venerdì 27 giugno 2025

Su questa pietra edificherò la mia Chiesa

«In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. … Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva». (At 12,1-11)

«Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.» (2Tm 4,6-8.17-18)

«Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. “… E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.» (Mt 16,13-19)

La Parola di Dio di questa domenica, in cui celebriamo la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, ci mette dinanzi il fondamento della Chiesa: la fede in Gesù Cristo figlio di Dio e l’amore per Lui (il vangelo della vigilia). Solo perché fondati sulla roccia che è Cristo, gli apostoli possono guidare, “pascere” e confermare nella fede i fratelli. È sulla roccia dell’amore per Cristo e della fiducia in Lui, quindi, che si fonda la Chiesa contro cui le potenze degli inferi non prevarranno.

La prima lettura di oggi si apre con la persecuzione dei capi della Chiesa di Gerusalemme: l’uccisione di Giacomo, che sembra suscitare il consenso della “opinione pubblica” (era gradito ai Giudei), e l’arresto di Pietro. Ieri come oggi, i potenti del mondo cercano il consenso più della verità; sono interessati a “pascere se stessi”, mantenendo posizioni di potere, più che a guidare i fratelli a ciò che è vero e buono.

Il Signore, però, ci ha garantito la Sua vittoria finale a patto che, combattendo la buona battaglia, manteniamo la fede, cioè rimaniamo in comunione d’amore con Lui e Lo riconosciamo, coi fatti e nella verità, Signore della nostra vita.

Non è raro, tuttavia, che il nostro amore e la nostra fede vacillino, che, spinti dalla “logica del mondo” e dalla ricerca di consenso, cominciamo a seguire un “Dio secondo me”; anche contro l’insegnamento dei pastori che il Signore ci ha donato assicurando loro, per ciò che riguarda questioni di fede e di morale, l’assistenza del Suo Spirito. Come Pietro anche noi vogliamo indicare la via al Maestro (Mt 16,22). E come Pietro anche noi ci sentiamo rispondere «Va’ dietro a me … tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16,23).

Penso che, come Pietro, tutti nella Chiesa, pastori e fedeli, abbiamo fatto almeno una volta nella vita (e magari fosse solo una volta!), l’esperienza della debolezza del nostro amore e della nostra fede al momento della prova: quante volte anche noi come Pietro abbiamo detto, magari coi fatti e non a parole, «Non lo conosco!». Anche a noi oggi il Signore chiede di amarlo così come siamo, dandoGli tutta la nostra debolezza e confidando non più sulle nostre forze, ma su di Lui e sulla Sua fedeltà: «Tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene» (Gv. 21,17 il Vangelo della vigilia).

Seguendo allora il nostro Signore tramite i pastori che ci ha donato, smettiamo di fondarci su noi stessi, sulle nostre forze, sui nostri pensieri, sul consenso di chi ci sta attorno; fondiamo la nostra certezza su Cristo e sul Suo amore: vedremo meraviglie nella nostra vita.

Fra Marco

venerdì 20 giugno 2025

Questo è il mio corpo che è per voi

«In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo» (Gen 14,18-20)

​«Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”». (1Cor 11,23-26)

​«In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. … Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci …” … Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.» (Lc 9,11-17)

Questa domenica, solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, la liturgia della Parola ci presenta, Gesù Buon Pastore e Sacerdote, Vittima ed Altare.

Nella prima lettura, infatti, Melchìsedek, “re di Salem” (re di pace) che offre il pane ed il vino, è un typos, una figura profetica, di Gesù Vero e Sommo sacerdote che offre l’unico e definitivo sacrificio della Nuova ed eterna Alleanza: il Suo Corpo e il Suo Sangue in cui il pane e il vino vengono transustanziati (II lettura).

Oltre al “tema sacerdotale”, come dicevo, la liturgia di oggi ci presenta Gesù anche come il Buon Pastore che si prende cura dei suoi, li guida e li nutre. È così infatti che lo invochiamo nella sequenza: «Buon pastore, vero pane, / o Gesù, pietà di noi: / nutrici e difendici, / portaci ai beni eterni / nella terra dei viventi.». 

Il Vangelo insiste su questo tema: si apre con la figura di Gesù che insegna alle folle indicando loro il Regno dei Cieli: l’unica cosa necessaria per sperimentare la Pienezza della Vita. La pericope evangelica, inoltre, ci mostra Gesù intento a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il Medico viene per gli ammalati, Gesù è venuto a cercare i peccatori per condurli alla salvezza.

La Pagina di Vangelo, inoltre, nel contesto del “ministero pastorale” di Gesù, ci presenta la moltiplicazione dei pani come un altro modo in cui il Buon Pastore si prende cura di coloro che hanno messo da parte tutto il resto per seguirlo. L’evangelista Luca, ben compreso dalla liturgia odierna, intende presentarci in questo racconto un’anticipazione dell’istituzione dell’Eucarestia nell’Ultima Cena.

Due cose mi colpiscono immediatamente contemplando la scena evangelica della moltiplicazione dei pani e dei pesci: una riguarda le condizioni per partecipare al banchetto, l’altra riguarda i discepoli.

La prima cosa che noto è che l’unica condizione prevista per partecipare a questo banchetto è l’avere seguito Gesù, l’averlo ascoltato ed avere messo Lui al di sopra e prima di tutti gli altri bisogni. È questa, infatti, l’unica cosa veramente necessaria per potersi accostare degnamente al Banchetto Eucaristico: avere messo Gesù al centro della nostra vita, l’impegnarsi nell’ascolto e nella conversione (e non è poco). In quest’ottica va compreso anche il Sacramento della Riconciliazione: non va celebrato per “arrifriscarisi l’anima” per potere fare la comunione (cinque minuti prima della Messa, magari senza un adeguato esame di coscienza e quindi senza pentimento e con la convinzione di non avere peccati); ma va celebrato per chiedere e accogliere la Grazia della propria conversione. 

La seconda cosa che mi colpisce, è la volontà da parte dei discepoli di deresponsabilizzarsi nei confronti della folla: «congedali … vadano …». A questi discepoli Gesù risponde: «Voi stessi date loro da mangiare». Penso sia da  sottolineare come questo comando apra ad una “dimensione eucaristica” della vita del cristiano e soprattutto del sacerdozio ministeriale: il farsi “pane spezzato”, il dare da “mangiare” noi stessi. Oggi però voglio sottolineare particolarmente come questo comando coinvolga i discepoli più vicini a Gesù e li inviti a prendersi cura dei loro fratelli più bisognosi: troppo spesso, anche tra i cristiani, si è sempre pronti a “puntare il dito”, a richiamare gli altri alle loro responsabilità, ad accusare “chi dovrebbe fare” cercando, in tal modo, di deresponsabilizzarsi. Certo, quello della denuncia e del richiamo al dovere sociale delle Istituzioni è un ruolo importante dei discepoli, ma non può essere l’unico. Il Beato Pino Puglisi, che ha toccato da vicino il bisogno dei suoi fratelli e sorelle, è famoso per la frase «Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto». Unendoci a Cristo, allora, impariamo anche noi a farci “pane spezzato” per i fratelli. Prendiamoci cura gli uni degli altri e camminiamo insieme verso quella Vita Piena ed Eterna che Solo Gesù ci può donare.

Fr. Marco

sabato 14 giugno 2025

Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità

«Così parla la Sapienza di Dio: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra.» (Pr 8,22-31)

«Fratelli, … ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. » (Rm 5,1-5)

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, … Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». (Gv 16,12-15)

Nella solennità di Pentecoste, domenica scorsa, abbiamo celebrato il memoriale del dono dello Spirito Santo che ci inserisce nella circolarità d’Amore all’interno della Santissima Trinità. Questa domenica la Chiesa ci fa contemplare proprio questo Mistero centrale della nostra fede: l’unico Dio, Creatore del cielo e della terra, è Uno e Trino. Un solo Dio in tre Persone: il Padre (Amante) che dall’eternità genera il Figlio (Amato) donandosi totalmente a Lui e tutto ricevendo da Lui nello Spirito Santo (Amore).

«Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato …» (Gv 17,6) La piena rivelazione di Dio agli uomini è elemento fondamentale dell’annuncio salvifico del nostro Signore Gesù Cristo. Il Figlio eterno del Padre, Verbo fatto uomo,  ci ha rivelato l’eterna processione d’amore in cui le tre Persone divine hanno tutto in comune tranne la loro identità personale (l’essere rispettivamente Padre, Figlio e Spirito). Il nostro Dio è, quindi, già al suo interno, relazione d’Amore. Ciò ha una grande importanza per noi.

Il fatto che il Dio Vivo e Vero sia Uno e Trino, Eterna relazione d’Amore, infatti, significa che l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è per costituzione e già alla sua origine relazione: è fatto per la relazione ed è felice/realizzato solo nella relazione. L’uomo è immagine del Dio trinitario e come tale si realizza solo quando permette all’amore-relazione che è in lui di manifestarsi. 

Citando Padre Alberto Neglia (O. Carm.), mio docente di Spiritualità: «Come il Padre è nell’amore sorgività pura, così Egli dona alla creatura umana di essere nel tempo sorgente di amore. Questo significa che l’uomo è costitutivamente capace di amare.  Amato dall’eternità egli è fatto per amare. … amando, l’uomo riproduce in qualche modo la creatività del Padre. L’amore fa sbocciare la vita. L’uomo è ancora immagine del Dio Trinitario perché è stato creato per mezzo del Figlio, in vista di Lui ed in Lui (Col  1,15-17). Come in forza dell’accoglienza pura … il Figlio è immagine perfetta del Padre, così l’uomo è immagine di “Dio Figlio”, in quanto si fa  recettività, cavità capace di accogliere, fino alla trasparenza, l’amore eternamente amante. Nel Figlio amato l’uomo è costitutivamente oggetto di amore, apertura radicale, “uditore della Parola”. Chi non riceve l’amore, non esisterà mai veramente: la povertà che accoglie è la condizione dell’amore … Chi non sa accogliere, non sa dire grazie, non sarà mai veramente e pienamente umano. … Nel più profondo del suo essere creaturale … l’uomo ha bisogno dell’altro. … Lo Spirito Santo imprime nella creatura umana un certo riflesso di quello che Egli è nel mistero di Dio. Come fra l’Amante e l’Amato Egli è l’eterno legame di unità ed insieme Colui che fonda l’apertura infinita del loro amore, lo Spirito è la fantasia di Dio. L’uomo creato ad immagine di “Dio Spirito” è unità vivente di questo duplice movimento dell’amore: amando, egli si fa amare; lasciandosi amare, egli ama. … Lo Spirito, presente nell’uomo, lo spinge continuamente a spezzare il cerchio dell’amante e dell’amato, a fuggire la cattura dell’esclusività, per andare verso il bisogno di amore dell’altro, di tutti gli altri.»

Il cristiano conformato a Cristo e santificato dallo Spirito, porta quindi in sé il mistero della Trinità d’Amore e lo manifesta al mondo. Contemplando il suo Amore Trinitario e ciò che esso è capace di compiere in chi lo accoglie, il Signore ci conceda di realizzare pienamente la nostra vocazione all’amore per potere giungere alla Vita piena ed eterna per la quale siamo stati pensati fin dall’eternità.

Fr. Marco.

 

sabato 7 giugno 2025

Se uno mi ama, ... il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui

 «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. » (At 2, 1-11)

« … voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,8-17)

«Se mi amate osserverete i miei comandamenti … il Paràclito, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Gv 14, 15-16. 23-26)

Con la solennità di Pentecoste giunge al suo culmine il Tempo Pasquale: quei cinquanta giorni che per la liturgia sono come un grande giorno in cui celebriamo il memoriale della nostra redenzione. Il nuovo patto, la Nuova Alleanza, profetizzata da Ger 31, 31-34, giunge a pienezza: la Legge Nuova di Dio è effusa nei nostri cuori rendendoci capaci di osservarla.

Nella prima lettura della Messa del giorno, tratta dagli Atti degli Apostoli, l’evangelista Luca ci racconta l’effusione dello Spirito sulla Chiesa riunita nel cenacolo come un’“Anti-Babele” (Cf. Gen 11). Si realizza il miracolo della comunione d’amore che non è confusione.

«Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (Gn 11,1) Il racconto della torre di Babele nel libro della Genesi descrive quasi una globalizzazione ante litteram in cui tutti gli uomini sono assoggettati ad un “pensiero unico”. Il “peccato di Babele” è volersi “fare un nome” senza Dio, anzi piuttosto contro Dio (una città e una torre che tocchi il Cielo). Una sorta di “regno degli uomini” che si oppone al Regno di Dio. Eliminato Dio dalle loro esistenze, sradicati della fonte della Vita, gli uomini cadono in una confusione che non è comunione; dimenticano chi sono e quindi non sono più in grado di comprendersi.

Con l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste, la Legge Nuova effusa nei cuori, Dio torna ad occupare il posto centrale nell’esistenza dell’Umanità Nuova: gli uomini tornano a comprendersi e per l’umanità è possibile tornare a vivere la comunione immagine della Comunione Trinitaria, quella che il Venerabile Mons. Tonino Bello chiama “convivialità delle differenze”.

«Ciascuno li udiva parlare nella propria lingua». Le differenze non sono annullate. Ciascuno mantiene propria identità, ma questo non è ostacolo alla comunione. Ciò che permette la comunione è l’Amore, l’avere accolto l’Amore di Dio nella propria vita e, alla luce di questo, amare il proprio prossimo così com’è senza annullare la propria identità. L’amore, infatti non annulla le differenze. Al contrario le esalta perché ognuno è amato per ciò che è, per le sue peculiarità proprie. Ecco perché il primo e più alto dono pasquale è la Pace: la piena riconciliazione con Dio che porta alla riconciliazione tra gli uomini.

Lo Spirito è, quindi, il compimento della Nuova Alleanza. È Colui che rende possibile vivere secondo la Legge di Dio. Nel Vangelo Gesù afferma: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti». Solo se abbiamo in noi l’Amore, infatti, possiamo osservare i comandamenti. È lo Spirito, l’Amore di Dio effuso nei nostri cuori, che ci rende capaci di osservare i comandamenti.

Nella seconda lettura, poi, San Paolo ci dice che lo Spirito effuso nei nostri cuori ci libera da ogni paura e ci rende “figli adottivi”; non schiavi, ma figli capaci di rivolgerci a Dio chiamandolo “Papà”.

Lo Spirito, infatti, lo sappiamo bene, è la Terza Persona della Santissima Trinità; è “Signore e da la vita”, come diciamo nel Credo. Non è “un’energia”, ma una Persona divina, uno col Padre e il Figlio. Ricevendo lo Spirito Santo entriamo nel mistero della SS. Trinità. Mi piace la “descrizione” che della SS. Trinità fa S. Agostino: l’Amante (il Padre), l’Amato (il Figlio) e l’Amore (lo Spirito). Lo Spirito è, quindi, l’Amore tra Padre e Figlio, la reciproca e continua donazione di sé che il Padre fa al Figlio e il Figlio al Padre. Oggi, nella Pentecoste, noi celebriamo il nostro inserimento in questa circolarità d’amore.

Comprendiamo, allora, come diventa possibile ciò che la Parola di Dio ci ha detto oggi: l’Amore che è Dio è effuso nei nostri cuori! Non esistono più barriere insormontabili: nulla può separare coloro che si amano; la comprensione è possibile perché si vuole comprendere, perché si ascolta davvero; spinti dall’Amore, non sentiremo come gravosa l’osservanza dei comandamenti, ma come figli amati e amanti non desidereremo altro che fare felice il Padre realizzando pienamente la nostra vita.

Fratelli e sorelle, tutto questo è già presente, lo Spirito che il Padre ha effuso nei nostri cuori per l’opera del Figlio, attende solo che noi diamo la nostra disponibilità perché la nostra vita possa giungere alla pienezza.

