sabato 26 aprile 2025

Non temere! Ero morto, ma ora vivo per sempre

 «Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.» (At 5,12-16)

«Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.» (Ap 1,9-11.12-13.17-19)

«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.  … “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”». (Gv 20,19-31)

Questa domenica, Ottava di Pasqua, il Vangelo ci riporta ancora al primo giorno della settimana, il giorno della Resurrezione: la Pasqua è un evento così unico e meraviglioso, che la Chiesa sente il bisogno di dilatarlo in otto giorni per contemplarlo. La morte è sconfitta, la vita ha vinto. Siamo invitati, quindi a non temere: la morte non ha più l’ultima parola su di noi. Questa settimana di pasqua, dopo aver voluto stare in mezzo alla gente fino all’ultimo e avere impartito la benedizione urbi et orbi, Papa Francesco è nato al Cielo. Così si dice dei cristiani che, morti e risorti con Cristo nel battesimo, hanno con Lui sconfitto la morte e vanno incontro alla Vita. Preghiamo per Papa Francesco perché il Signore gli conceda il premio per le sue fatiche e preghiamo per la Chiesa perché il Padre ci conceda un Pastore secondo il Suo Cuore.

Per la Chiesa antica, la domenica dopo Pasqua era la domenica “in Albis” in cui coloro che erano stati battezzati a Pasqua e che per tutta la settimana avevano portato la veste bianca dei risorti, deponevano la veste battesimale. Oggi, per volere di San Giovanni Paolo II, la Chiesa celebra la Festa della Divina Misericordia.

Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Nella pagina di Vangelo contempliamo Gesù Risorto che entra a porte chiuse nel luogo in cui i discepoli si nascondono, donando il primo dono pasquale: la Pace. Questo è il dono che fa anche a noi qui oggi. Se glielo permettiamo, Gesù vuole entrare nel più profondo delle nostre angosce e paure per portare la Pace che solo Lui ci può donare. Anche noi, spesso angosciati dai nostri fallimenti, tradimenti e incoerenze, siamo chiamati a gioire nel vedere il Signore.

Solo dopo avere accolto in noi la Pace che il Risorto e venuto a donarci, anche noi come i discepoli possiamo essere testimoni. Non annunciatori di un “sentito dire”, ma testimoni: uomini e donne capaci di annunciare ciò che hanno sperimentato, ciò che il Signore ha compiuto nella loro vita. È per questo che, subito dopo aver donato la Pace, Gesù dona alla Chiesa lo Spirito insieme all’autorità di rimettere i peccati. La Chiesa è mandata così a continuare l’opera di riconciliazione e guarigione compiuta da Cristo. Solo accogliendo il perdono e la misericordia ricevuta, è possibile donare il perdono e vivere la Pace. Invochiamo ancora il dono della Pace perché tacciano le armi, gli innocenti smettano di soffrire e i prepotenti rinuncino alle loro avide mire di potere.

La Pace pasquale che Gesù viene a donarci, però, deve iniziare dai nostri cuori e non può essere semplicemente “non belligeranza”, reciproca indifferenza; siamo chiamati alla reciproca accoglienza e perdono. Il perdono capace di creare una nuova Vita in colui che lo riceve. Le nostre “guerre”, piccole e grandi, infatti, nascono dalla “fame di Vita” che prova l’uomo staccato da Dio a causa del peccato: separato dalla fonte della Vita, tenta disperatamente di accaparrarsi vita accumulando beni anche a scapito di chi si trova nel bisogno, cercando fama nei posti di potere, asservendo i fratelli … Un tentativo destinato al fallimento. Solo la riconciliazione col Padre, la comunione con la fonte della vita, potrà darci quella Vita che ci permetterà di vivere in Pace.

Ecco il senso della festa della divina Misericordia: accogliere nella nostra vita il perdono del Padre che ci giunge per la Passione del Figlio e per opera dello Spirito. Avendo accolto questa Misericordia, siamo chiamati a implorarla per il mondo intero a farci intercessori per la salvezza del mondo. Siamo chiamati, però, soprattutto a farci operatori di misericordia eliminando in noi ogni giudizio di condanna dei fratelli.

Chiarisco il mio pensiero: se vediamo il fratello o la sorella che sbaglia, non possiamo negare l’oggettività dell’errore. Siamo chiamati tuttavia, non a condannare e magari divulgare l’errore, ma a comprendere, giustificare e, con vero amore fraterno, correggere il fratello. Siamo chiamati ad usare misericordia, cioè ad avere “un cuore rivolto verso i miseri”.

Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.  È significativo che proprio questa domenica la Parola accentui l’attenzione sulle Piaghe del Risorto: è da quelle piaghe che sgorga la sorgente della Misericordia. È per questo che la festa della Divina Misericordia è preparata da una novena che inizia il venerdì santo: dalle Sue piaghe siamo stati guariti. Il Risorto porta addosso le ferite inflittegli dalla cattiveria degli uomini, ma proprio a partire da esse usa misericordia al mondo. Anche noi siamo piagati dal nostro peccato e dal peccato dei fratelli, ma è proprio a partire dal contemplare le piaghe di Cristo e dall’unire le nostre sofferenze alle Sue, che siamo chiamati ad usare misericordia divenendo, ognuno nello stato a cui il Signore lo ha chiamato, ministri del perdono: i ministri ordinati, donando il Perdono del Padre; tutti i battezzati non rispondendo al male con il male, rinunciando alla vendetta, non resistendo al malvagio, amando i nostri nemici e pregando per loro (cfr. Mt 5,38 ss).

Tutto ciò non è facile, la nostra natura ferita si ribella. Da ciò, però, dipende l’autenticità della nostra fede. Se davvero crediamo che Gesù è risorto e che noi, nel battesimo, siamo risorti con lui, lasciamo che lo Spirito ci insegni a vivere da risorti che non temono più la morte e le ferite che il peccato nostro e altrui potrà infliggerci e preghiamo con le parole rivelate a Santa Faustina e che la Chiesa ha accolto e tramandato: Eterno Padre, ti offro il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del tuo dilettissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero!

Fr. Marco

venerdì 18 aprile 2025

Cristo nostra Speranza è Risorto!

«Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.» (At 10,34.37-43)

«Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1-4)

«Simon Pietro, … entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.» (Gv 20,1-9)

Nel solenne giorno di Pasqua in tutta la Chiesa si eleva il grido di gioia che ci dà Speranza: Cristo nostra Pasqua è risorto! Se Cristo è risorto, infatti, la morte è sconfitta e anche noi, nel Battesimo, siamo resi partecipi della Sua Vittoria.

«Fratelli, se siete risorti con Cristo». Nel battesimo, infatti, siamo stati sepolti con Cristo per risorgere con Lui. La vita dei cristiani è vita da risorti. La liturgia della  veglia e del giorno di Pasqua è dominata dai simboli della luce e dell’acqua che sono all’origine di ogni vita cristiana: il Cero Pasquale, simbolo eminente del Cristo Risorto, e l’acqua lustrale, in cui siamo rinati a nuova vita nel Battesimo, e dalla quale durante la veglia siamo stati aspersi. La luce e l’acqua dunque, elementi indispensabili alla vita naturale, trasfigurati diventano anche elementi indispensabili alla vita soprannaturale, quella vita in Cristo che trova la sua origine proprio nella resurrezione del nostro Signore.

«Perché cercate tra i morti colui che è Vivo?» (Lc 24,5) Così nella pagina evangelica della Veglia ci siamo sentiti chiedere dall’Angelo. Cristo è il Vivente, non va relegato tra i morti di cui facciamo memoria, ma che non sono più tra noi. Accogliendolo e riconoscendolo Vivente anche noi diveniamo partecipi della Sua Vita immortale. Il Battesimo, infatti, è l'inizio della nostra risurrezione. È la venuta del Risorto in noi! È l’inizio della Vita nuova: il Signore cambia le nostre logiche, le nostre abitudini, i nostri rapporti.

