mercoledì 31 dicembre 2025

Accogliendo il Salvatore, coltiviamo lo stupore

 

« … porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6, 22-27)

«Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.» (Gal 4,4-7)

«Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.» (Lc 2,16-21)

Il primo giorno di ogni anno la Chiesa celebra la solennità di Maria Santissima Madre di Dio. In questo giorno solenne, che per volontà di s. Paolo VI è anche e la giornata mondiale della Pace, la liturgia della Parola si apre con la benedizione del Signore: attraverso la sua santissima Madre, il Signore fa splendere il suo volto sui suoi consacrati. L'infinita tenerezza della maternità di Maria è un riflesso della paternità di Dio.

Se consideriamo che la solennità ha anche i primi vespri celebrati il 31 dicembre, ci accorgiamo che ogni nostro anno finisce ed inizia sotto il segno della benedizione di Dio. Tutto il nostro tempo, quindi, viene posto sotto la benedizione divina e l’intercessione della santissima Madre di Dio Maria.

Il Vangelo di questa solennità ci porta ancora una volta, insieme ai pastori, davanti la mangiatoia in cui è adagiato Gesù, il Salvatore, che viene nel fragile segno di un bambino. Anche noi, come i pastori, siamo invitati a lasciarci prendere dallo stupore. In una società come quella attuale dove sembra che niente possa più stupirci, dove assistiamo continuamente e con atteggiamento indifferente alle più alte vette e alle più abbiette miserie della nostra umanità, siamo invitati a riscoprire il sentimento di stupore che prese i pastori dinanzi la gloria di Dio manifestata nel bambino Gesù.

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia,… è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.» Così aveva annunciato l’angelo. Come i pastori, fidiamoci del Signore e lasciamo che continui a meravigliarci, a mostrarci le sue meraviglie! Il Signore della Storia si manifesta nella debolezza; primi testimoni della sua nascita sono coloro che non contano nulla: i pastori, considerati all’epoca poco più delle loro bestie; quel bambino adagiato in una mangiatoia e dall’apparenza del tutto ordinaria è il Salvatore del mondo, il Figlio eterno del Padre. Accostandosi agli eventi del Natale è importante apprendere l’atteggiamento di Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore»

Dinanzi le numerose guerre che ancora infiammano il mondo - oltre alla guerra di aggressione in Ucraina e il conflitto Israeliano-Palestinese, attualmente si contano una cinquantina di conflitti nel mondo - dinanzi la cattiveria che l’uomo ancora riesce a mostrare, dinanzi la sofferenza di tanti innocenti, sarebbe facile lasciarsi prendere dallo scoraggiamento: davvero è venuto nel mondo il Salvatore, il Principe della Pace?

Sì! Il Salvatore è nato; il Principe della Pace è venuto a portare la Pace nei nostri cuori; il Verbo eterno del Padre è venuto a dare a quanti lo accolgono il potere di diventare figli di Dio. È in questa accoglienza, però, il discrimine. Il Signore e Salvatore della Storia non si impone: si propone e aspetta di essere accolto. Verrà il giorno, però, quando il nostro tempo si sarà compiuto, in cui dovremo rendere conto al Giusto Giudice!

Iniziando oggi un nuovo anno civile, impariamo dalla nostra santissima Madre ad accogliere Gesù, a metterlo al centro della nostra vita. Maria, infatti, in quanto Madre di Dio, è costantemente rivolta al Figlio con lo sguardo, il pensiero, il cuore e tutta se stessa. Ha contemplato Gesù fin dalla sua nascita in costante atteggiamento di stupore e di adorazione.

Quest’oggi, allora, con le parole di quella che forse è la più antica preghiera mariana (III sec.), siamo invitati a pregare il Signore perché ci conceda la Pace per intercessione della Madre di Dio: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”. Alla sua protezione affidiamo tutte le vittime della violenza e dell'odio.

Guidati dalla Parola e resi figli nel Figlio, lasciamoci raggiungere dalla benedizione divina e lasciamo che il Suo volto risplenda attraverso di noi perché il mondo conosca quella Pace vera che il Signore è venuto a portare. Auguri di un Buon 2026.

Fr. Marco

sabato 27 dicembre 2025

Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!

«Chi onora il padre espìa i peccati e li eviterà e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita. Chi onora sua madre è come chi accumula tesori.» (Sir 3, 3-7.14-17)

«… rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto … La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori.» (Col 3,12-21)

«Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,13-15.19-23)

In questa festa della santa Famiglia il messaggio della Parola di Dio penso possa essere riassunto dal versetto di Giovanni 16,33: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!»