Fr. Marco

sabato 31 maggio 2025

Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.

«Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”» (At 1,1-11)

«… abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.» (Eb 9,24-28;10,19-23)

«… alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.» (Lc 24,46-53)

​​Ogni anno nella festa dell’ Ascensione contempliamo il Signore Gesù Cristo che porta nel seno del Padre la nostra umanità glorificata. Gesù, il Verbo eterno del Padre, che incarnato nel grembo della Vergine Maria ha assunto la nostra natura umana ed è nato a Betlemme; lui che ha vissuto in mezzo a noi condividendo le nostre miserie (tranne il peccato); che ha offerto la sua vita sulla croce per amore, adesso, dopo la resurrezione e dopo avere istruito i suoi, ascende al Cielo.

«Abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio» L’autore della lettera agli Ebrei nella seconda lettura di oggi ci invita ad avere fiducia: abbiamo “nella casa di Dio” un Sommo Sacerdote che ha sperimentato e quindi conosce e compatisce le nostre miserie e i nostri condizionamenti. Siamo invitati, quindi, ad avere Fede, a vivere con “il Cuore puro”, a testimoniare la nostra Speranza.

La Fede, infatti, si manifesta in una vita “con il Cuore sincero e purificato”, cioè non “contaminato”, “unificato”, non diviso tra vari “amori”, ma tutto rivolto a Dio e, quindi, ai fratelli; una vita all’insegna della Carità, animata dalla Speranza certa che il nostro destino è nei cieli dove raggiungeremo il nostro Signore Gesù Cristo. La Speranza cristiana fondata sulla Fede non è la speranza aleatoria di cui solitamente si  afferma: “Chi di speranza vive, disperato muore”; non è una speranza incerta e senza fondamento, la speranza degli illusi. La Speranza Cristiana è la Speranza Certa (come la chiama S. Francesco) di chi sa che è degno di fede colui che ha promesso: Cristo che è la Via la Verità e la Vita.

«Ordinò loro … di attendere l’adempimento della promessa del Padre». La Parola di Dio di oggi sottolinea l’atteggiamento dell’attesa che sempre caratterizza la Speranza: attesa dell’adempimento della Promessa, del dono dello Spirito; l’attesa del ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi quando il Signore «verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Gli angeli ricordano ai discepoli che la loro deve essere un’attesa operosa. La virtù della Speranza, infatti, non è ciò che Marx chiamava “l’oppio dei popoli”, ma ci rimanda ad un impegno concreto perché questo mondo si trasformi nel Regno dei Cieli.

«Mentre li benediceva, si staccò da loro …» Il brano del Vangelo, infine, ci fa conoscere che tutta la nostra vita, se lo vogliamo, è sotto la benedizione del Nostro Signore: Gesù entra in Cielo, nell’eternità di Dio, “mentre” benedice la Sua Chiesa, non “dopo averli benedetti”: la Sua benedizione, quindi, non è conclusa. La benedizione di Cristo continua a riversarsi sui suoi discepoli disposti a “prostrarsi”, a riconoscerlo Signore della loro vita.

Il Vangelo di Luca si conclude lì dove era iniziato (Cfr Lc 1,5ss): nel Tempio e in un contesto di lode, con la sottolineatura della grande gioia che pervade gli apostoli. Una gioia dovuta sicuramente all’esperienza misteriosa della costante presenza del Signore: «l’Ascensione – infatti – non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi.» (Papa Francesco, Udienza Generale, Aprile 2013)

Tornando alla nostra quotidianità, allora, viviamo la nostra vita tenendo sempre presente che  la nostra meta è il Cielo; confidiamo nella Benedizione eterna del nostro Signore, perché il mondo attorno a noi, anche grazie alla nostra testimonianza, si trasformi nel Regno di Dio.

Fr. Marco

sabato 24 maggio 2025

Vi lascio la pace, vi do la mia pace

«Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. … È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie» (At 15,1-2.22-29)

«La città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. … In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,10-14.22-23)

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. … il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.» (Gv 14,23-29)

Avvicinandosi la solennità della Pentecoste, in questa VI domenica di Pasqua, la Parola di Dio ci invita a cercare ciò che è essenziale nella nostra vita e a non lasciarci prendere da paura e turbamento. Lo Spirito Santo, l’Amore che è Dio, sarà riversato nei nostri cuori e ci insegnerà ogni cosa: ciò che è essenziale, ciò che è importante. Il “di più”, ciò che è motivo di paura e turbamento, non viene dall’Amore. Dove c’è Amore, infatti, non c’è paura e turbamento.

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola.» Oggi il Signore ci dona un criterio per scoprire se veramente lo amiamo: osservare la Parola, fidarci di Lui e quindi fare ciò che ci chiede. È questo ciò che conta. Anche a noi può capitare l’esperienza raccontata nella prima lettura: “falsi pastori” che vengono a sconvolgere i nostri animi imponendoci pesi e comportamenti gravosi o chiedendoci l’adesione a questo o quel movimento quasi che la nostra salvezza dipenda da essi.

«È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie». Le parole del primo concilio di Gerusalemme, riportate nella prima lettura, ci invitano a tornare a ciò che è necessario, all’essenziale, e a non lasciarci opprimere da obblighi e gravami che se da una parte rendono la nostra vita più pesante, dall’altra ci fanno sentire “a posto” e ci distolgono da ciò che realmente conta; un atteggiamento spesso rimproverato da Gesù: «Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l'amore di Dio.» (Lc 11,42)

Nella pagina evangelica di questa domenica, preparando i discepoli alla sua ascensione al Cielo, il Maestro ci presenta ciò che veramente è necessario nella vita dei credenti: amarLo, ascoltare la Sua Parola e vivere la comunione con Lui. Tutto il resto può anche avere il suo posto, purché non sia fonte di turbamento e paura, chiaro sintomo che non viene da Dio.

«… noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.» Questo è ciò che avverrà quando, accostandoci alla Comunione, riceveremo in noi il Signore vivo e vero, inseparabile dal Padre e dallo Spirito Santo. È anche ciò che avviene ogniqualvolta accogliamo nel nostro cuore lo Spirito Santo e ci lasciamo istruire da Lui su come comportarci.

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.» La presenza in noi del Signore è fonte di una Pace che il mondo non conosce, della Vera Pace che è il dono pasquale per eccellenza. Una pace che non è solo assenza di conflitto, ma vera riconciliazione. Questa Pace è il perdono del Padre, la comunione con Lui, si diffonde anche nelle nostre relazioni. La Pace di Cristo, però non è neanche assenza di tribolazioni. È, invece, forza nelle tribolazioni, consapevolezza che Cristo è più forte del mondo con le sue tribolazioni e che queste, quindi, non potranno prevalere.

Osserviamo la Parola di Cristo, cerchiamo l’amore di Lui al di sopra di tutto, accogliamo la Sua adorabile presenza nella nostra vita. Sperimenteremo la vera Pace e saremo suoi testimoni nel mondo.

Fr. Marco

sabato 17 maggio 2025

Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri

 «Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. » (At 14, 21b-27)

​«E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” » (Ap 21,1-5)

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. » (Gv 13, 31-33.34-35)

La liturgia della Parola della quinta domenica di pasqua anno C, è caratterizzata dalla tematica della “novità”: il Signore fa cose nuove, ci dà un comandamento nuovo, ci rende nuovi. L’aggettivo “nuovo” si oppone a “vecchio”, “obsoleto”, aggettivi che identificano qualcosa che ormai non è più efficace. Nuovo è, allora, qualcosa di efficace, migliore. L’aggettivo “nuovo”, inoltre, ci apre alla speranza, accende le nostre attese: da qui la gioia che accompagna l’inizio di un nuovo anno.

«Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Nella seconda lettura abbiamo sentito che Signore fa cose nuove, inedite. Non a caso il “comandamento nuovo” ci viene consegnato nell’ultima Cena, dopo che Gesù avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (cf. Gv 13, 1); dopo che Giuda è uscito nella notte per compiere gli ultimi atti che porteranno Gesù alla donazione totale di sé sulla croce.

