio.

Vorrei concludere con una citazione tratta dalla Vita II di Tommaso da Celano (FF 718):

«[Francesco] Ripeteva spesso ai frati: «Nessuno deve lusingarsi con ingiusto vanto per quelle azioni, che anche il peccatore potrebbe compiere. Il peccatore – spiegava – può digiunare, pregare, piangere, macerare il proprio corpo. Ma una sola cosa non gli è possibile: rimanere fedele al suo Signore. Proprio di questo dobbiamo gloriarci, se diamo a Dio la gloria che gli spetta (Sir 35,10), se da servitori fedeli attribuiamo a lui tutto il bene che ci dona.»

Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

martedì 1 ottobre 2024

A questo segno si può riconoscere il servo di Dio

«In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: "Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?" … chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli.» (Mt 18,1-5.10)

In questo secondo giorno del triduo, il Vangelo ci presenta i discepoli che ancora una volta si interrogano su chi è più grande. Questa volta pongono la domanda a Gesù. Il Maestro per rispondere pone a modello un bambino e chiede ai discepoli la conversione, il passaggio dalla mentalità del mondo, che non ha spazio per i piccoli (i bambini nella società giudaica non avevano diritti), che cerca il più grande, che gonfia il proprio io tanto da schiacciare il fratello per emergere, alla mentalità del Vangelo che riconosce la propria dipendenza dal Padre e la vera grandezza nel farsi piccolo per servire.

La Minorità è forse la caratteristica peculiare del serafico Padre Francesco: egli sceglie di rinunciare ad ogni superiorità, sceglie di stimare sempre gli altri come superiori a sé. Fa questa scelta spinto dall’imitazione di Gesù Cristo che “da ricco che era si fece povero per noi”. Se Lui che è Dio si fa uomo e piccolo, quanto più noi suoi discepoli siamo chiamati a farci piccoli, a riconoscere la nostra reale piccolezza e a consegnarla nelle Sue mani perché Lui posa compiere grandi cose.

Il Serafico Padre considera la Minorità come segno che si ha lo Spirito del Signore. In questi termini la presenta nella dodicesima ammonizione (FF 161).

«A questo segno si può riconoscere il servo di Dio, se ha lo Spirito del Signore: se quando il Signore compie per mezzo di lui qualcosa di buono, la sua carne[1] non se ne inorgoglisce – poiché la carne è sempre contraria ad ogni bene - , ma piuttosto si ritiene ancora più vile ai propri occhi e si stima più piccolo di tutti gli altri uomini

Il primo aspetto di questo segno distintivo ha a che fare con il bene che riusciamo a compiere, o meglio, che il Signore compie per mezzo nostro. Francesco, vero povero spirituale, ha chiarissima la verità biblica che tutto il bene della nostra vita viene da Dio, il Datore di ogni bene. Il sevo di Dio sa, quindi, che il bene che il Signore gli dona di compiere, non gli appartiene se non come un dono che gli è stato fatto senza suo altro merito che di averlo accettato. Poiché, invece il nostro Io a causa del peccato è “autoglorificante” e vede in Dio un antagonista alla sua realizzazione, vorrebbe appropriarsi dei doni di Dio attribuendosene il merito. Invece di dare gloria a Dio, vuole dare gloria a se stesso. Là dove il servo di Dio è pronto a restituire a Dio il merito del bene compiuto restando nell’atteggiamento della vera povertà spirituale, l’uomo schiavo del proprio io se ne insuperbisce.

Il secondo aspetto ha a che fare con l’immagine che abbiamo di noi. Se, infatti, guardiamo con sincerità alla nostra, vita scopriamo che di veramente nostro abbiamo solo i peccati e le incorrispondenze alle innumerevoli grazie che il Signore ci ha donato. È questa la base della vera umiltà e minorità. Francesco ha chiaro questo punto tanto da volere che i suoi frati siano detti e siano realmente “frati minori”. Chi è veramente “minore” ha vinto il proprio Io perché attribuisce tutto il bene della sua vita allo Spirito del Signore che opera in lui.

Il terzo aspetto ha a che fare con il modo i cui consideriamo noi stessi in confronto ai fratelli e  alle sorelle: « e si stima più piccolo di tutti gli altri uomini». Davanti a tale aspetto, forse in molti ci scopriamo mancanti: quando nel segreto del nostro io ci confrontiamo con i fratelli spesso ci convinciamo di essere “più grandi”, “qualcosa in più”, di essere migliori di loro.