Nelle Messe della notte e del giorno del Natale del Signore ascoltavamo che «non c’era posto per loro nell’alloggio», che «venne fra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto». La Luce e la Vita del Mondo si è fatto visibile, è venuto in mezzo a noi, ma il mondo e quanti sono del mondo non lo vogliono accogliere, lo rifiutano anche violentemente. Una sorte condivisa anche da chi Lo accoglie: diventando figlio di Dio, sperimenta il rifiuto del mondo.

Il Vangelo di oggi, infatti, ci presenta la famiglia di Nazareth. Scopriamo subito che è una famiglia “esperta nel soffrire” (come la definisce l’inno delle Lodi mattutine), una famiglia perseguitata, che deve scappare e vivere da straniera in Egitto (il luogo biblico della schiavitù e oppressione). La Pace che viene a portare Gesù, infatti, non è assenza di tribolazioni, ma una capacità di affrontarle con la comunione animata dall’Amore; quell’amore che vince il mondo e che riempie di una forza invincibile.

Sappiamo da fonti storiche che il re Erode era un tiranno che non tollerava concorrenza al suo dominio arrivando per questo a sterminare la sua stessa famiglia. Nella parte del vangelo che questa domenica è omessa, è narrata la “strage degli innocenti” perpetrata dal re pur di eliminare Colui che è visto come concorrente del suo dominio. Purtroppo anche oggi continua la strage degli innocenti. Penso a tutti quei bambini sacrificati agli idoli dell'egoismo e del "progresso". Ai tanti bambini non nati; ai tanti uccisi dalle guerre; a quelli uccisi perché malati (penso alla eutanasia infantile approvata nel modernissimo nord Europa). Quanti innocenti sacrificati al nostro egoismo, alla nostra egolatria alla nostra pretesa di benessere!

La Famiglia è oggi osteggiata e messa in pericolo; non solo quella di Nazareth, ma le nostre famiglie, anzi l’istituzione famiglia. Oggi tante condizioni socioeconomiche minacciano la famiglia fin dal suo nascere: si ha sempre più paura di sposarsi e fare figli. La famiglia, inoltre, è minacciata dall’ “Erode” che è in noi, dal nostro egocentrismo elevato a sistema, divenuto individualismo ed edonismo. Oggi il piacere individuale, lo “stare bene”, è divenuto l’unico criterio delle scelte della nostra vita. Spinti da questa esigenza (che ha la sua legittimità, ma non va assolutizzata), facciamo spesso scelte che ci rovinano la vita e, inseguendo un miraggio, soffriamo e siamo causa di sofferenza: quante famiglie rovinate perché si proietta nell’altro la causa della propria insoddisfazione! Oltre a tutto ciò, una legislazione che non tiene conto del dato oggettivo della natura sembra volere equiparare qualunque relazione affettiva (finanche quella col proprio animale domestico!) a famiglia; in tal modo si svuotano di significato i concetti di amore e di famiglia: se tutto è famiglia, niente è famiglia! Non possiamo accettare supinamente tutto ciò, siamo chiamati a testimoniare il valore della famiglia.

Il Vangelo oggi ci presenta il modo principale per salvare la famiglia: l’obbedienza alla Parola di Dio. Giuseppe non esita un istante a mettere in pratica il comando dell’angelo. Non si cura dei sacrifici che questo comporterà e, in obbedienza, si mette in cammino. Anche per noi il modo per salvare la famiglia resta l’obbedienza alla Parola di Dio.

Ritengo che all’interno del matrimonio sia normale che, dopo qualche anno (speriamo tanti), passi l’entusiasmo iniziale; il rapporto si evolve: non c’è più la “fiamma viva” degli inizi; è importante, però, che questo fuoco sia curato e alimentato perché diventi “brace ardente”: la paglia brucia in fretta e con poco calore, è il carbone ardente che è capace di durare a lungo e dare calore.

Come ci ha ricordato Papa Leone XIV il 19 settembre scorso, «La Famiglie è un dono e un compito … Per essere Chiesa domestica e focolare dove arda il fuoco dello Spirito Santo, diffonda a tutti il suo calore e inviti tutti a questa speranza»

Nella seconda lettura di oggi San Paolo ci dà qualche insegnamento per curare questa fiamma: rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri. Gli atteggiamenti che l’apostolo ci descrive, mettono l’altro al centro, ci fanno uscire dal nostro individualismo proiettandoci fuori di noi.