«Vi do un comandamento nuovo» I discepoli conoscevano sicuramente il comandamento dell’amore espresso nell’Antico Testamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev. 19,18). Gesù stesso nel Vangelo lo presenta, insieme all’amore per Dio, come compendio di tutta la legge (Cfr. Mt 22,37-39). Amare il prossimo come se stessi è già arduo: sono chiamato a fare al prossimo ciò che vorrei fosse fatto a me: come vorrei essere soccorso nel bisogno, così devo soccorrere il fratello; come vorrei essere accolto, così devo accogliere il fratello; come voglio essere perdonato quando sbaglio, così devo perdonare il fratello. Il comandamento che ci dà oggi Gesù, però, è “nuovo” perché supera l’antico: parametro di confronto non è più l’amore per se stessi, ma l’amore che Gesù ci ha mostrato in tutta la sua vita di donazione che si conclude con l’estrema donazione sulla Croce. L’amore per se stessi non è più il limite all’amore per il fratello: Gesù ci ha donato un amore capace di espropriarsi, di dimenticarsi di se, di donarsi totalmente e gratuitamente.

«Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». La novità del comandamento, tuttavia, non è solo nella formulazione, ma anche nella capacità nuova che Gesù ci dà. Il “come” che leggiamo nel Vangelo, infatti, ha sicuramente il significato di avverbio di modo: «Allo stesso modo in cui io ho amato voi …»; tuttavia il “come” ha anche il valore di congiunzione causale: «Siccome (poiché) io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri». Perché possiamo Amare come Gesù ci Ama, è necessario accogliere il Suo amore, credere nel Suo Amore, lasciare che questo Amore ci raggiunga nei sacramenti e non opporre resistenze alle mozioni dello Spirito.

Per l’uomo “carnale”, l’uomo vecchio non vivificato dallo Spirito e non innestato nella morte e resurrezione di Cristo, è già arduo amare il prossimo come se stesso; tanto più non sarà capace di amare come Gesù, espropriandosi, facendosi pane spezzato. L’uomo nuovo, invece, l’uomo “spirituale” morto e risorto con Cristo che ha ricevuto lo Spirito di Dio, costui trova in sé una forza sconosciuta che gli permette di amare come Gesù ci ama. Per questo al capitolo 15 del Vangelo di Giovanni il Maestro ci esorta: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Innestati in Cristo con il Battesimo, abbiamo in noi lo Spirito Santo, l’Amore che è Dio, che ci rende capaci di Amare. Spesso, però, questa capacità è sopita, come un seme gettato che non può portare frutto senza le condizioni essenziali al suo sviluppo.

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» Dalla nostra disponibilità ad accogliere la Vita nuova in Cristo e a vivere il comandamento nuovo dell’Amore, dipende non solo la nostra credibilità, ma anche il nostro discepolato: solo amandoci gli uni gli altri come Gesù ci ama possiamo dirci ed essere riconosciuti suoi discepoli. Solo accogliendo realmente Gesù come nostro Maestro e Signore potremo sperimentare la Vita piena ed eterna che Egli ci ha regalato.

Come fare a essere uomini e donne “nuovi” capaci di vivere il comandamento nuovo? La prima cosa è lasciarci Amare e credere nell’Amore di Gesù fidandoci di Lui. Ritengo possa esserci d’aiuto l’esempio di San Francesco d’Assisi. Il Serafico Padre, infatti, si lascia amare da Gesù, crede veramente nel Suo Amore e lo accoglie come maestro; si pone dinanzi il Vangelo in atteggiamento di estrema obbedienza: compie immediatamente ciò che comprende e, facendo, comprende sempre meglio. La stessa cosa vale per il comandamento dell’Amore, per la vita nuova presente in noi: nutrendoci dei sacramenti, segni efficaci dell’Amore di Dio per noi, amiamo come meglio possiamo, amiamo nella misura in cui siamo capaci; ciò ci trasformerà, “dilaterà” la nostra capacità di amare, ci farà sempre più nuovi. Dicendolo con S. Agostino: «È questo amore che ci rinnova, rendendoci uomini nuovi, eredi del Testamento nuovo, cantori del cantico nuovo». Solo così saremo riconoscibili come discepoli del Signore e il nostro annuncio sarà credibile.

Permettetemi, prima di concludere, di invitarvi a pregare per Papa Leone XIV che oggi inaugura solennemente il suo pontificato. Il Signore lo custodisca sempre nel Suo Amore perché possa essere testimone credibile della Resurrezione di Cristo e convertire il mondo.

Fr. Marco

venerdì 9 maggio 2025

Le mie pecore ascoltano la mia voce

 «Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani.» (At 13,14.43-52)

«… Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7, 9.14b-17).

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna … » (Gv 10, 27-30).

​Questa domenica, quarta di Pasqua, è detta domenica del Buon Pastore perché la pagina evangelica ci presenta Gesù come il Pastore che conosce e ama le sue pecore e dà loro la vita eterna. Nei versetti precedenti a quelli proclamati nella liturgia odierna (Gv 10 12-13) Gesù fa una chiara distinzione tra se stesso, il Pastore che è dà la vita per le sue pecore, e i mercenari che vogliono solo trarre un profitto per loro stessi e scappano appena vedono arrivare il lupo.

«Io le conosco». Trovo consolante questa affermazione: il Signore della Vita ci conosce, singolarmente, uno per uno, e ci ama. Ci garantisce la vita eterna: la nostra vita non sarà perduta. Tutto ciò, però, a condizione di essere Sue pecore, cioè di riconoscere e ascoltare la Sua voce e seguire il nostro Pastore.

«Le mie pecore ascoltano la mia voce» Ciò che ci identifica come appartenenti a Lui, infatti, è l’ascolto della Sua Voce, della Sua Parola, e il fatto di seguirlo. Quanti appartengono a Gesù, seguono Lui e obbediscono alla Sua Parola vivendo nella logica del Vangelo e da Lui ottengono Vita. L’ascolto della Parola, infatti,  insieme al nutrirsi della Sua Carne e del Suo Sangue (Cfr. Gv 6, 52-59), sono esigenze imprescindibili per rimanere uniti a Lui ed avere da Lui la Vita eterna. Quanti seguono i “falsi pastori”, i “mercenari”, e vivono nella logica del mondo alla ricerca del potere, dell’avere, del piacere, non appartengono a Gesù e non hanno in sé la Vita.

Oggi, purtroppo, sembra avere preso campo la convinzione che partecipare alla celebrazione eucaristica sia quasi superfluo, un optional: basta volersi bene, comportarsi bene … Certamente per partecipare degnamente alla celebrazione eucaristica bisogna assumere la logica dell’Amore, la logica del Vangelo, nella vita di ogni giorno; la partecipazione ai Sacramenti, tuttavia, il nutrirsi del Suo Corpo e del Suo Sangue, l’ascolto della Sua Parola nel contesto della Assemblea eucaristica, restano imprescindibili per avere in noi la Sua Vita.

«Io do loro la vita eterna» Credo sia il caso di soffermarci brevemente a riflettere sulla vita eterna che il Signore quest’oggi ci promette usando il tempo presente. La vita eterna non è quella “futura”, che segue questa vita terrena; non è un’utopia che ci fa “stringere i denti” nelle tribolazioni del mondo in vista di una felicità futura di cui non abbiamo altra certezza che la Fede. Una “vita eterna” che fosse solo questo, può a ragione essere definita “oppio dei popoli”. La vita eterna comincia qui: comincia con il nostro Battesimo, nel momento in cui veniamo innestati in Cristo, nella Sua morte e resurrezione. Qui, in questa vita terrena cominciamo a sperimentare la Vita eterna come una Vita piena di senso. Una Vita che non è “perduta”, cioè che non è sprecata. L’unico modo per sperimentare questa vita, però, è seguire il nostro Pastore sulla via della donazione d’amore. Perché la nostra vita non sia perduta, sprecata, siamo chiamati a spenderla bene! Il modo per non sprecare la vita è donarla per amore. Solo allora sperimenteremo quella pienezza di senso che nessun altro potrà darci, sperimenteremo che stiamo vivendo veramente. «Meglio aggiungere vita ai giorni che giorni alla vita» (Rita Levi Montalcini) è un aforisma che ci invita a vivere veramente. Nella vita, infatti, non è importante il numero di attimi o anni che si susseguono, ma l’intensità con la quale questi attimi sono vissuti.