Se da una parte questo è un meccanismo psicologico che ci aiuta a rapportarci agli altri nutrendo una sana autostima, bisogna fare attenzione a evitare due errori: il nostro “termine di paragone” non devono essere i fratelli, ma Dio; facciamo inoltre attenzione a non confondere le “qualità” con “l’essenza”. Per quanto riguarda il primo errore, è quello che compie il fariseo al tempio che invece di guardare a Dio guarda a se stesso confrontandosi con il pubblicano. L’oggetto della nostra contemplazione, la meta a cui guardare, non sono gli altri, ma Dio. Il servo di Dio quindi non si confronta con i fratelli, ma guarda a sé stesso e alla sua opera mettendosi dinanzi a Dio e alle innumerevoli grazie che da Lui ha ricevuto. Se faremo così scopriremo quante grazie abbiamo lasciato cadere, quanto poco abbiamo corrisposto all’amore di Dio e troveremo motivi per ritenere gli altri superiori a noi stessi. È facendo questa riflessione che Francesco arriva ad affermare: «Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me». (FF 707).

Per quanto riguarda il secondo errore, cerco di chiarire il mio pensiero con un esempio: se dopo un sincero esame mi accorgo di avere delle qualità che il mio fratello non ha, se per esempio io so cucinare e il mio fratello è incapace di friggere un uovo, sono chiamato a riconoscere che questo è un dono che il Signore mi ha fatto senza mio merito, una qualità che devo mettere al servizio dei fratelli; ciò, tuttavia, non intacca minimamente la mia essenza, non mi fa essere qualcosa in più di chi non sa cucinare. Così, d’altra parte, se il mio fratello è un grande oratore ed io sono incapace di esprimere chiaramente e forbitamente il mio pensiero, questo non intacca la mia essenza, non mi rende qualcosa in meno di lui.

Tornando al Vangelo, mi colpisce che il maestro non rimprovera i discepoli per il loro desiderio di grandezza: siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, siamo fatti per stare al cospetto di Dio; Gesù corregge il tipo di grandezza cercato dai discepoli: non quella diabolica del più grande a scapito degli altri, di colui che si erge sugli altri per dominarli (una grandezza che divide), ma la vera grandezza che è quella di lasciarci conformare a Lui, di affidarsi al Padre con la semplicità e la minorità dei bambini e di gioire di ciò che il Padre compie in noi e nei fratelli. Il Signore ce lo conceda.

fr. Marco

San Francesco e SantaTeresa di Gesù Bambino


 Nel capitolo ottavo della Teologia di Teresa di Lisieux, inserita nella Informatio per il Dottorato della Santa, al paragrafo: La scienza dei Santi (pp. 212-13), si prende lo spunto da uno scritto del neo-Dottore per stabilire un confronto tra i santi: Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino e Teresa di Lisieux.