Nei nostri paesi e quartieri, i giorni del Triduo Santo sono ricchi di elementi folcloristici nati dalla fede; ciò che celebriamo a Pasqua, tuttavia non è folclore, né un evento relegato al passato, ma è un memoriale che riattualizza l’evento principale della nostra salvezza: Cristo ha sconfitto il peccato e la morte; non siamo più schiavi del peccato che ci separava da Dio e dai fratelli, la pietra che ci imprigionava nel sepolcro è stata rotolata via: la Vita è libera.

Per la partecipazione alla risurrezione di Cristo, infatti, ogni battezzato, vive in comunione con Gesù, nel Suo corpo che è la Chiesa, «uno in Cristo» (Gal 3, 28). Nel Battesimo il Signore risorto è entrato nella nostra vita per la porta del nostro cuore. Noi non siamo più uno accanto all'altro o uno contro l'altro. Il Risorto viene a noi e congiunge la Sua vita con la nostra, tenendoci dentro al Suo amore. Noi battezzati diventiamo un'unità, una cosa sola con Lui e una cosa sola tra di noi.

«Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» Sta a noi, però, accogliere il dono: Cristo ha sconfitto il peccato e la Morte e ci ha regalato una Vita nuova e piena che è iniziata in noi nel Battesimo, ma non si sostituisce a noi. Lui ci ha donato la libertà dalla schiavitù del peccato, ma siamo noi a doverne fare buon uso e scegliere di servire il Signore della Vita perché la libertà non diventi un pretesto per continuare ad asservirci alle opere della carne. Con il Battesimo, infatti Cristo ha fatto iniziare in noi una vita nuova ed eterna, ma ci ha lasciato la responsabilità di coltivare questa vita o lasciarla appassire.

Proprio perché questa Vita nuova che è iniziata in noi possa crescere e svilupparsi, il Signore ci ha lasciato ciò che è essenziale: la Luce e l’Acqua.

La Luce della sua Resurrezione, che si irradia nella Sua Parola proclamata dalla Chiesa la quale nutre la nostra Fede perché possa illuminare ogni ambito della nostra vita; e l’Acqua del Battesimo che ci ha introdotti nella vita sacramentale permettendoci di nutrire, purificare e rafforzare la nostra Vita perché cresca e porti frutto. Ecco perché durante la santa veglia rinnoviamo i nostri impegni battesimali e veniamo ancora una volta aspersi con l’acqua lustrale: siamo chiamati a ravvivare sempre il dono della vita cristiana perché non venga soffocata dalle spine del mondo.

Il Signore Risorto oggi ancora una volta regala a tanti nostri fratelli che riceveranno il Battesimo una Vita nuova e Piena, una Vita bella che, anche nelle immancabili difficoltà quotidiane, non soccombe al nonsenso, una Vita destinata a durare per l’eternità. Questa stessa Vita oggi la rinnova in noi che già l’abbiamo ricevuta. A noi però la responsabilità di farla sviluppare, di portare frutto. Quest’anno, inoltre, abbiamo la possibilità, mediante l’indulgenza giubilare, di recuperare a pieno l’innocenza battesimale cancellando ogni nostra colpa e ogni pena ad essa connessa. Facciamo tesoro di tanta Grazia aderendo pienamente a Cristo e abbandonando ogni affetto al peccato.

La pietra è rotolata, il sepolcro è aperto, non siamo più schiavi del peccato e della morte. Vogliamo vivere la Vita Vera o continueremo a restare nei nostri sepolcri? Il Signore Risorto ci conceda di morire ogni giorno al peccato per potere vivere “per Dio in Cristo Gesù”. Auguri

Fr. Marco

venerdì 11 aprile 2025

Cristo Gesù svuotò se stesso assumendo una condizione di servo

 «Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.» (Is 50,4-7)

«Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.» (Fil 2,6-11)

«… chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. … io sto in mezzo a voi come colui che serve. … Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà … Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco? …«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». … Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. … Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto» (Lc 22,14 - 23,56)

Questa domenica è chiamata domenica delle palme perché inizia con la solenne commemorazione dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme: in ricordo del suo ingresso trionfale, benediciamo le palme e i rami di ulivo. Per la liturgia, però, si chiama anche domenica della Passione del Signore perché leggiamo il racconto della sua passione e della sua morte.

Il brano del profeta Isaia tratto dal terzo cantico sul servo sofferente di Iahwè, ci dà la chiave di lettura degli eventi della passione che ascoltiamo nel Vangelo. La docilità obbediente fino alla sofferenza fa parte della missione del servo. Nell’obbedienza, però, risiede la vittoria.

«Egli spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato al di sopra di tutto». San Paolo,  riportando ai Filippesi un antico inno cristiano sulla kenosi, ci ricorda che la gloria di Cristo Gesù, il Figlio eterno del Padre che assume il ruolo del servo di Iahwè, sta nello spogliarsi completamente, nell’abbassarsi, nel servire come uno schiavo, fino alla morte. La parola essenziale è: “Per questo”. L’elevazione divina di Cristo è nel suo abbassarsi, nel suo servire, nella sua solidarietà con noi, in particolare con i più deboli e i più provati.

«Veramente quest’uomo era giusto». La passione di Gesù rivela pienamente il suo essere Giusto, cioè secondo la volontà del Padre. La categoria biblica di “giustizia”, infatti, non riguarda tanto il “dare a ciascuno il suo”, ma è soprattutto il compiere la volontà di Dio; potremmo anche tradurre “giusto” con “santo”. Gesù è il “Santo dei Santi”. Nella cella più interna del tempio, “il santo dei santi”, era custodita l’arca come testimonianza della presenza e della potenza di Dio. Gesù è il vero “Santo dei Santi” perché il lui risiede realmente la pienezza della santità, della divinità, e questa si manifesta pienamente nella sua Passione che porta a compimento il mistero di una vita donata per amore. Poiché Dio è Amore (cfr. 1Gv 4,8). Il racconto dell’evangelista Luca, infatti, sottolinea come anche durante il momento più buio della sua vita Gesù è sempre rivolto con misericordia agli altri e consegnato, abbandonato per amore, alla volontà del Padre.  

«La folla … ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto». Anche noi imprimiamoci bene in mente quale sia la misura dell’amore di Dio per noi, cosa ha sofferto per la nostra salvezza, e chiediamogli la grazia di ammorbidire il nostro cuore di pietra cosicché possiamo corrispondere a tanto amore amando Lui con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, e il prossimo come noi stessi.

Fr. Marco

 

venerdì 4 aprile 2025

Non ricordiamo più le cose passate, corriamo verso la meta

 «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (Is  43, 16-21)

«Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. … dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta»  (Fil 3, 8-14)

«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». (Gv 8, 1-11)

La Parola di Dio della quinta domenica di quaresima, dopo averci mostrato il volto del Padre Misericordioso domenica scorsa, continua a mostrarci la Misericordia di Dio che ci rende nuove creature. Nella pagina di Vangelo, infatti, ci viene presentato il  caso di una donna colta in “flagrante adulterio”. Scribi e Farisei la conducono a Gesù perché sia lui ad emettere la sentenza.

«Dicevano questo per metterlo alla prova». Ciò che muove scribi e farisei non è lo zelo per la legge, ma l’intento di tendere una trappola a Gesù. Se questo “maestro”, che mangia con i peccatori, perdona l’adultera, potranno accusarlo di contravvenire alla legge; se, al contrario, la condanna, si sarà allineato all’interpretazione più severa della legge, andando contro il suo comportamento precedente, e perdendo il consenso del popolo (di cui scribi e farisei sono gelosi); la condanna alla lapidazione, inoltre, violerà il diritto del dominatore romano che proibisce ai giudei di infliggere condanne a morte. Ritengo che già questa notazione possa farci fermare a riflettere. Anche a noi può capitare di puntare il dito verso un nostro fratello o sorella che sbaglia, con secondi fini. Magari ci appelliamo a “questioni di principio”; forse osiamo addirittura parlare di “correzione fraterna”; ma è veramente questo a muoverci? Siamo veramente interessati a promuovere l’osservanza dei comandamenti? Ad aiutare il fratello o la sorella a non sbagliare più? Purtroppo credo che le nostre motivazioni spesso siano altre: gettare fango sul peccatore perché possa splendere la nostra “giustizia”; mettere a tacere chi la pensa diversamente da noi ecc.