«… esse mi seguono» La via percorsa da Gesù, lo sappiamo, passa dalla croce, dalla donazione della vita per amore. Seguendo il nostro Maestro e Pastore, anche noi passeremo per le tribolazioni, ma esse non saranno subite passivamente, stringendo i denti, ma accolte e valorizzate come occasioni per fare della nostra vita una donazione d’amore. Al versetto 18 del capitolo 10 di Giovanni, lo stesso da cui è tratta la pericope odierna, Gesù chiarisce: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Il nostro Maestro non subisce gli eventi e l’ingiustizia che scatenano contro di Lui, ma li assume, li vive pienamente, e li trasforma in occasione per donare la vita.

Certamente, in tutto ciò non può mancare il volgere lo sguardo “in alto”, alle cose di lassù dove Cristo è assiso alla destra del Padre (cfr Col 3,1): è necessario sapere che la nostra vita è destinata ad un’ulteriorità che ci permette di dare il giusto valore alle tribolazioni presenti.

Oggi, giorno in cui la Chiesa intera prega per le vocazioni di speciale consacrazione, siamo invitati a pregare anche e soprattutto per Papa Leone XIV che il Signore a chiamato a pascere le Sue Pecorelle. Il Pastore Grande delle Pecore (Cfr. Eb 13,20) lo custodisca sempre nel Suo Amore. 

Permettetemi di concludere con l’appello ad ascoltare la voce del Buon Pastore: accogliamo il suo progetto d’amore per ciascuno di noi e la nostra vita non andrà perduta, ma andrà di pienezza in pienezza per l’eternità.

Fr. Marco

sabato 3 maggio 2025

Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene

 «… “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” … Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. » (At 5,27b-32.40b-41)

«L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione
». (Ap 5, 11-14)

«Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». […] Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». (Gv 21, 1-19)

Questa domenica, terza di pasqua, nella pagina di Vangelo contempliamo ancora la misericordia di Dio, Cristo Risorto, che si china sulla debolezza dei suoi. Il racconto evangelico, infatti, si apre con l’ennesima notte in cui i discepoli, andati a pescare, non presero nulla. Quando facciamo esperienza del fallimento, della nostra incapacità e debolezza, siamo invitati a non scoraggiarci, ma a confidare nella grandezza del Signore capace di compiere grandi cose a partire dalla nostra pochezza.

«Io vado a pescare» … ma quella notte non presero nulla. Finché il protagonista è il nostro Io, finché siamo senza il Signore e quindi nella notte, non possiamo far nulla. Solo l’incontro con il Risorto e l’obbedienza alla Sua Parola garantiscono un risultato insperato e sovrabbondante. L’evangelista Giovanni, dietro l’immagine della pesca, presenta le difficoltà dei missionari della Chiesa delle origini: fanno esperienza della loro inadeguatezza e incapacità, ma scoprono anche che il Signore Risorto li accompagna ed assiste.

«È il Signore!» Riconoscere che Gesù è il Signore significa già entrare nella salvezza. Significa, infatti, riconoscere la sua signoria e porsi sotto di essa. Nel Vangelo si dice che i demoni conoscono Gesù, ma sempre lo chiamano «il Figlio di Dio» o «il santo di Dio»; mai possono riconoscerlo Signore perché questo significherebbe porsi sotto la Sua Signoria che loro rifiutano. La Signoria di Cristo, però, non è come quella del mondo: Gesù non viene per essere servito, ma perché abbiamo la Vita in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Ponendoci sotto la Sua signoria, quindi, obbedendo a Lui, sperimentiamo quella Vita piena ed eterna che solo Lui vuole e può donarci.

«Venite a mangiare». La seconda scena evangelica ci mostra Gesù che ha già preparato da mangiare per i suoi, ma chiede ugualmente ai discepoli di portare il frutto della loro pesca. È il Signore a preparare a noi il banchetto della Vita, senza di Lui non avremmo nulla da mangiare, ma vuole comunque la nostra collaborazione. È quello che il sacerdote ci invita a fare prima della preghiera di offertorio: «Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo a offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente.» Siamo invitati ad accostarci alla mensa eucaristica portando la nostra vita in offerta perché, unita a quella di Gesù, possa essere mensa di salvezza per il mondo intero.

«… mi ami più di costoro?». … «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» La terza scena del Vangelo, infine, ci fa assistere al dialogo tra Gesù e Pietro: la triplice professione d’amore richiama e ripara il triplice rinnegamento e fonda la missione di pascere il gregge. I verbi greci usati sono agapao e fileo. Il primo (agapao) indica l’amore “allocentrico”, che sposta il proprio centro sull’amato, che si china sull’amato: un amore di donazione che non è condizionato dalla reciprocità (la reciprocità è sempre sperata/desiderata dall’amore, ma qui non è la condizione). Il verbo fileo, invece, indica l’amore in cui il soggetto, mantenendo il proprio centro in sé, porta nella sua intimità l’amato: è un amore più condizionato dalla reciprocità e in cui è ancora presente la ricerca di sé. Rivolgendosi a Pietro, il Signore le prime due volte usa il verbo agapao (“mi ami?”). Pietro risponde con fileo (“ti voglio bene”, “ti sono amico”). Alla terza volta, Gesù, quasi a chinarsi sulla debolezza di Pietro, usa anch’egli fileo.

«Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» Il Maestro chiede a Pietro un amore capace di donarsi gratuitamente, di dimenticarsi di sé. Pietro, però, ha già fatto esperienza della propria debolezza e, forse ricordando il triplice rinnegamento, non è più certo di sé, non si sbilancia: è capace di accoglierlo nella propria intimità, ma non è capace di espropriarsi ed ha bisogno di sentire forte la Sua presenza e le Sue consolazioni. Pietro non più fondato su se stesso, non è più quell’uomo che nel cenacolo aveva impulsivamente, ma forse con superficialità, affermato «Darò la mia vita per te!» (Gv 13, 37). Ha fatto esperienza della propria debolezza.

La debolezza umana, tuttavia, posta sotto la Signoria di Cristo, non è ostacolo alla potenza di Dio: nella prima lettura abbiamo letto di come, dopo la Pentecoste, Pietro e gli apostoli, avendo sperimentato la Vita che Cristo ha donato loro, non cercano più di salvare se stessi, ma anzi sono lieti di soffrire per amore di Gesù.

«Pasci le mie pecore … Seguimi!» Proprio fondandosi sulla disponibilità ad amare e sulla consapevolezza di Pietro della propria debolezza, Gesù affida a lui il compito di pascere il Suo gregge. Conoscendo la debolezza umana e la potenza di Dio, Pietro ora può guidare, confortare e nutrire i suoi fratelli. Così il racconto evangelico che iniziava con il protagonismo di Pietro («Io vado a pescare»), si chiude invece con l'invito alla sequela: «Seguimi!».

Fr. Marco

sabato 26 aprile 2025

Non temere! Ero morto, ma ora vivo per sempre

 «Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.» (At 5,12-16)

«Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.» (Ap 1,9-11.12-13.17-19)

«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.  … “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”». (Gv 20,19-31)

Questa domenica, Ottava di Pasqua, il Vangelo ci riporta ancora al primo giorno della settimana, il giorno della Resurrezione: la Pasqua è un evento così unico e meraviglioso, che la Chiesa sente il bisogno di dilatarlo in otto giorni per contemplarlo. La morte è sconfitta, la vita ha vinto. Siamo invitati, quindi a non temere: la morte non ha più l’ultima parola su di noi. Questa settimana di pasqua, dopo aver voluto stare in mezzo alla gente fino all’ultimo e avere impartito la benedizione urbi et orbi, Papa Francesco è nato al Cielo. Così si dice dei cristiani che, morti e risorti con Cristo nel battesimo, hanno con Lui sconfitto la morte e vanno incontro alla Vita. Preghiamo per Papa Francesco perché il Signore gli conceda il premio per le sue fatiche e preghiamo per la Chiesa perché il Padre ci conceda un Pastore secondo il Suo Cuore.