«Teresa abbina spontaneamente Francesco, il “poverello” d’Assisi, e Tommaso, il grande Dottore, figlio di san Domenico, come rappresentanti di questa scienza divina. Già Dante, nel suo Paradiso (canto XI), aveva stabilito lo stesso paradossale accostamento,facendo pronunciare l’elogio di san Francesco da san Tommaso, e ciò al fine di dimostrare non soltanto il loro accordo, ma più profondamente ancora l’omaggio della scienza di san Tommaso che s’inchina davanti alla scienza ancora più alta di san Francesco. La stessa verità era già stata espressa da san Bonaventura, il grande Dottore francescano, contemporaneo san Tommaso e con lui eminente rappresentante della teologia universitaria. Bonaventura, in effetti, non esita a parlare della “scienza” e della “’teologia” dei Maestri dell’università (cfr. Vita san Francesco, cap. 11 n. 2).
Tutto ciò dimostra come Francesco, il più grande santo del Medio Evo è stato pure riconosciuto come il più grande teologo del Medio Evo. Lo stesso vale per Teresa: Colei che san Pio X aveva definito “la più grande santa dei tempi moderni” non sarà lei pure riconosciuta come la più grande teologa dei tempi moderni?
L’accostamento tra Francesco e Teresa è chiarissimo, tra la povertà di Francesco e la piccolezza di Teresa che sono il più limpido specchio di Gesù e del suo Amore, limpida trasparenza del Vangelo. Il “poverello” e la “piccola santa” sono i testimoni della più alta “ricerca teologica” che non è anzitutto ricerca sul mistero, ma ricerca del Mistero. È così che Francesco e Teresa “riflettono” il mistero di Gesù con il limpido specchio della loro vita. Attraverso Francesco come attraverso Teresa non si vede altro che Gesù, il Vangelo di Gesù, l’Amore di Gesù. Tale è la stessa caratteristica fondamentale della loro santità, della loro influenza sul mondo intero, al di là di ogni frontiera culturale e religiosa. Francesco e Teresa illustrano entrambi il grande paradosso del Vangelo secondo il quale i più piccoli sono i più grandi nel Regno dei Cieli (cfr. Mt 18, 4). La loro suprema grandezza è proporzionale alla loro estrema piccolezza e povertà. Francesco e Teresa hanno fondamentalmente lo stesso modo di interpretare il Vangelo, vivendolo pienamente nella più intima comunione con Gesù. Lungi dall’essere ingenua, una tale interpretazione del Vangelo, nell’amore di Gesù rappresenta il massimo dell’ermeneutica ecclesiale; essa non si oppone per niente allo studio scientifico del testo sacro, poiché Teresa stessa avrebbe voluto conoscere il greco e l’ebraico per approfondire meglio la Sacra Scrittura. Interpretando così il Vangelo nella sua totalità, cioè inseparabilmente nello Spirito e nella lettera, Francesco e Teresa offrono come una “rappresentazione” vivente di Gesù, non tanto esteriore come potrebbero fare gli attori, ma interiore, nello Spirito stesso di Gesù. E’ così che leggendo il Vangelo, Teresa “respira i profumi della vita di Gesù” (Ms C. 30 v°).
Così, per Teresa come per Francesco, è tutta la vita che diventa teologia, inserendosi nel Vangelo, in tal modo che i loro scritti sono un puro riflesso del testo evangelico, di cui assorbono la stessa forma narrativa. È vero per i brevi scritti di Francesco e delle sue prime biografie; è altrettanto vero per gli scritti più numerosi di Teresa, i quali, nell’ambito dei tre Manoscritti, hanno un carattere essenzialmente autobiografico. La teologia di Teresa è una Teologia narrativa. A questo livello non c’è più alcuna opposizione tra oggettività e soggettività. Si potrebbe anche dire che Teresa è più oggettiva che soggettiva. Essa è talmente in Gesù e Gesù è talmente in lei, che essa non può parlare di Gesù senza parlare di se stessa, né parlare dì se stessa senza parlare di Gesù.
Questo paradosso evangelico della piccolezza che costituisce la vera grandezza, della povertà che è la vera ricchezza, si riflette particolarmente nella forma letteraria degli scritti di Teresa. Essa è povera; tuttavia, questa povertà letteraria non deve essere considerata come un difetto, ma come una qualità, come la manifestazione della povertà spirituale, della povertà evangelica di Teresa. Bisogna accettare pienamente la povertà letteraria di Teresa, e allora nel cuore di questa povertà si può scoprire l’infinita ricchezza del suo amore, dell’amore di Gesù che riempie la sua vita.
Secondo l’espressione così appropriata del Pére Marie Eugène de l’Enfant Jésus, gli scritti di Teresa sono “soprassaturi di divino”; in questo essi si avvicinano ai Vangeli: nella loro estrema semplicità e povertà sono grandi testi, e devono essere letti come si devono leggere i grandi testi “’nella loro interezza” (Ch. Péguy). D’altra parte, più si leggono gli scritti di Teresa, più si è impressionati dalla profondità e dalla coerenza che essi rivelano.»
Art. apparso su Apostolato d’Oltremare settembre-dicembre 1998

O alto e glorioso Dio, illumina il cuore mio

 «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé» (Lc 9,51-56)

Oggi, primo giorno del triduo in preparazione alla festa di S. Francesco d’Assisi, il Vangelo ci presenta Gesù che inizia il suo viaggio verso Gerusalemme per compiere la nostra salvezza  e manda messaggeri davanti a sé per invitare alla conversione. Questo invito può essere accolto o rifiutato, ma da esso deriva la realizzazione o il fallimento della nostra vita.

Anche Francesco, ad un certo punto della sua vita prende la ferma decisione di seguire il Signore, di lasciare le vie dettate dal proprio Io per vivere proiettato verso Dio.

Francesco d’Assisi nasce da Pietro di Bernardone, un ricco mercante di stoffe il quale, come ogni padre, nutre sicuramente sogni di grandezza per suo figlio e gli fa insegnare a leggere e scrivere e a far di conto, probabilmente col proposito di avviarlo al suo stesso mestiere di mercante. I biografi ci descrivono il giovane Francesco come ricco, prodigo e in continua ricerca di divertimenti: il “re delle feste” con accanto tanti compagni della Assisi borghese.

Il giovane Francesco è, come i fondo ciascuno di noi, “assetato” di vita: vuole vivere al massimo la sua vita: rifugge tutto ciò che sa di morte e umiliazione e cerca solo ciò che sa di gloria e onore. Le fonti raccontano che faceva l’elemosina ai bisognosi, probabilmente traendone onore e lustro alla sua immagine, ma che aveva un forte ribrezzo per i lebbrosi.