Vorrei sottolineare l’invito alla sopportazione e sottomissione reciproca. Oggi il termine ha assunto generalmente un’accezione negativa, ma in realtà sopportare significa “mettersi sotto (sotto-mettersi) per sorreggere/portare”. Altrove Paolo invita a “portare i pesi gli uni degli altri” (cfr. Gal 6,2). È normale che l’altro, proprio perché tale, in alcuni momenti sia per me un peso, mi “pesti i piedi” (e più si è vicini, più questo è facile); ma dobbiamo ricordare che anche a noi capita di “pestare i piedi” dell’altro. Ciascuno di noi ha bisogno che gli si usi misericordia, che si abbia pazienza con lui. È per questo motivo che l’Apostolo ci rimanda al fatto che siamo perdonati da Dio per motivare l’esigenza del perdono reciproco. Tutto questo va fatto con Carità, non con rassegnazione; con quell’amore che solo è capace di farci uscire da noi. Quest’amore, però, va custodito, coltivato, curato. Per questo Paolo ci invita alla frequente relazione con la Parola, la verità di Dio su noi, che meditata e pregata assieme diventi il collante delle nostre diversità.

Un’ultima sottolineatura voglio farla sulla gratitudine: non stiamo a ricordare ciò che di male abbiamo subito, ma coltiviamo la gratitudine verso il Signore e verso l’altro per ciò che di bello ci hanno donato.

Preghiamo insieme perché ogni famiglia trovi la forza di vivere ogni giorno l’Amore vero che viene da Dio e, superando le difficoltà che la vita non risparmia a nessuno, costruisca ogni giorno la comunione e la pace.

Fr. Marco

mercoledì 24 dicembre 2025

Il Verbo si è fatto carne. A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio

«Ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.» (Is 9,1-6)

«É apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà …» (Tt 2,11-14)

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.» (Lc 2,1-14)

​È giunto il Natale del Signore. Celebriamo il memoriale della nascita del nostro Salvatore. Nella prima lettura della Messa della notte ascoltiamo la profezia di Isaia che annuncia il Principe della Pace che viene a portare la Luce, la Gioia e la Pace nel mondo. Particolarmente significativa è l’immagine dei calzari dei soldati e dei mantelli bruciati.

Nella pagina del Vangelo, ci viene raccontata la nascita del Salvatore che sceglie per sé l’umiltà e la debolezza. Gesù, infatti, il Verbo di Dio che si è fatto uomo, si manifesta al mondo nell’umile e indifeso bambinello deposto in una mangiatoia.

Egli, tuttavia è il Dio potente, il Principe della pace. Viene infatti a portare nel mondo la Pace vera che nasce da un cuore riconciliato, capace di riconoscere il Padre e quindi anche i fratelli. Un cuore in pace con se stesso e quindi con i fratelli che ha attorno.

«A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio».  Così proclama l’evangelista Giovanni nel Prologo del suo Vangelo che ascoltiamo nella messa del giorno di Natale. Se davvero accogliessimo Gesù nella nostra vita, se lo lasciassimo entrare nei nostri cuori per riconciliarli con il Padre e con i fratelli, non avremmo più bisogno di fare guerre. Conoscendo l’Amore del Padre, avendo in noi la Vita, potremmo accoglierci l’un l’altro, comportarci da figli di Dio che compiono le Sue opere.

«Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» Oggi come allora, purtroppo Gesù non trova posto nella nostra vita. Paradossalmente, siamo troppo impegnati a cercare la Vita, la felicità, la realizzazione, per accogliere Colui, l’unico, che può darcele! Ecco che allora continuiamo a fare guerra.

Contemplando la nascita del Principe della Pace, infatti, non posso fare a meno di pensare alle innumerevoli conflitti che ancora si combattono nel mondo, alle guerre che si combattono con le armi e che mietono innumerevoli vittime innocenti. Oltre la guerra di invasione Russa dell’Ucraina e al conflitto in Terra Santa tra Israeliani e Palestinesi, è lungo elenco dei conflitti ancora in corso: almeno 42 guerre nei vari continenti. Dall’Afghanistan, alla Libia, al Myanmar, alla Palestina, alla Nigeria, sono molte le popolazioni del mondo per cui il conflitto è la tragica normalità.