«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Gesù non cade nella trappola che gli viene tesa: non nega il peccato della donna e non la giustifica; chiama, però, gli accusatori a prendere coscienza della comune condizione di peccato da cui, purtroppo, nessun uomo è esente. L’adulterio, inoltre, è un peccato che ha un grande valore simbolico: rappresenta l’idolatria. Spesso Israele è accusato dai profeti di adulterio, di avere il cuore lontano dal suo Dio (Cfr. Osea 2 e Ezechiele 16). Anche il gesto compiuto da Gesù di scrivere sulla polvere ha sapore profetico: nel libro del profeta Geremia si legge: «Sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te, poiché essi hanno abbandonato il Signore, la fonte dell’acqua sprizzante» (Ger 17, 13b). Coloro che vengono a denunciare l’adultera, non sono forse anch’essi colpevoli di adulterio verso il loro Signore? Il gesto e le parole di Gesù richiamano ciascuno dei presenti ad esaminare se veramente ha il diritto di accusare o se, piuttosto, non deve appellarsi anche lui alla Misericordia di Dio.

«Se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.» Cominciando da chi ha una più lunga storia di infedeltà, gli accusatori rinunciano all’accusa. Rimangono “la misera e la Misericordia”(S. Agostino).

«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» Gesù non giustifica il peccato, ma salva la peccatrice donandole il perdono, che lei, consapevole di non meritarlo, non ha ancora chiesto; insieme al perdono, però, il Maestro comanda di non peccare più. È importante, infatti, non rassegnarsi al proprio peccato, e fare il serio proposito di non peccare più. Non possiamo rassegnarci alla nostra miseria, ma, consapevoli di essere ancora lontani dalla meta, siamo chiamati “correre per conquistarla” (Cfr. II lettura). Assumere l’atteggiamento di chi afferma «sono fatto così, non posso cambiare», ci lega al nostro peccato, ci identifica con esso costringendoci ad una vita, nella migliore delle ipotesi, mediocre.

Gesù, però, è capace di rinnovare la nostra vita, di donarci la Vita Piena ed Eterna. Il nostro passato, gettato nel braciere della sua misericordia, non è più un peso. Guardiamo con speranza al futuro e tendiamo sempre ad una maggiore fedeltà al Dio fedele e misericordioso.

fr. Marco

 

sabato 29 marzo 2025

Era morto ed è tornato in vita!

 «Oggi ho allontanato da voi l’infamia d’Egitto». (Gs 5,9a.10-12)

«… se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate …» (2Cor 5, 17-21)

« … questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. …» (Lc 15, 1-3.11-32)

La liturgia della Parola della​ quarta domenica di quaresima, detta domenica “Laetare” (“Rallegrati”) dalla prima parola dell’antifona d’ingresso, ci invita a rallegrarci perché l’Amore misericordioso del Padre ci introduce nella Terra Promessa (prima lettura) e ci accoglie nella Sua Casa (Vangelo) per saziarci del suo Amore. L’Amore misericordioso del Padre, infatti, ci libera dalle nostre schiavitù, si lascia alle spalle i nostri peccati e ci rende creature nuove. Oggi inoltre la Parola continua a liberarci delle false immagini del Padre perché possiamo conoscere ad amare il Dio Vivo e Vero

«… I farisei e gli scribi mormoravano …» L’evangelista Luca mette subito in evidenza il motivo per cui Gesù racconta la parabola: scribi e farisei mormorano perché il Maestro accoglie i peccatori e mangia con loro. I farisei, dei quali molti erano anche scribi, sono i più attenti e scrupolosi osservanti della Legge. Frequentemente, tuttavia, incorrono nei rimproveri di Gesù perché il loro cuore non è in comunione con il cuore del Padre. Per questo motivo oggi il Maestro ci presenta il Padre e lo fa mostrandoci come si comporta con i due figli della parabola che sono rappresentanti delle due grandi categorie in cui potremmo dividere coloro  che non conoscono il Padre: “il ribelle” e “il servo”.

«Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta» Il figlio minore, il “ribelle”, pur riconoscendosi figlio tanto da accampare diritti sull’eredità, non conosce realmente suo padre: è convinto che gli impedirà di essere felice, che non lo farà mai realizzare. Per questo cerca la felicità e la realizzazione, “in un paese lontano“. È immagine di tutti coloro i quali vedono in Dio un ostacolo alla loro realizzazione; di tutti coloro i quali sono convinti che Dio, per puro capriccio, proibisca loro cose belle che li renderanno felici. Il mondo di oggi è pieno di “figli ribelli” che vogliono fare a meno del Padre.

«Nessuno gli dava nulla». I ribelli di tutti i tempi, però, come il figlio della parabola fanno l’esperienza del bisogno, un bisogno esistenziale che niente può colmare. Fanno l’amara esperienza di avere “sperperato le sostanze“, di avere sprecato la vita. Rendersi conto di ciò e trovare la forza per tornare dal Padre è una benedizione. Il figlio minore della parabola trova questa forza e, anche se per puro calcolo («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!»), torna alla casa paterna.

«Lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Con questi cinque verbi l’evangelista descrive l’attesa piena di speranza del Padre e l’esplosione della sua gioia al vedere tornare il figlio. Non conoscendo suo Padre, però, costui non può che rimanere spiazzato dall’accoglienza che riceve: il Padre, che lui vedeva come il tiranno oppressore, lo travolge con il suo amore “viscerale” (quasi materno: il verbo greco usato per descrivere la commozione ha a che fare con le viscere materne). Colui che pensava di doversi piegare a fare il salariato, viene invece dal Padre reintegrato nuovamente nella dignità filiale, viene reso “nuova creatura”.

«Ecco, io ti servo da tanti anni …» L’altra figura rappresentativa della parabola è il figlio maggiore, “il servo”, colui che, pur restando nella casa paterna, si considera un salariato. Quest’uomo considera suo padre solo un “padrone”: è il proprietario di tutto, colui che lo ricompensa per il lavoro che svolge. La figura del figlio maggiore interviene solo con il ritorno e l’accoglienza del ribelle: un fatto inaudito per la sua mentalità di salariato. Ha vissuto nella casa del padre secondo la logica del “do affinché tu mi dia”: ad un lavoro ben svolto spetta il premio e ad un atto di ribellione un castigo. L’accoglienza del ribelle lo spiazza, lo scandalizza e lo riempie di rabbia.

«Suo padre allora uscì a supplicarlo». Da notare che anche lui è “fuori casa” e il Padre, come per minore, deve andargli incontro. Dal dialogo emerge la mentalità “servile” di quest’uomo: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici». La sua è, purtroppo, una mentalità riscontrabile anche all’interno della Chiesa in coloro che compiono i loro atti religiosi solo in vista del premio, del “salario”. Spesso, inoltre, il salario desiderato è molto terreno: salute e benessere. Se “il Dio padrone” non mi garantisce questo, perché servirlo? Chi la pensa così, inoltre, tende a ergersi su un piedistallo da cui facilmente formula condanne. Non a caso, accusando il padre, il figlio maggiore parla del minore dicendo “questo tuo figlio”: ne prende le distanze. Il Padre è costretto a dare la stessa spiegazione che ha dato ai servi (tale si considera il maggiore), ma stavolta dicendo “questo tuo fratello”: gli ricorda la relazione incancellabile che c’è tra loro.

A questo punto penso sia importante fare attenzione al rischio di identificarci con uno solo di questi due figli. In realtà sarebbe da sperare che, dopo avere esaminato il nostro cuore, non ci riconoscessimo in nessuno dei due; entrambi, infatti hanno un’immagine distorta del Padre. Credo, però, che, esaminandosi bene, ciascuno di noi possa scoprire in sé sia gli atteggiamenti del ribelle, che pensa di sapere meglio del Padre ciò che è bene per lui; sia gli atteggiamenti del servo giustizialista, che obbedisce per ricevere un salario e non esita a condannare (prendendone le distanze) coloro che sbagliano e per i quali invoca il castigo.