Probabilmente è questo desiderio di vita piena che fa partecipare Francesco alla cacciata dei nobili da Assisi e alla conseguente guerra con la città di Perugia a cui i nobili avevano chiesto aiuto. Gli assisiani persero questa guerra e, nella battaglia di Collestrada, Francesco fu preso prigioniero e tale resterà per circa un anno. Da quel momento in poi il Signore comincia a mettere spine sul suo cammino per renderlo disponibile ad accogliere il Suo progetto d’amore. Francesco è costretto a prendere coscienza della sua fallibilità, della fine della sua fanciullezza: in definitiva, prigioniero e lontano da casa, è costretto a prendere coscienza di essere solo dinanzi alla vita.

Forse anche per reagire a questo vuoto di senso, Francesco decide di partire per la Crociata. Ed è in questo contesto che il Signore interviene di nuovo con il “sogno di Spoleto” che invita Francesco a ritornare sui suoi passi. Siamo ancora nell’ottica della vanità e della gloria, ma il Signore ci incontra proprio nelle strade che siamo soliti percorrere.

Da questo momento comincia per Francesco il periodo della ricerca: un periodo di più intensa preghiera e di confronto con la Scrittura.

È in questo periodo della sua vita che Francesco pronunzia la preghiera che conosciamo come preghiera al crocifisso: «O alto e glorioso Dio, illumina el core mio. Dame fede diricta, speranza certa, carità perfecta, humiltà profonda, senno e cognoscemento che io servi li toi comandamenti. Amen. ».

In questa fase della sua vita Francesco, pur chiedendo le tre virtù teologali, fede speranza e carità, e luce per compiere la volontà del Signore che gli ha parlato nel sogno di Spoleto, è ancora ripiegato su se stesso: il protagonista è ancora il suo “io”. Ciò nonostante, in questa preghiera Francesco  chiede la “conoscenza” per “fare”: non separa mai le due cose. Per lui la conoscenza non può limitarsi ad essere “speculativa”, ma  deve diventare vita e la vita; il “fare”, fa progredire nella conoscenza. Non si può conoscere la volontà di Dio senza farla! E fare la volontà di Dio, quella che attualmente si comprende come tale, aiuta ad approfondirne la conoscenza e a “farla” sempre meglio.

Questa prima fase della conversione dura circa tre anni al termine dei quali Francesco matura la sua decisione: sceglie la volontà di Dio come sua vita e Cristo come modello. Certo la ricerca non è finita: non ha ancora ben chiaro quale sia il progetto d’amore di Dio per lui, ma ha l’intima certezza di essere sulla strada giusta.

In questa fase Francesco è pieno di gioia e si dà a compiere immediatamente quello che comprende della volontà di Dio: è un periodo di grande attività dove è l’azione stessa che aiuta Francesco discernere la volontà di Dio. Questa attività, però, è intervallata da momenti di ricerca della solitudine e dell’intimità col Signore: sono quei momenti in cui Francesco trova rifugio in una grotta per rientrare in se stesso e mettersi dinanzi al Signore della sua vita.

Questo è anche il periodo in cui Francesco scopre “l’altro” come diverso da se; il periodo in cui si interroga sul “Totalmente Altro”, l’“alto e glorioso Dio” che tanto è percepito distante: il Signore “le cui vie non sono le nostre vie e i cui pensieri non sono i nostri pensieri”. È durante questo periodo che Francesco è scoperto da un suo amico a trascorrere notti insonni a chiedere: «Chi sei Tu? E Chi sono io?».

Finora ho parlato della prima fase della conversione di Francesco. Se chiedessimo, però, a Francesco di raccontarci la sua conversione, egli ci risponderebbe con le parole del testamento: «Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia».

L’abbraccio con il lebbroso è interpretato da Francesco stesso come il punto culmine della sua esperienza di conversione. È il momento della svolta decisiva: non cerca più onori, non ha più bisogno di sentirsi eccezionale; adesso sperimenta il morire per amore. Abbracciare il lebbroso significa, infatti, mettere a rischio la propria vita fisica e la certezza della morte sociale.

È in questo stesso periodo che Francesco sete la voce del Crocifisso di S. Damiano che lo invita a restaurare la Chiesa. Mentre a Spoleto la voce lo attirava a se con la promessa di onori, adesso Francesco sente la voce di un Crocifisso che gli affida un compito che alle sue orecchie suona umile. Ma Francesco è ormai cambiato e con naturalezza interpreta il compito affidatogli nella sua più umile concretezza: si mette a fare il muratore.

L’ultimo passo di questo processo di conversione si avrà con la riconsegna delle vesti al padre: Francesco viene condotto da suo padre davanti al vescovo perché questi lo faccia rinsavire. È qui che Francesco rinuncia definitivamente alla sua vita passata: riconsegnando le vesti al padre, rimane nudo come un bambino. È la sua rinascita spirituale in cui nudo, cioè senza difesa e senza un’immagine da difendere, si affida al Padre Celeste attraverso la mediazione della Chiesa.