«Oggi ho allontanato
da voi l’infamia d’Egitto». (Gs 5,9a.10-12)
«… se uno è in Cristo,
è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate …» (2Cor 5, 17-21)
« … questo mio
figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. …»
(Lc 15, 1-3.11-32)
La Parola di Dio della quarta domenica di quaresima, domenica in “Laetare” – “Rallegrati” - (dalla
prima parola dell’antifona d’ingresso), ci presenta il motivo per rallegrarsi:
l’amore misericordioso del Padre.
Sia la prima lettura che il Vangelo, infatti, ci presentano
il tema della “Terra”, della “Casa” in cui il Padre ci conduce per saziarci del
suo Amore. Un Amore capace di lasciarsi alle spalle i nostri peccati per farci
nuove creature; un Amore capace, di liberarci delle nostre schiavitù.
All’inizio della pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato,
l’evangelista Luca mette in evidenza il motivo per cui Gesù racconta la
parabola: scribi e farisei mormorano perché Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro.
Gli scribi e i farisei, lo sappiamo, sono i più attenti e
scrupolosi osservanti della legge. Sono persone che hanno comportamenti
irreprensibili. Spesso, tuttavia, incorrono nei rimproveri di Gesù perché il
loro cuore non è in comunione con il cuore del Padre, anzi spesso è lontano da
Lui. Per questo motivo oggi il Maestro ci presenta il Padre e lo fa mostrandoci
come si comporta con i due figli della parabola che sono “esempi” delle due
grandi categorie in cui potremmo dividere coloro che non conoscono il Padre: “il
ribelle” e “il servo”.
Il figlio minore, il ribelle, pur riconoscendosi figlio, non
conosce bene suo padre: è convinto che gli impedirà di essere felice, che non
lo farà mai realizzare. Per questo cerca la felicità e la realizzazione, “in un
paese lontano“. È immagine di tutti coloro i quali vedono nella Chiesa, nei
comandamenti, ma prima ancora in Dio, un ostacolo alla loro realizzazione; di
tutti coloro che sono convinti che Dio proibisca loro, per puro capriccio, cose
belle che li renderanno felici.
Il mondo di oggi è pieno di “figli minori” che vogliono fare a meno del Padre;
di coloro che, con Nietzsche, cercano il paradiso “dietro il cimitero di Dio”.
“Nessuno gli dava
nulla”. Come il figlio della parabola, però, i ribelli di tutti i tempi
fanno l’esperienza del bisogno, un bisogno esistenziale che niente può colmare.
Fanno l’amara esperienza di avere “sperperato le sostanze“, di avere sprecato
la vita. Beati coloro che si rendono conto di essere nel bisogno e che trovano
la forza di tornare alla casa del Padre! Il figlio minore della parabola trova
questa forza e, anche se per puro calcolo (“almeno i servi di mio padre hanno
da mangiare”), torna alla casa paterna.
… lo vide, ebbe
compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Non
conoscendo suo padre, però, costui non può che rimanere spiazzato dall’accoglienza
che riceve: il Padre, che lui vedeva come il tiranno oppressore, lo travolge
con il suo amore “viscerale” (quasi materno: il verbo greco usato per
descrivere la commozione ha a che fare con le viscere materne). Colui che
pensava di doversi piegare a fare il salariato, viene invece dal Padre
reintegrato nuovamente nella dignità filiale, viene reso “nuova creatura”.
«Ecco, io ti servo da tanti anni …» L’altra
figura esemplare della parabola è il figlio maggiore, “il servo”, colui che,
pur restando nella casa paterna, si considera un salariato. Costui considera
suo padre solo un “padrone”: è il proprietario di tutto, colui che lo
ricompensa per il lavoro che svolge. La figura del figlio maggiore interviene solo
con il ritorno e l’accoglienza del ribelle: un fatto inaudito per la sua
mentalità di salariato. Ha vissuto nella casa del padre secondo la logica del
“do affinché tu mi dia”. Secondo questa logica, ad un lavoro ben svolto spetta
il premio e ad un atto di ribellione un castigo. L’accoglienza del ribelle lo
spiazza, lo scandalizza, lo riempie di rabbia.
Da notare che anche lui è “fuori casa” e il Padre, come per
minore, deve andargli incontro. Dal dialogo emerge la mentalità “servile” di
quest’uomo: “Ecco, io ti servo da tanti
anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un
capretto per far festa con i miei amici.”.
La sua è, purtroppo, una mentalità riscontrabile anche all’interno della Chiesa
in coloro che vivono la loro vita religiosa solo in vista del premio, del
“salario”. Il salario desiderato, oltretutto, è a volte molto terreno: salute e
benessere. Se “il Dio padrone” non mi garantisce questo, perché servirlo? Chi
la pensa così, inoltre, tende a ergersi su un piedistallo da cui facilmente
formula condanne. Non a caso nel dialogo il figlio maggiore parla del minore
dicendo “questo tuo figlio”: ne prende le distanze. Il Padre è costretto a dare
la stessa spiegazione che ha dato ai servi (tale si considera il maggiore), ma
stavolta dicendo “questo tuo fratello”: gli ricorda la relazione incancellabile
che c’è tra loro.
Riflettendo su questa parabola dobbiamo fare attenzione al
rischio di identificarci con uno solo di questi due figli. Ciò che sarebbe
auspicabile è che, dopo avere esaminato il nostro cuore, non ci riconoscessimo
in nessuno dei due; entrambi, infatti hanno un’immagine distorta del Padre.
Credo, però, che, esaminandosi bene, ciascuno di noi possa scoprire in sé sia
gli atteggiamenti del ribelle, che pensa di sapere meglio del Padre ciò che è
bene per lui; sia gli atteggiamenti del servo giustizialista, che obbedisce per
ricevere un salario e non esita a condannare (prendendone le distanze) coloro
che sbagliano e per i quali invoca il castigo.
Dobbiamo ricordare che il nostro modello non deve essere
nessuno dei due, ma Gesù Cristo, il Figlio amato nel quale anche noi siamo
figli. Proprio per renderci conformi al modello, Gesù stesso è venuto a
riconciliarci con il Padre, a farci nuove creature. A noi è richiesta solo
l’accoglienza di tale Grazia. Per questo oggi San Paolo ci esorta: “Vi supplichiamo in nome di Cristo:
lasciatevi riconciliare con Dio”.
Fr. Marco
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