Il nostro modello non deve essere nessuno dei due figli della parabola, ma il Figlio amato, Gesù Cristo, che conformandoci a Lui nel Battesimo, ci ha resi figli. Proprio per renderci conformi al modello, infatti, Gesù stesso è venuto a riconciliarci con il Padre, a farci nuove creature. A noi è richiesta solo l’accoglienza di tale Grazia. Per questo oggi San Paolo ci esorta: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».

Fr. Marco

sabato 22 marzo 2025

Ora è il tempo della salvezza

«Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido … Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele”». (Es 3,1-8.13-15)

«… chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere …» (1Cor 10,1-6.10-12).

​«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo … “Padrone, lascialo ancora quest’anno, … Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”» (Lc 13,1-9)

​La Liturgia della Parola della terza domenica di quaresima quest’anno ci esorta, in maniera pressante, alla conversione. Nella pagina di Vangelo, infatti, Gesù prende spunto da due fatti di cronaca che gli vengono riferiti per invitarci a cambiare vita, a usare bene il tempo che ci viene  donato per fare frutti di vita eterna.

«Credete che … fossero più peccatori … per aver subito tale sorte?» Forse anche noi, sentendo parlare di alluvioni, terremoti, disgrazie sul lavoro, morti sotto le bombe, siamo tentati di credere che le vittime di tali tragedie se le siano in qualche modo “meritate”: è un pensiero che ci rassicura perché ci permette di puntare il dito su gli altri e riusciamo a racchiudere la disgrazia in una logica che possiamo comprendere.

«No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» Il Maestro prende le distanze da una lettura che veda in queste tragedie il castigo di Dio. Tuttavia conclude: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Credo sia lo stesso avvertimento che altrove diventa: «Il Figlio dell’Uomo verrà come un ladro di notte» (Cfr. Mt 24, 42-44). È l’invito a essere sempre pronti a rendere conto della nostra vita. Quegli uomini morirono improvvisamente e forse senza essere pronti: ecco perché l’urgenza della conversione! L’appello alla conversione, facciamo attenzione, non è per “gli altri”, è per me. Sono io che devo convertirmi: abbandonare le mie vie per seguire le vie di Colui che mi ama.

«Ho osservato la miseria del mio popolo» Dinanzi le guerre e le sofferenze di tanti bambini e innocenti, dinanzi gli stermini razziali e tutte le efferatezze di cui l’umanità è capace, forse possiamo essere tentati di chiederci «Dov’è Dio?». Oggi il Signore ci risponde: «Io ci sono!»: il nostro Dio conosce la sofferenza dei suoi Figli e soffre con Essi. Lui c’è e alla fine avrà la vittoria.

«Io sono colui che sono!» Il nome di Dio rivelato a Mosè al roveto ardente, infatti, andrebbe meglio tradotto «Io Sono colui che ci sono (per te)» (Cfr. G. von RadTheologie des Alten Testaments). Il nostro Dio, Colui che si è rivelato a Mosè e, nella Sua Pienezza in Gesù, non è un Dio assente, lontano e neanche un Dio vendicatore che ci punisce per il male che abbiamo fatto. Il male è già punizione a se stesso e chi compie il male ne soffrirà le conseguenze. Il Dio che ci rivela Gesù è, invece, un Padre che non smette di chiamare il suo popolo alla salvezza, un Dio che “osserva la miseria” del suo popolo con occhi di misericordia (Cfr. I lettura) e non cessa di chiamarlo a libertà pronto a darci tutto l’aiuto di cui abbiamo bisogno.

«Padrone, lascialo ancora quest’anno …» Il nostro tempo, tuttavia, è limitato e corriamo due pericoli ugualmente da evitare: da un lato il pericolo di costruirci l’immagine errata di un “Dio giustiziere” pronto a “pesare” scrupolosamente i nostri peccati e a punirci per essi; dall’altro lato il pericolo di costruirci l’immagine di un Dio “troppo buono” che, indipendentemente dalle nostre azioni, alla fine salverà tutti.

Entrambe le immagini sono false. La prima immagine  ci porta ad assumere atteggiamenti servili: agiamo spinti dalla paura, attenti all’osservanza letterale della legge, ma con il cuore distante da Dio. In tale prospettiva la salvezza, destinata a pochissimi, non è dono di Dio, ma conquista dell’uomo che alla fine farà l’amara scoperta di non potersi salvare e di non avere mai conosciuto il Dio Vivente. La seconda immagine, al contrario, ci porta a deresponsabilizzarci, a non vigilare sul nostro comportamento: viviamo, di fatto, come se Dio non ci fosse, presumendo che ci sarà sempre tempo … e che alla fine “Dio perdona tutti”. Dimentichiamo che il nostro tempo è limitato e che non sappiamo quando compariremo davanti il Suo giusto giudizio. Il Dio vivo e vero che Gesù, ci rivela in pienezza, è, invece, il Padre infinitamente giusto e misericordioso: si china sulla miseria del suo popolo, prende l’iniziativa della salvezza, nutre la nostra debolezza con i sacramenti, ma ci chiede di accogliere questa salvezza, di portare frutto, di assumere la logica dell’amore.

«Padrone, lascialo ancora quest’anno …». Usiamo bene il tempo che il Signore ci dona, assumiamo la logica dell’amore sulla quale saremo giudicati. Facciamo in modo di essere pronti quando il Signore cercherà i frutti. Pur confidando nella misericordia del Padre, vigiliamo sulla nostra vita senza presumere della nostra salvezza: «… chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere …».

Fr. Marco

sabato 15 marzo 2025

Videro la Sua Gloria

 «Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram … » (Gen 15, 5-12.17-18)

​«Perché molti … si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.» (Fil 3,17- 4,1)

«Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante … videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. … Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo!» (Lc 9, 28-36).

La pagina evangelica della seconda domenica di quaresima ​ ci presenta la Trasfigurazione di Gesù. Il Signore offre ai suoi discepoli di ieri e di oggi la grazia di intravedere la meta del cammino di conversione che ci porterà alla pasqua. Una meta gloriosa che, tuttavia, si raggiunge attraverso la “via stretta”, ma ineludibile, della croce.

«Circa otto giorni dopo …» Questa indicazione temporale, che collega la Trasfigurazione a ciò che la precede, è omessa dalla versione liturgica. Nei versetti precedenti la pericope evangelica di oggi, l’evangelista Luca aveva presentato il primo annunzio della passione e le esigenze del discepolato. È facile immaginare lo sgomento che devono avere provato gli apostoli. Il Signore conosce la nostra debolezza, la debolezza della nostra fede, la nostra paura, e ci offre quest’oggi la visione della meta, dell’ “ottavo giorno”, il giorno dopo il sabato (cfr. Mt 28,1), perché possiamo farci coraggio quando il cammino si fa più difficile, quando il “non senso” sembra averla vinta

Anche ad Abramo (prima lettura) il Signore promette qualcosa che va al di là di ogni credibilità: è un uomo ormai vecchio, lontano dalla sua terra e dalla sua tribù. Il Signore gli promette una discendenza senza numero e una ricca terra che apparterà a questa discendenza. Non chiede altro che di fidarsi di Lui. Anche noi siamo invitati a  credere alle Sue Parole. È una fede ragionevole quella che ci viene chiesta: il Signore si impegna solennemente e conferma con segni concreti la veridicità della Sua Parola.

Il Signore, infatti, conosce la fatica di Abramo e si piega sulla sua debolezza offrendogli un solenne impegno nelle modalità che gli erano ben note. Era uso comune ai popoli del Vicino Oriente Antico quella di giurare e stabilire alleanze passando in mezzo a carcasse squartate di animali uccisi: i due contraenti, con il passaggio, si impegnavano a rispettare il patto; la pena per la trasgressione era essere squartati come quegli animali. Ritengo sia importante notare, però, che nel brano di Genesi solo la “Fornace ardente” (chiara rappresentazione della presenza di Dio) passa attraverso le carcasse: è Dio che si impegna! È solo sulla Sua fedeltà che si fonda l’alleanza!