Per la Chiesa antica, la domenica dopo Pasqua era la domenica “in Albis” in cui coloro che erano stati battezzati a Pasqua e che per tutta la settimana avevano portato la veste bianca dei risorti, deponevano la veste battesimale. Oggi, per volere di San Giovanni Paolo II, la Chiesa celebra la Festa della Divina Misericordia.

Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Nella pagina di Vangelo contempliamo Gesù Risorto che entra a porte chiuse nel luogo in cui i discepoli si nascondono, donando il primo dono pasquale: la Pace. Questo è il dono che fa anche a noi qui oggi. Se glielo permettiamo, Gesù vuole entrare nel più profondo delle nostre angosce e paure per portare la Pace che solo Lui ci può donare. Anche noi, spesso angosciati dai nostri fallimenti, tradimenti e incoerenze, siamo chiamati a gioire nel vedere il Signore.

Solo dopo avere accolto in noi la Pace che il Risorto e venuto a donarci, anche noi come i discepoli possiamo essere testimoni. Non annunciatori di un “sentito dire”, ma testimoni: uomini e donne capaci di annunciare ciò che hanno sperimentato, ciò che il Signore ha compiuto nella loro vita. È per questo che, subito dopo aver donato la Pace, Gesù dona alla Chiesa lo Spirito insieme all’autorità di rimettere i peccati. La Chiesa è mandata così a continuare l’opera di riconciliazione e guarigione compiuta da Cristo. Solo accogliendo il perdono e la misericordia ricevuta, è possibile donare il perdono e vivere la Pace. Invochiamo ancora il dono della Pace perché tacciano le armi, gli innocenti smettano di soffrire e i prepotenti rinuncino alle loro avide mire di potere.

La Pace pasquale che Gesù viene a donarci, però, deve iniziare dai nostri cuori e non può essere semplicemente “non belligeranza”, reciproca indifferenza; siamo chiamati alla reciproca accoglienza e perdono. Il perdono capace di creare una nuova Vita in colui che lo riceve. Le nostre “guerre”, piccole e grandi, infatti, nascono dalla “fame di Vita” che prova l’uomo staccato da Dio a causa del peccato: separato dalla fonte della Vita, tenta disperatamente di accaparrarsi vita accumulando beni anche a scapito di chi si trova nel bisogno, cercando fama nei posti di potere, asservendo i fratelli … Un tentativo destinato al fallimento. Solo la riconciliazione col Padre, la comunione con la fonte della vita, potrà darci quella Vita che ci permetterà di vivere in Pace.

Ecco il senso della festa della divina Misericordia: accogliere nella nostra vita il perdono del Padre che ci giunge per la Passione del Figlio e per opera dello Spirito. Avendo accolto questa Misericordia, siamo chiamati a implorarla per il mondo intero a farci intercessori per la salvezza del mondo. Siamo chiamati, però, soprattutto a farci operatori di misericordia eliminando in noi ogni giudizio di condanna dei fratelli.

Chiarisco il mio pensiero: se vediamo il fratello o la sorella che sbaglia, non possiamo negare l’oggettività dell’errore. Siamo chiamati tuttavia, non a condannare e magari divulgare l’errore, ma a comprendere, giustificare e, con vero amore fraterno, correggere il fratello. Siamo chiamati ad usare misericordia, cioè ad avere “un cuore rivolto verso i miseri”.

Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.  È significativo che proprio questa domenica la Parola accentui l’attenzione sulle Piaghe del Risorto: è da quelle piaghe che sgorga la sorgente della Misericordia. È per questo che la festa della Divina Misericordia è preparata da una novena che inizia il venerdì santo: dalle Sue piaghe siamo stati guariti. Il Risorto porta addosso le ferite inflittegli dalla cattiveria degli uomini, ma proprio a partire da esse usa misericordia al mondo. Anche noi siamo piagati dal nostro peccato e dal peccato dei fratelli, ma è proprio a partire dal contemplare le piaghe di Cristo e dall’unire le nostre sofferenze alle Sue, che siamo chiamati ad usare misericordia divenendo, ognuno nello stato a cui il Signore lo ha chiamato, ministri del perdono: i ministri ordinati, donando il Perdono del Padre; tutti i battezzati non rispondendo al male con il male, rinunciando alla vendetta, non resistendo al malvagio, amando i nostri nemici e pregando per loro (cfr. Mt 5,38 ss).

Tutto ciò non è facile, la nostra natura ferita si ribella. Da ciò, però, dipende l’autenticità della nostra fede. Se davvero crediamo che Gesù è risorto e che noi, nel battesimo, siamo risorti con lui, lasciamo che lo Spirito ci insegni a vivere da risorti che non temono più la morte e le ferite che il peccato nostro e altrui potrà infliggerci e preghiamo con le parole rivelate a Santa Faustina e che la Chiesa ha accolto e tramandato: Eterno Padre, ti offro il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del tuo dilettissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero!

Fr. Marco

venerdì 18 aprile 2025

Cristo nostra Speranza è Risorto!

«Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.» (At 10,34.37-43)

«Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1-4)

«Simon Pietro, … entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.» (Gv 20,1-9)

Nel solenne giorno di Pasqua in tutta la Chiesa si eleva il grido di gioia che ci dà Speranza: Cristo nostra Pasqua è risorto! Se Cristo è risorto, infatti, la morte è sconfitta e anche noi, nel Battesimo, siamo resi partecipi della Sua Vittoria.

«Fratelli, se siete risorti con Cristo». Nel battesimo, infatti, siamo stati sepolti con Cristo per risorgere con Lui. La vita dei cristiani è vita da risorti. La liturgia della  veglia e del giorno di Pasqua è dominata dai simboli della luce e dell’acqua che sono all’origine di ogni vita cristiana: il Cero Pasquale, simbolo eminente del Cristo Risorto, e l’acqua lustrale, in cui siamo rinati a nuova vita nel Battesimo, e dalla quale durante la veglia siamo stati aspersi. La luce e l’acqua dunque, elementi indispensabili alla vita naturale, trasfigurati diventano anche elementi indispensabili alla vita soprannaturale, quella vita in Cristo che trova la sua origine proprio nella resurrezione del nostro Signore.

«Perché cercate tra i morti colui che è Vivo?» (Lc 24,5) Così nella pagina evangelica della Veglia ci siamo sentiti chiedere dall’Angelo. Cristo è il Vivente, non va relegato tra i morti di cui facciamo memoria, ma che non sono più tra noi. Accogliendolo e riconoscendolo Vivente anche noi diveniamo partecipi della Sua Vita immortale. Il Battesimo, infatti, è l'inizio della nostra risurrezione. È la venuta del Risorto in noi! È l’inizio della Vita nuova: il Signore cambia le nostre logiche, le nostre abitudini, i nostri rapporti.

Nei nostri paesi e quartieri, i giorni del Triduo Santo sono ricchi di elementi folcloristici nati dalla fede; ciò che celebriamo a Pasqua, tuttavia non è folclore, né un evento relegato al passato, ma è un memoriale che riattualizza l’evento principale della nostra salvezza: Cristo ha sconfitto il peccato e la morte; non siamo più schiavi del peccato che ci separava da Dio e dai fratelli, la pietra che ci imprigionava nel sepolcro è stata rotolata via: la Vita è libera.