Ciò è valido anche per noi: la Nuova Alleanza è fondata sulla fedeltà di Dio. Non ci sono più le carcasse di animali immolati, ma Lui stesso, immolato per amore sulla croce, si offre a garanzia della promessa. A noi chiede solo di accogliere la Sua fedeltà, di fidarci del Suo amore, di ascoltare e obbedire alla Sua Parola. Un ascolto chiamato a diventare, discepolato, sequela e imitazione: come Abramo anche noi siamo chiamati ad “uscire dalla nostra terra”, a lasciare le logiche del mondo, dell’egoismo, dell’edonismo e del potere, per percorrere nuove strade, per vivere secondo una logica nuova, quella dell’amore che si dona senza riserve fino a morire per l’amato: la logica della Croce. Come ci ricorda l’apostolo Paolo, siamo chiamati a non comportarci da “nemici della Croce”.

«Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.» Trovo attualissime queste parole. Quante volte, nella società attuale, vediamo fratelli e sorelle ostentare con orgoglio le peggiori nefandezze; pretendere di chiamare giusto e “diritto” ciò che va contro la legge di Dio! Avendo smarrito l’orizzonte dell’eternità, sono tutti presi dalle cose della terra. Un pericolo che non è lontano: anche a noi può capitare di accogliere logiche mondane e di comportarci da nemici della croce di Cristo. Tutto questo, purtroppo, non sarà senza conseguenze: la loro sorte finale sarà la perdizione.

Guardando alla meta della gloria eterna, viviamo allora come “cittadini del Cielo” (Cf Fil 3,20) e, fissando la nostra speranza nel nostro Salvatore, trasformiamo ogni giorno, con la nostra vita, questo mondo nel Regno dei Cieli.

Fr. Marco

sabato 8 marzo 2025

L'uomo vive di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio

 

«Mio Padre era un Arameo errante… allora gridammo al Signore ed Egli ascoltò la nostra voce» (Dt. 26, 4-10)

«… se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.» (Rm 10,8-13)

«Gesù si allontanò … nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13)

​Questa domenica, prima di Quaresima, siamo invitati anche noi ad entrare con Gesù nel deserto della prova “per essere tentati”, per scoprire cosa c’è nel nostro cuore, ma anche per “esercitarci”. Iniziando il nostro cammino di conversione, infatti, siamo chiamati a metterci alla prova, o meglio a lasciarci mettere alla prova, per imparare a scegliere sempre la Volontà di Dio.

«Mio Padre era un Arameo errante …» Iniziando questo cammino, è importante partire dalla consapevolezza della nostra identità e dalla memoria delle opere che il Signore ha compiuto per noi. Per questo la Parola di Dio di oggi si apre con la professione di fede che il popolo eletto è invitato a fare nella liturgia primaverile. Bisogna che riconosciamo la nostra profonda identità di “erranti accolti”. Uomini e donne sempre alla ricerca di un “di più” che solo il Signore ci può donare. Mi piace anche sottolineare che in italiano la parola “errante” è il participio presente del verbo "errare" che significa anche sbagliare. Errante è, quindi, colui che sbaglia, che intraprende un cammino sbagliato e non raggiunge la meta, che “manca il bersaglio”; quest’ultima accezione è il significato letterale della parola ebraica per "peccato".

Comprendendo questa nostra profonda identità di “erranti”, di peccatori e smarriti, comprenderemo anche la relazione fondamentale della nostra vita: il Signore ascolta la nostra voce e ci dona una terra, ci dona stabilità. 

«Non di solo pane vivrà l’uomo». Ecco il senso del donare le primizie (prima lettura). Ciò che mi soddisfa e mi dona stabilità, non è il mio pane, ciò che posso procurarmi con le mie mani, ma Dio. Quella dell’autonomia, dell’autarchia, del “self made man”, è la prima e la più antica delle tentazioni: «Non hai bisogno di nessuno, soddisfa da solo la tua fame, dì che queste pietre diventino pane …». Gesù risponde mettendo in chiaro la relazione vitale con il Padre e la dipendenza da Lui: ciò di cui l’uomo ha bisogno non può darselo da solo, ma deve riceverlo dal Padre. L’uomo, infatti, non ha bisogno solo del pane, ma della “Parola”, della relazione con il Padre!

«… se ti prostrerai in adorazione davanti a me …» La seconda tentazione presentata da Luca, riguarda proprio la relazione a cui affidiamo la nostra speranza di Vita. Ci viene proposta una relazione traviata, falsa fin dall’origine: si rende culto a “qualcosa/qualcuno” per ottenere il potere. Centro del mio amore, alla fine, è sempre il mio Io che pretende di avere potere su tutte le creature. È la tentazione della magia che poco ha a che fare con la fede. Facciamo attenzione a questa tentazione, perché subdolamente potrebbe nascondersi anche in un atteggiamento che appare religioso quando preghiamo novene, rosari e compiamo atti religiosi per “piegare” Dio a fare la nostra volontà. La preghiera che ci ha insegnato Gesù è tutt’altra: «Padre … sia fatta la tua volontà …» (Cfr. Mt 6,9-13). In quanto figli nel Figlio, è buono e giusto che presentiamo al Padre le nostre richieste, anche con novene e suppliche, purché ci ricordiamo sempre della preghiera di Gesù nel Getsemani: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).

«… gettati giù …» L’ultima tentazione è quella del prodigioso, del mettere alla prova Dio: “Se mi ama …”. È la tentazione che sta alla base di ogni tentazione: «Se tu sei Figlio di Dio …». Non a caso questa formula ricorre in tutte e tre le tentazioni. Il pensiero sottostante è che Dio, per mostrarsi nostro Padre, deve fare ciò che noi decidiamo essere giusto; la stessa logica che ha il bambino capriccioso che pretende dal padre qualcosa che, almeno in quel momento, non è un vero bene per lui. Questa tentazione nasce dal dubbio: Dio è veramente capace di salvarmi? Veramente mi ama? Un dubbio profondo che nessun miracolo potrà veramente fugare: dopo un evento prodigioso se ne chiederà un altro ed un altro ancora. Il nocciolo del problema è ancora una volta la relazione: si compie l’errore di pensare di essere il centro della relazione. Il nostro Io si erge ancora a dio: sarò io allora a decidere ciò che è giusto che avvenga e come deve avvenire.

Non a caso l’evangelista Luca pone l’ultima tentazione a Gerusalemme: di questo «Se tu sei Figlio di Dio, gettati» si sentirà l’eco nel racconto della Passione la domenica delle palme: «Salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23,35). È la tentazione di fuggire dalla volontà di Dio, la tentazione di scendere dalla Croce, di “salvarsi la vita”. Sappiamo, però, che la Croce è una strada obbligata per giungere alla gloria della resurrezione, una strada sicura perché ci è stata aperta dal nostro Maestro e Signore.

Con Gesù impariamo resistere alla tentazione e a restare nella relazione vera col Padre. Buon inizio di quaresima.

Fr. Marco

sabato 1 marzo 2025

Può forse un cieco guidare un altro cieco?

 «Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore.» (Sir 27,5-8)

«… rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.» (1Cor 15,54-58)

«Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda». (Lc 6,39-45)

Le scorse Domeniche la Parola di Dio ci invitava a fare attenzione a dove poniamo le nostre radici: siamo radicati in Dio o cerchiamo vita altrove? Questa domenica, VIII del tempo ordinario, il Signore, consapevole del pericolo che possiamo ingannarci, essere ciechi dinanzi la Verità, credere di essere radicati in Dio, ma in realtà porre altrove la nostra fiducia, ci aiuta a fare discernimento; siamo invitati a guardare i frutti che produciamo: l'albero buono produce frutti buoni; l'albero cattivo frutti cattivi.

Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto. Tra i frutti cattivi che escono dal nostro cuore quando affonda le sue radici lontano da Dio, c'è sicuramente il giudizio del fratello, l'incapacità di amarlo. Già domenica scorsa il Vangelo ci invitava ad amare gratuitamente e a non giudicare (Cf. Lc 6,27-38). Oggi ce ne mostra il motivo: «Può forse  un cieco guidare un altro cieco?». Siamo ciechi, accecati dalla trave del nostro giudizio, e pretendiamo di correggere e guidare i fratelli!

A volte ci atteggiamo a maestri, guide spirituali,  per essere apprezzati e guardati con stima. Ecco perché la Parola oggi ci chiama ipocriti, cioè “teatranti” (letteralmente: “maschere di teatro”): recitiamo una parte in cerca di applausi, ma non siamo veri, autentici.

«Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti» Oggi il Maestro ci invita a guardare prima di tutto alla “trave” che è nel nostro occhio, a fare attenzione a quali frutti escono dal nostro cuore quando siamo messi alla prova.

Gesù, l'unica vera nostra guida  («Uno solo è il vostro maestro ...» Mt 23,8) ci chiede di entrare nella verità della nostra vita e farci suoi discepoli. A chi ci accosta, indichiamo Lui come guida. Sradichiamo dalla nostra vita il giudizio e la presunzione di farci guide dei nostri fratelli. Impariamo ad amare.

«Togli prima la trave dal tuo occhio  …» Certo, la correzione fraterna fa parte dell’amore (Gesù stesso la insegna: Mt 18,15-17). Se mio fratello sbaglia ed io non lo correggo, me ne disinteresso, e lascio che si perda, non lo sto certo amando. Per correggere il fratello, però, dovrò prima avere permesso al Signore di togliere dal mio occhio la trave del “giudizio” e della condanna; solo allora ci vedrò bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del mio fratello. Riconosciamo umilmente la nostra cecità perché il Signore ci guarisca e noi possiamo essere riconosciuti Suoi discepoli capaci di indicare Lui a quanti ci accostano.

«La parola rivela i pensieri del cuore». Facendo attenzione alle nostre parole, allora, vigiliamo sui frutti che escono dal nostro cuore: «Del resto sono ben note le opere della carne: … inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. …. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;» (Cf Gal 5,19-23)

Fr. Marco

sabato 22 febbraio 2025

Amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi trattano male

 «Abisài disse a Davide: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo”. Ma Davide disse ad Abisài: “Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?”».  (1 Sam 26,2.7-9.12-13.22-23)

«Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste.» (1Cor 15, 45-49)

«Ma a voi che ascoltate, io dico … Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.» (Lc 6, 27-38)

Domenica scorsa la Parola di Dio ci invitava a porre solo in Dio il nostro fondamento e la nostra fiducia. Questa domenica, settima del tempo ordinario, il Signore approfondisce maggiormente cosa significhi confidare nel Signore e non in se stessi.

«Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà» Nella prima lettura di oggi, ascoltiamo di Davide che rinuncia a farsi giustizia con le proprie mani: Saul, che lo cerca per ucciderlo, si trova esposto e vulnerabile. Il generale di Davide, Abisai, che, come direbbe s. Paolo, pensa come l’uomo terreno, gli consiglia di approfittare della debolezza del suo nemico e ucciderlo. Davide, però, pone la sua fiducia nel Signore, non nelle proprie forze e sa che, nonostante tutto, Saul è consacrato al Signore, appartiene a Lui. Solo al Signore spetta rendere a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà.

«Ma a voi che ascoltate, io dico...» Nel Vangelo di Luca la pericope di questa domenica si apre con la congiunzione avversativa “ma” (non riportata dal lezionario) che rende esplicito l’invito a prendere le distanze dall’atteggiamento prima descritto: “ricchezza” e fiducia nelle proprie forze e nell’approvazione degli uomini. Noi che ascoltiamo la Parola siamo invitati a vivere in un atteggiamento diverso: siamo invitati a confidare nel Signore e non nelle nostre forze, a fare del bene e amare incondizionatamente, senza sperarne nulla, così come siamo amati dal Padre. 

«Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla» Il Vangelo di oggi ci invita a vette altissime: perdonare e fare del bene anche a chi ci fa del male, pregare per i nostri nemici. Mete talmente alte, che da qualcuno sono considerate irraggiungibili. Solo comportandoci così, tuttavia, saremo riconosciuti come figli dell’Altissimo, che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi,  e potremo renderci conto se siamo passati dalla morte alla Vita. Lo dice chiaramente l’Apostolo Giovanni nella sua prima lettera: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte.» (1Gv 3,14).

Rinunciamo, quindi, a farci giustizia da soli. Come il Padre Misericordioso, diamo tempo ai fratelli per pentirsi. Ricordandoci, inoltre, che ogni giorno preghiamo il Padre: rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori; facciamo attenzione ad essere generosi nel perdono perché la misericordia nei nostri confronti possa essere altrettanto abbondante. Faccio notare, infine, che questa è l’unica petizione del Padre Nostro che Gesù riprende e commenta: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.» (Mt 6,14-15).

Riconoscendo la nostra povertà e piccolezza, allora, lasciamo a Dio il giudizio. Verrà il momento in cui ciascuno sperimenterà i frutti delle proprie scelte: la “morte”, l’eterna mancanza della “Vita”, della pienezza, del senso; o la “Vita eterna”, la gioia piena, la felicità che non passa. Tutte cose che sperimentiamo già qui nella misura in cui viviamo in Dio o senza di Lui.

«Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla». Torna l’appello alla povertà, a non confidare nella carne, a fare del bene senza la condizione della reciprocità, a non sperare nulla dal bene che facciamo. Se amiamo quelli che ci amano, se poniamo come condizione al nostro amore il fatto di essere a nostra volta amati, e facciamo del bene per ricevere altrettanto, stiamo ponendo la nostra fiducia sulle nostre forze, stiamo cercando una “ricchezza” su cui confidare e ricadiamo nella maledizione dell’uomo che confida nell’uomo. Ciò vale nei confronti degli “uomini” che siamo chiamati ad amare “gratuitamente”, anche se a nostro parere non se lo meritano; ma vale anche nei confronti di Dio che siamo chiamati ad amare per se stesso, da figli e non da “mercenari” che fanno qualcosa per ottenere una ricompensa.

Le mete oggi indicate nel Vangelo sono altissime, ma imprescindibili per chi vuole seguire il Maestro sulla via della Vita. Benché altissime, inoltre, sono mete “alla nostra portata”. Come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura, infatti, con il Battesimo siamo stati conformati all’Uomo Celeste, al nostro Signore Gesù Cristo, abbiamo ricevuto lo Spirito Santo: lasciamolo operare nella nostra vita.

Fr. Marco

sabato 15 febbraio 2025

Maledetti o beati?

 «Così dice il Signore: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.”» (Ger 17,5-8).

«Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.» (1 Cor 15,12.16-20)

«Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.» (Lc 6,17.20-26)

Oggi, sesta domenica del Tempo Ordinario, la Parola di Dio ci chiama a riflettere sul “nostro fondamento”, su ciò in cui poniamo la nostra fiducia e la nostra speranza.

«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo» Nella prima lettura il profeta Geremia dichiara maledetto l’uomo che pone la propria speranza “nell’uomo”, cioè in sé stesso, nei propri averi, nelle proprie capacità, nelle “alleanze” che ha stipulato con i potenti di questo mondo. Non perché Dio lo maledice (Lui, datore di ogni bene, ama tutti gli uomini), ma perché, staccandosi dalla fonte del Bene, non potrà che restare deluso. Di quest’uomo è detto che non vedrà venire il bene. Costui, infatti, “lega le  mani a Dio”, Gli impedisce di donargli il bene perché Lo esclude dal suo orizzonte decisionale. 

L’uomo che confida nell’uomo, così come è descritto nella prima lettura, infatti, è “pieno di sé”, autoreferenziale. Lungi dall’affidarsi al Signore, dal lasciarsi guidare, costui si affida alle proprie ricchezze e alle proprie forze per ottenere ciò che ritiene essere bene per sé. Magari può apparire religioso, ma la sua vita si svolge “a prescindere da Dio”. Allontanandosi da Dio, separandosi dalla fonte della Vita, presto tutto attorno a lui parlerà di morte, di non senso: dimorerà in luoghi aridi, nel deserto …

Attorno a noi, purtroppo, non mancano esempi di questo tipo: uomini e donne che vogliono piegare tutto alla propria volontà, che vogliono prescindere da ogni oggettività. Fratelli e sorelle che vivono come se Dio non ci fosse, al massimo relegandolo alla sfera intimistica, facendosi il loro dio che non li disturba. Con le loro scelte, tali uomini e donne si creano il loro deserto … È una realtà attualissima nelle scelte etiche che la società civile è chiamata a fare: l’uomo che confida nell’uomo non vede più il bene. Ha smarrito il senso profondo dei suoi atti.

«Benedetto l’uomo che confida nel Signore» … «Beati voi, poveri». Confidare nel Signore, essere “poveri” dinanzi a Dio, significa porre nel Signore il proprio fondamento, la propria fiducia: lasciarsi guidare da Lui. Non con l’atteggiamento passivo di chi  “sta con le mani in mano”, ma facendo le nostre scelte e prendendo le nostre decisioni a partire da una Parola che ci interpella. Significa, allora, accogliere l’orizzonte di Dio nei nostri processi decisionali. Essere consapevoli che è Lui la fonte di ogni Bene a partire dalla quale siamo chiamati ad agire.

Probabilmente questo ci porterà ad andare controcorrente, ad essere rifiutati dal mondo, ad essere ritenuti pazzi, magari dei “fondamentalisti”. Oggi il Signore ci ricorda: «Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo». 

«Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» Nella seconda lettura di oggi, San Paolo ci richiama alla fede nella resurrezione, a spingere il nostro sguardo al fine ultimo della nostra vita. È importante allargare i nostri orizzonti di senso, non restare ancorati ad una immanenza che ci ingabbia. Anche questo pericolo è concreto e attuale: quanti fratelli e sorelle, anche nella Chiesa, vivono la religiosità come una garanzia che non gli accadrà nulla di male; quando le inevitabili difficoltà della vita li colgono non possono che restare scandalizzati. A costoro oggi San Paolo dice: «Se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare».

Allora: Benedetto l’uomo  che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. Poniamo in Lui la nostra fiducia, accogliamo la Sua Parola e lasciamoci guidare. La nostra vita sarà feconda, ricca di frutti per la Vita Eterna.

Fr. Marco

sabato 8 febbraio 2025

Sulla tua parola getterò le reti

 «“Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”.  … “Eccomi, manda me!”». (Is 6,1-2.3-8)

​«Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo … Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.» (1Cor 15,1-11)

« “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. … “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”. … “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”». (Lc 5,1-11)

La Parola di Dio della quinta domenica del Tempo Ordinario, quest’anno ci presenta il mistero della vocazione ad un particolare ministero: l’annuncio della Parola. Il Signore sceglie di servirsi di uomini limitati e peccatori per l’annuncio della Sua grandezza e del Suo Amore.

Il Profeta Isaia, nella prima lettura, racconta la visione avuta probabilmente durante una liturgia al Tempio: gli si manifesta la potenza e maestà di Dio, il “tre volte Santo”. Dinanzi alla gloria e santità di Dio, Isaia ha una bruciante consapevolezza del proprio peccato e della propria indegnità e ne è atterrito: «Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono». Il profeta, tuttavia, fa anche esperienza della infinita misericordia di Dio la cui Grazia e Santità sono infinitamente più grandi del suo peccato. Purificato dal proprio peccato e acceso dall’amore per Dio, Isaia è reso ardito: «Eccomi, manda me!». Forse è proprio a questa immagine del tizzone ardente che si è ispirata S. Teresa di Gesù Bambino per la sua poesia: «Se avessi mai commesso, il peggiore dei crimini per sempre manterrei la stessa fiducia, poiché io so che questa moltitudine di offese non è che goccia d’acqua in un braciere ardente.».

«… sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo» Anche san Paolo, come ogni vocato nella Scrittura, fa questa esperienza della propria indegnità e della infinita misericordia di Dio che lo sceglie liberamente senza suo merito, lo purifica con il suo infinito amore e lo chiama a fidarsi di Lui.

«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» Nella pagina di Vangelo di oggi leggiamo il racconto della vocazione di Pietro che, dopo avere ascoltato Gesù, e avere assistito a diverse guarigioni, è disposto a fidarsi di Lui, a mettere in discussione tutto ciò che conosce e ad affrontare la fatica che questo comporta (avevano già lavato e rassettato le reti!). Forse la fede di Pietro, nonostante ciò che ha visto e sentito, non è ancora perfetta. Forse nella sua frase c’è una connotazione di “sfida”. Da qui, dunque lo stupore e la confessione del proprio peccato dinanzi la grande abbondanza di pesci che riempiono le reti: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». A Gesù, tuttavia, basta questa fiducia, magari imperfetta, ma comunque operosa, per mostrare la grande potenza di Dio.

«Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» Fatta l’esperienza della grande potenza di Dio, a Pietro viene chiesto di continuare a fidarsi, di crescere nella Fede e lasciare ogni sua certezza, per mettersi alla sequela del Maestro e annunciare il Regno.

«Maestro, abbiamo faticato tutta la notte …». La Parola di Dio di oggi, inoltre, mette in evidenza la differenza tra chi “fatica” senza Dio e chi lascia che la Grazia lo muova alla fatica. San Paolo afferma: «ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (II lettura). Se “fatichiamo” secondo i nostri criteri, i nostri ragionamenti, anche dotti, secondo i nostri programmi, rischiamo di faticare invano. Senza di Lui non possiamo far nulla! Per questo è indispensabile per ogni chiamato sperimentare la propria inadeguatezza, riconoscere la propria pochezza, e affidarsi realmente e totalmente a Colui che lo chiama. Lasciarsi guidare dalla Grazia. Solo in tal modo porteremo frutti.

Credo sia da sottolineare a questo punto che tutti i battezzati siamo chiamati, tutti i battezzati abbiamo una missione da compiere: annunciare il Vangelo nel nostro contesto vitale, testimoniare la presenza di Gesù nel mondo attraverso di noi. Come potremo adempiere questa missione? Solo fidandoci di Lui, “gettando le reti” sulla Sua Parola e non su ciò che secondo la logica del mondo ci sembra ragionevole. Impariamo a scegliere e ad agire non in base alla sapienza e prudenza umana, ma in base alla logica del Vangelo. Sperimenteremo la potenza della Grazia.

Non lasciamoci spaventare dai nostri limiti, dai nostri peccati: l’Amore Misericordioso che ci chiama, ci conosce e ci ama: non si scandalizza delle nostre miserie e ci dona la grazia per superarle. Fidiamoci di Lui e combattiamo virilmente per superare i nostri limiti e peccati. Non arrendiamoci alle nostre miserie, ma non scandalizziamoci: non siamo stati chiamati perché siamo “perfetti” o “degni”, ma per il mistero del Suo Amore gratuito.

Fr. Marco

venerdì 31 gennaio 2025

Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai

 «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; … Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai.» (Ml 3,1-4)

«… doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.» (Eb 2,14-18)

«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». (Lc 2, 22-40)

Questa domenica celebriamo la festa della presentazione del Signore al Tempio. Una festa che si svolgeva già a Gerusalemme nel IV secolo con il nome greco di Hypapante, “festa dell’incontro”. Celebra l’incontro tra la “profezia” rappresentata dal vecchio Simeone, e il suo compimento, il Cristo; tra il popolo redento, rappresentato dalla profetessa Anna, e il Redentore.

È una festa che “fa da ponte” tra il Natale, cui è legata per i quaranta giorni trascorsi (periodo rituale dopo il quale la donna che aveva partorito poteva entrare nel Tempio) e la Pasqua, richiamata dalle parole del santo Simeone.