Per la partecipazione alla risurrezione di Cristo, infatti, ogni battezzato, vive in comunione con Gesù, nel Suo corpo che è la Chiesa, «uno in Cristo» (Gal 3, 28). Nel Battesimo il Signore risorto è entrato nella nostra vita per la porta del nostro cuore. Noi non siamo più uno accanto all'altro o uno contro l'altro. Il Risorto viene a noi e congiunge la Sua vita con la nostra, tenendoci dentro al Suo amore. Noi battezzati diventiamo un'unità, una cosa sola con Lui e una cosa sola tra di noi.

«Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» Sta a noi, però, accogliere il dono: Cristo ha sconfitto il peccato e la Morte e ci ha regalato una Vita nuova e piena che è iniziata in noi nel Battesimo, ma non si sostituisce a noi. Lui ci ha donato la libertà dalla schiavitù del peccato, ma siamo noi a doverne fare buon uso e scegliere di servire il Signore della Vita perché la libertà non diventi un pretesto per continuare ad asservirci alle opere della carne. Con il Battesimo, infatti Cristo ha fatto iniziare in noi una vita nuova ed eterna, ma ci ha lasciato la responsabilità di coltivare questa vita o lasciarla appassire.

Proprio perché questa Vita nuova che è iniziata in noi possa crescere e svilupparsi, il Signore ci ha lasciato ciò che è essenziale: la Luce e l’Acqua.

La Luce della sua Resurrezione, che si irradia nella Sua Parola proclamata dalla Chiesa la quale nutre la nostra Fede perché possa illuminare ogni ambito della nostra vita; e l’Acqua del Battesimo che ci ha introdotti nella vita sacramentale permettendoci di nutrire, purificare e rafforzare la nostra Vita perché cresca e porti frutto. Ecco perché durante la santa veglia rinnoviamo i nostri impegni battesimali e veniamo ancora una volta aspersi con l’acqua lustrale: siamo chiamati a ravvivare sempre il dono della vita cristiana perché non venga soffocata dalle spine del mondo.

Il Signore Risorto oggi ancora una volta regala a tanti nostri fratelli che riceveranno il Battesimo una Vita nuova e Piena, una Vita bella che, anche nelle immancabili difficoltà quotidiane, non soccombe al nonsenso, una Vita destinata a durare per l’eternità. Questa stessa Vita oggi la rinnova in noi che già l’abbiamo ricevuta. A noi però la responsabilità di farla sviluppare, di portare frutto. Quest’anno, inoltre, abbiamo la possibilità, mediante l’indulgenza giubilare, di recuperare a pieno l’innocenza battesimale cancellando ogni nostra colpa e ogni pena ad essa connessa. Facciamo tesoro di tanta Grazia aderendo pienamente a Cristo e abbandonando ogni affetto al peccato.

La pietra è rotolata, il sepolcro è aperto, non siamo più schiavi del peccato e della morte. Vogliamo vivere la Vita Vera o continueremo a restare nei nostri sepolcri? Il Signore Risorto ci conceda di morire ogni giorno al peccato per potere vivere “per Dio in Cristo Gesù”. Auguri

Fr. Marco

venerdì 11 aprile 2025

Cristo Gesù svuotò se stesso assumendo una condizione di servo

 «Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.» (Is 50,4-7)

«Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.» (Fil 2,6-11)

«… chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. … io sto in mezzo a voi come colui che serve. … Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà … Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco? …«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». … Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. … Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto» (Lc 22,14 - 23,56)

Questa domenica è chiamata domenica delle palme perché inizia con la solenne commemorazione dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme: in ricordo del suo ingresso trionfale, benediciamo le palme e i rami di ulivo. Per la liturgia, però, si chiama anche domenica della Passione del Signore perché leggiamo il racconto della sua passione e della sua morte.

Il brano del profeta Isaia tratto dal terzo cantico sul servo sofferente di Iahwè, ci dà la chiave di lettura degli eventi della passione che ascoltiamo nel Vangelo. La docilità obbediente fino alla sofferenza fa parte della missione del servo. Nell’obbedienza, però, risiede la vittoria.

«Egli spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato al di sopra di tutto». San Paolo,  riportando ai Filippesi un antico inno cristiano sulla kenosi, ci ricorda che la gloria di Cristo Gesù, il Figlio eterno del Padre che assume il ruolo del servo di Iahwè, sta nello spogliarsi completamente, nell’abbassarsi, nel servire come uno schiavo, fino alla morte. La parola essenziale è: “Per questo”. L’elevazione divina di Cristo è nel suo abbassarsi, nel suo servire, nella sua solidarietà con noi, in particolare con i più deboli e i più provati.

«Veramente quest’uomo era giusto». La passione di Gesù rivela pienamente il suo essere Giusto, cioè secondo la volontà del Padre. La categoria biblica di “giustizia”, infatti, non riguarda tanto il “dare a ciascuno il suo”, ma è soprattutto il compiere la volontà di Dio; potremmo anche tradurre “giusto” con “santo”. Gesù è il “Santo dei Santi”. Nella cella più interna del tempio, “il santo dei santi”, era custodita l’arca come testimonianza della presenza e della potenza di Dio. Gesù è il vero “Santo dei Santi” perché il lui risiede realmente la pienezza della santità, della divinità, e questa si manifesta pienamente nella sua Passione che porta a compimento il mistero di una vita donata per amore. Poiché Dio è Amore (cfr. 1Gv 4,8). Il racconto dell’evangelista Luca, infatti, sottolinea come anche durante il momento più buio della sua vita Gesù è sempre rivolto con misericordia agli altri e consegnato, abbandonato per amore, alla volontà del Padre.  

«La folla … ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto». Anche noi imprimiamoci bene in mente quale sia la misura dell’amore di Dio per noi, cosa ha sofferto per la nostra salvezza, e chiediamogli la grazia di ammorbidire il nostro cuore di pietra cosicché possiamo corrispondere a tanto amore amando Lui con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, e il prossimo come noi stessi.

Fr. Marco

 

venerdì 4 aprile 2025

Non ricordiamo più le cose passate, corriamo verso la meta

 «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (Is  43, 16-21)

«Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. … dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta»  (Fil 3, 8-14)

«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». (Gv 8, 1-11)

La Parola di Dio della quinta domenica di quaresima, dopo averci mostrato il volto del Padre Misericordioso domenica scorsa, continua a mostrarci la Misericordia di Dio che ci rende nuove creature. Nella pagina di Vangelo, infatti, ci viene presentato il  caso di una donna colta in “flagrante adulterio”. Scribi e Farisei la conducono a Gesù perché sia lui ad emettere la sentenza.

«Dicevano questo per metterlo alla prova». Ciò che muove scribi e farisei non è lo zelo per la legge, ma l’intento di tendere una trappola a Gesù. Se questo “maestro”, che mangia con i peccatori, perdona l’adultera, potranno accusarlo di contravvenire alla legge; se, al contrario, la condanna, si sarà allineato all’interpretazione più severa della legge, andando contro il suo comportamento precedente, e perdendo il consenso del popolo (di cui scribi e farisei sono gelosi); la condanna alla lapidazione, inoltre, violerà il diritto del dominatore romano che proibisce ai giudei di infliggere condanne a morte. Ritengo che già questa notazione possa farci fermare a riflettere. Anche a noi può capitare di puntare il dito verso un nostro fratello o sorella che sbaglia, con secondi fini. Magari ci appelliamo a “questioni di principio”; forse osiamo addirittura parlare di “correzione fraterna”; ma è veramente questo a muoverci? Siamo veramente interessati a promuovere l’osservanza dei comandamenti? Ad aiutare il fratello o la sorella a non sbagliare più? Purtroppo credo che le nostre motivazioni spesso siano altre: gettare fango sul peccatore perché possa splendere la nostra “giustizia”; mettere a tacere chi la pensa diversamente da noi ecc.