«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele» Il santo Simeone, guidato dallo Spirito, riconosce in quel bambino che viene portato al Tempio per presentarlo al Signore, il Salvatore del mondo e lo addita come “segno di contraddizione”: è lui il discrimine. Il mondo verrà giudicato a partire dal modo in cui avrà accolto il Signore che viene. Soltanto accogliendo il Cristo come nostro Signore, Egli sarà per noi risurrezione e vita. Tale accoglienza, però, non può avvenire solo a parole («non chi dice Signore, Signore …»), ma deve esprimersi in una vita vissuta nella Signoria di Cristo, in obbedienza alla Sua volontà.

«Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» Quest’oggi è anche la giornata della vita consacrata, il giorno dedicato a quanti hanno risposto alla chiamata del Signore ad una vita consacrata in maniera particolare ed esclusiva a Lui. Se dico  “in maniera particolare ed esclusiva” è perché tutti i battezzati siamo in realtà consacrati al Signore, conformati a Lui, innestati in Lui. Alcuni battezzati, tuttavia, siamo chiamati a vivere questa consacrazione in maniera più radicale dedicandoci esclusivamente alla causa del Regno per essere così, in maniera, particolare portatori della luce di Cristo ai fratelli (il modo in cui riesco realmente a vivere questa missione, lo affido alla misericordia del Signore.).

Il simbolo delle candele, infatti, richiama da vicino il Cristo risorto (di cui il cero Pasquale è il simbolo per eccellenza) in cui anche noi, battezzati, siamo risorti. Al nostro battesimo abbiamo ricevuto una candela accesa al cero Pasquale: è il simbolo della Fede alla luce della quale siamo chiamati a vivere. Tale Fede è una luce che non possiamo “mettere sotto il moggio”, che non possiamo nascondere. Una luce della quale siamo responsabili, che dobbiamo alimentare con la grazia dei sacramenti e l’ascolto assiduo della Parola, perché non si spenga. Come Cristo, “luce delle genti” e “segno di contraddizione”, anche noi siamo chiamati a “non conformarci alla mentalità di questo mondo” (Cfr. Rm 12) per portare, ai fratelli che sono nelle tenebre, la luce di Cristo.

«Gesù disse di essere venuto a portare il fuoco sulla terra (Lc. 12, 49); non era, certo, il fuoco materiale che brucia e che distrugge, ma il fuoco che riscalda: l’amore. Esso doveva operare il grande disgelo del mondo attanagliato dal gelo dell’egoismo e dell’odio. […] La luce che ci ha affidato era, dunque, null’altro che il precetto dell’amore: Amatevi gli uni gli altri; amate anche i vostri nemici. È questa la luce che dobbiamo portare con noi, ogni volta di nuovo, dalla chiesa, per far luce “a tutti quelli che sono nella casa”, a quelli con cui viviamo la nostra giornata. È, in senso evangelico, una luce posta sul candelabro il cristiano che si sforza di essere comprensivo con le persone, a cominciare dalle più vicine, che non ha parole amare di critica e di disapprovazione per tutti, che sa incoraggiare un piccolo sforzo di bene negli altri.» (P. Raniero Cantalamessa)

Auguri, dunque, a tutti noi consacrati nel battesimo: che la luce dell’Amore che Cristo ha acceso nei nostri cuori possa ardere in noi ed essere luce che purifica la nostra vita e illumina e riscalda la vita dei nostri fratelli.

Fr. Marco

sabato 25 gennaio 2025

Lo Spirito del Signore mi ha mandato a proclamare l’anno di grazia del Signore

 «Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», […] I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.» (Ne 8,2-4.5-6.8-10)

«Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.» (1Cor 12,12-30)

«In quel tempo, Gesù […] Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. […]  Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”».(Lc 1,1-4; 4,14-21)

Dal 2019, per volontà di papa Francesco, la III Domenica del Tempo ordinario è la “Domenica della Parola”, un’occasione e un invito a riscoprire la fondamentale dimensione dell’ascolto. Questa domenica, infatti, le letture che la liturgia ci propone trattano proprio della centralità della Parola di Dio nella vita di fede. Sia nella prima lettura che nel Vangelo ci viene descritta una “liturgia della Parola” e la sua efficacia come manifestazione e attualizzazione del disegno di Dio.

Nella prima lettura, tratta dal Libro di Neemia, lo scriba Esdra proclama il libro della Legge di Dio al “resto d’Israele” di ritorno dall’esilio. La reazione del popolo è un pianto di pentimento e di gioia: pentimento per il peccato che li ha allontanati dalla Terra che aveva loro donato il Signore; gioia e gratitudine perché la fedeltà del Signore li ha ricondotti in Patria e permette loro di ascoltare ancora quella Parola che li costituisce “popolo di Dio”. A questa reazione Esdra e Neemia esclamano: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!»

Nella pagina di Vangelo, ascoltiamo di Gesù che entra di sabato nella Sinagoga e, dopo avere proclamato un brano tratto dal profeta Isaia, afferma: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Con Gesù, infatti, è arrivato “l’oggi” della salvezza e si realizza pienamente ciò che i profeti avevano annunciato: ai poveri è portato il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, è proclamato l’anno di grazia del Signore. Quest’anno in cui si celebra il Giubileo ordinario questa Parola risulta quanto mai attuale: ci è donata la possibilità di fare esperienza particolare della grazia di Dio ottenendo la remissione dei peccati per ravvivare la nostra Speranza.

«… mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione … rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» Il contesto immediato in cui Isaia proclama queste parole ha a che fare con l’anno giubilare che ricorreva ogni “sette settimane di anni” in cui venivano azzerati tutti i debiti e ciascun israelita rientrava in possesso di quella “porzione di terra promessa” che gli era stata assegnata. I poveri di cui parla, quindi, sono sicuramente anche “indigenti”. Ciò tuttavia non basta per descrivere i poveri cui si riferisce Gesù: si può essere “ricchi” anche possedendo poco, se a quel poco attacchiamo il cuore e facciamo dipendere da esso la nostra salvezza. I poveri ai quali si rivolge Gesù, invece, sono coloro che sanno di non potere mai “bastare a se stessi” e tutto si aspettano dal Signore; coloro che sanno che, per quanti beni possano possedere, questi non potranno mai dare loro la Vita; per questo sono disponibili alla condivisione. La condivisione, infatti, è un requisito essenziale dell’essere veramente poveri secondo Dio: il prenderci cura gli uni degli altri come membra di uno stesso corpo (vedi la seconda lettura) nella consapevolezza di avere un Padre che si prende cura di noi.

A questi poveri di JHWH, poveri secondo Dio, viene portato “il lieto annuncio”: il Signore si prende cura di loro; è entrato nella storia per liberare coloro che vivono nella schiavitù del peccato, rimettere “i debiti” che ci allontanavano dalla Grazia di Dio e donarci l’eredità e la dignità di Figli di Dio. Con Gesù, infatti, l’anno di grazia del Signore, l’anno giubilare, raggiunge il suo senso pieno e più vero e si estende all’Oggi della Parola: l’oggi in cui la Parola ascoltata e creduta ci muove all’amore fiducioso in Dio e all’amore dei fratelli.

Avviandomi alla conclusione, vorrei sottolineare l’atteggiamento di pentimento e conversione manifestato nella prima lettura dal popolo salvato: il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Gesù, infatti, rivelatore della Misericordia del Padre, se da una parte non ci condanna per il nostro peccato («non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» Gv 12,47), dall’altra ci chiede il pentimento per il nostro peccato e ci dona la grazia di lasciarlo, di cambiare vita. Una mal intesa “misericordia” che ci lasciasse schiavi della nostra miseria non sarebbe vera Misericordia che salva. In ogni incontro salvifico con i peccatori, Gesù dona il perdono e chiede di lasciare la via del peccato: «Va e non peccare più».

Accogliendo, allora, la Misericordia del Padre che viene a proclamare l’Anno di Grazia del Signore, lasciamoci raggiungere dalla Parola ed esaminiamo alla luce di Essa la nostra vita. Scoprendo quanta Misericordia il Signore usa a noi, prendiamoci cura gli uni degli altri soccorrendo i nostri fratelli e sorelle nella miseria come anche noi vogliamo essere soccorsi da loro.

Fr. Marco