«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Gesù non cade nella trappola che gli viene tesa: non nega il peccato della donna e non la giustifica; chiama, però, gli accusatori a prendere coscienza della comune condizione di peccato da cui, purtroppo, nessun uomo è esente. L’adulterio, inoltre, è un peccato che ha un grande valore simbolico: rappresenta l’idolatria. Spesso Israele è accusato dai profeti di adulterio, di avere il cuore lontano dal suo Dio (Cfr. Osea 2 e Ezechiele 16). Anche il gesto compiuto da Gesù di scrivere sulla polvere ha sapore profetico: nel libro del profeta Geremia si legge: «Sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te, poiché essi hanno abbandonato il Signore, la fonte dell’acqua sprizzante» (Ger 17, 13b). Coloro che vengono a denunciare l’adultera, non sono forse anch’essi colpevoli di adulterio verso il loro Signore? Il gesto e le parole di Gesù richiamano ciascuno dei presenti ad esaminare se veramente ha il diritto di accusare o se, piuttosto, non deve appellarsi anche lui alla Misericordia di Dio.

«Se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.» Cominciando da chi ha una più lunga storia di infedeltà, gli accusatori rinunciano all’accusa. Rimangono “la misera e la Misericordia”(S. Agostino).

«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» Gesù non giustifica il peccato, ma salva la peccatrice donandole il perdono, che lei, consapevole di non meritarlo, non ha ancora chiesto; insieme al perdono, però, il Maestro comanda di non peccare più. È importante, infatti, non rassegnarsi al proprio peccato, e fare il serio proposito di non peccare più. Non possiamo rassegnarci alla nostra miseria, ma, consapevoli di essere ancora lontani dalla meta, siamo chiamati “correre per conquistarla” (Cfr. II lettura). Assumere l’atteggiamento di chi afferma «sono fatto così, non posso cambiare», ci lega al nostro peccato, ci identifica con esso costringendoci ad una vita, nella migliore delle ipotesi, mediocre.

Gesù, però, è capace di rinnovare la nostra vita, di donarci la Vita Piena ed Eterna. Il nostro passato, gettato nel braciere della sua misericordia, non è più un peso. Guardiamo con speranza al futuro e tendiamo sempre ad una maggiore fedeltà al Dio fedele e misericordioso.

fr. Marco

 

sabato 29 marzo 2025

Era morto ed è tornato in vita!

 «Oggi ho allontanato da voi l’infamia d’Egitto». (Gs 5,9a.10-12)

«… se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate …» (2Cor 5, 17-21)

« … questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. …» (Lc 15, 1-3.11-32)

La liturgia della Parola della​ quarta domenica di quaresima, detta domenica “Laetare” (“Rallegrati”) dalla prima parola dell’antifona d’ingresso, ci invita a rallegrarci perché l’Amore misericordioso del Padre ci introduce nella Terra Promessa (prima lettura) e ci accoglie nella Sua Casa (Vangelo) per saziarci del suo Amore. L’Amore misericordioso del Padre, infatti, ci libera dalle nostre schiavitù, si lascia alle spalle i nostri peccati e ci rende creature nuove. Oggi inoltre la Parola continua a liberarci delle false immagini del Padre perché possiamo conoscere ad amare il Dio Vivo e Vero

«… I farisei e gli scribi mormoravano …» L’evangelista Luca mette subito in evidenza il motivo per cui Gesù racconta la parabola: scribi e farisei mormorano perché il Maestro accoglie i peccatori e mangia con loro. I farisei, dei quali molti erano anche scribi, sono i più attenti e scrupolosi osservanti della Legge. Frequentemente, tuttavia, incorrono nei rimproveri di Gesù perché il loro cuore non è in comunione con il cuore del Padre. Per questo motivo oggi il Maestro ci presenta il Padre e lo fa mostrandoci come si comporta con i due figli della parabola che sono rappresentanti delle due grandi categorie in cui potremmo dividere coloro  che non conoscono il Padre: “il ribelle” e “il servo”.

«Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta» Il figlio minore, il “ribelle”, pur riconoscendosi figlio tanto da accampare diritti sull’eredità, non conosce realmente suo padre: è convinto che gli impedirà di essere felice, che non lo farà mai realizzare. Per questo cerca la felicità e la realizzazione, “in un paese lontano“. È immagine di tutti coloro i quali vedono in Dio un ostacolo alla loro realizzazione; di tutti coloro i quali sono convinti che Dio, per puro capriccio, proibisca loro cose belle che li renderanno felici. Il mondo di oggi è pieno di “figli ribelli” che vogliono fare a meno del Padre.

«Nessuno gli dava nulla». I ribelli di tutti i tempi, però, come il figlio della parabola fanno l’esperienza del bisogno, un bisogno esistenziale che niente può colmare. Fanno l’amara esperienza di avere “sperperato le sostanze“, di avere sprecato la vita. Rendersi conto di ciò e trovare la forza per tornare dal Padre è una benedizione. Il figlio minore della parabola trova questa forza e, anche se per puro calcolo («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!»), torna alla casa paterna.

«Lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Con questi cinque verbi l’evangelista descrive l’attesa piena di speranza del Padre e l’esplosione della sua gioia al vedere tornare il figlio. Non conoscendo suo Padre, però, costui non può che rimanere spiazzato dall’accoglienza che riceve: il Padre, che lui vedeva come il tiranno oppressore, lo travolge con il suo amore “viscerale” (quasi materno: il verbo greco usato per descrivere la commozione ha a che fare con le viscere materne). Colui che pensava di doversi piegare a fare il salariato, viene invece dal Padre reintegrato nuovamente nella dignità filiale, viene reso “nuova creatura”.

«Ecco, io ti servo da tanti anni …» L’altra figura rappresentativa della parabola è il figlio maggiore, “il servo”, colui che, pur restando nella casa paterna, si considera un salariato. Quest’uomo considera suo padre solo un “padrone”: è il proprietario di tutto, colui che lo ricompensa per il lavoro che svolge. La figura del figlio maggiore interviene solo con il ritorno e l’accoglienza del ribelle: un fatto inaudito per la sua mentalità di salariato. Ha vissuto nella casa del padre secondo la logica del “do affinché tu mi dia”: ad un lavoro ben svolto spetta il premio e ad un atto di ribellione un castigo. L’accoglienza del ribelle lo spiazza, lo scandalizza e lo riempie di rabbia.

«Suo padre allora uscì a supplicarlo». Da notare che anche lui è “fuori casa” e il Padre, come per minore, deve andargli incontro. Dal dialogo emerge la mentalità “servile” di quest’uomo: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici». La sua è, purtroppo, una mentalità riscontrabile anche all’interno della Chiesa in coloro che compiono i loro atti religiosi solo in vista del premio, del “salario”. Spesso, inoltre, il salario desiderato è molto terreno: salute e benessere. Se “il Dio padrone” non mi garantisce questo, perché servirlo? Chi la pensa così, inoltre, tende a ergersi su un piedistallo da cui facilmente formula condanne. Non a caso, accusando il padre, il figlio maggiore parla del minore dicendo “questo tuo figlio”: ne prende le distanze. Il Padre è costretto a dare la stessa spiegazione che ha dato ai servi (tale si considera il maggiore), ma stavolta dicendo “questo tuo fratello”: gli ricorda la relazione incancellabile che c’è tra loro.

A questo punto penso sia importante fare attenzione al rischio di identificarci con uno solo di questi due figli. In realtà sarebbe da sperare che, dopo avere esaminato il nostro cuore, non ci riconoscessimo in nessuno dei due; entrambi, infatti hanno un’immagine distorta del Padre. Credo, però, che, esaminandosi bene, ciascuno di noi possa scoprire in sé sia gli atteggiamenti del ribelle, che pensa di sapere meglio del Padre ciò che è bene per lui; sia gli atteggiamenti del servo giustizialista, che obbedisce per ricevere un salario e non esita a condannare (prendendone le distanze) coloro che sbagliano e per i quali invoca il castigo.

Il nostro modello non deve essere nessuno dei due figli della parabola, ma il Figlio amato, Gesù Cristo, che conformandoci a Lui nel Battesimo, ci ha resi figli. Proprio per renderci conformi al modello, infatti, Gesù stesso è venuto a riconciliarci con il Padre, a farci nuove creature. A noi è richiesta solo l’accoglienza di tale Grazia. Per questo oggi San Paolo ci esorta: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».

Fr. Marco