Penso, però, anche alle guerre che ancora combattiamo fra noi: guerre in famiglia, magari per una porzione di eredità; guerre sul posto di lavoro per accaparrarsi un po’ di autorità … guerre generate dalla brama di avere, di potere e di piacere. Siamo “assetati di vita”, ma nella nostra cecità la cerchiamo dove invece è morte.

«Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» Il Dio Potente e Principe della Pace viene a noi umile, si fa piccolo e indifeso, sceglie di non fare violenza alla nostra libertà (ci ama troppo per farlo), si fa bisognoso di accoglienza. Alla fine della Storia, però, quando il nostro tempo sarà compiuto e ciascuno di noi dovrà rendere conto delle sue opere, si manifesteranno quanti sono figli di Dio e quanti non lo sono. Nel Vangelo di Giovanni, parlando a quanti progettano di ucciderlo, così si rivolge Gesù: «Cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi ... voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui.» (Gv 8, 38-44). Accogliamo, allora, il Verbo che si fa carne, compiamo le opere dei figli di Dio e preghiamo per i nostri fratelli che, con le loro opere mostrano di non averlo accolto.

Viene nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, lasciamolo entrare nei nostri cuori perché illumini le nostre tenebre e ci riconcili con Dio e con i fratelli. Auguri. Che questo Natale possa essere realmente l’inizio di una vita nuova in cui splende la Luce di Cristo.

Fr. Marco

sabato 20 dicembre 2025

Non temere di credere al sogno. Dio è con noi

 «“Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto”. Ma Àcaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”». (Is 7,10-14)

« Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome » (Rm 1, 1-7)

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 18-24)

Ormai prossimi alla solennità del Natale, nella liturgia della Parola di questa quarta domenica di avvento il Signore ci invita a fidarci di Lui, a scacciare ogni timore e a riconoscere i segni della Sua opera in mezzo a noi.

«Il Signore stesso vi darà un segno» Nella prima lettura ascoltiamo il profeta Isaia che esorta il re Acaz a chiedere un segno e a fidarsi del Signore. Il regno è minacciato, ma il Signore, per bocca di Isaia, promette di sconfiggere i potenti invasori a condizione che Israele resti saldo nella fede (Cfr. Is. 7, 7-9). Un erede al trono sarà il segno che Dio non ha abbandonato il suo popolo (Emmanuele: Dio con noi).

Il Re Acaz, purtroppo, come spesso siamo soliti fare anche noi, mosso dalla paura sceglie di fidarsi più delle sue capacità e dei suoi intrighi che del Signore: rifiuta di chiedere e riconoscere il segno, per non essere costretto a credere nella promessa del Signore, e si allea con l’Assiria. Ciò che otterrà sarà proprio quello che temeva: il regno d’Israele sarà sottomesso alla dominazione assira.

Nella pagina del Vangelo, come a fare da contrappunto alla mancanza di fede di Acaz, ci viene presentata la figura di Giuseppe sposo di Maria. Anche Giuseppe è confuso ed è preso da timore: il concepimento di Maria lo sconvolge; pur credendo alla sua sposa, non capisce quale sia il suo ruolo in tutto questo. Mentre lui pensa di congedarla in segreto, di tirarsi indietro dinanzi a ciò che sta accadendo, l’angelo del Signore viene a dirgli: «Non temere ...».

Giuseppe, contrariamente ad Acaz, sceglie di fidarsi, di credere al sogno e a ciò che il Signore gli annuncia: si fida e obbedisce al comando del Signore. È proprio con la sua fiduciosa obbedienza che Giuseppe entra con un ruolo fondamentale nella storia della salvezza: dando il nome a Gesù, accogliendolo come figlio suo, lo inserirà nella discendenza di Davide e permetterà il compiersi della promessa (cfr. 2 Sam 7, 11-12).

«Non temere» Anche a noi, che ci stiamo preparando a celebrare il Natale, il Signore viene a chiedere di avere fiducia, di non agire sotto il condizionamento della paura, di riconoscere i segni e di lasciarlo operare nella nostra storia perché Egli possa ancora compiere meraviglie per noi e per i fratelli.

Chiediamo al Signore di purificare i nostri occhi per vedere e riconoscere i segni della Sua presenza. I segni dell’opera di Dio, infatti, facilmente possono passare inosservati. Il Signore non si impone con violenza, ma chiede di essere ascoltato “nella brezza leggera” (Cfr. 1Re 19, 12): la nascita di un erede quando il regno è minacciato, un sogno, un bambino in fasce in una mangiatoia.

L’evangelista Matteo usa due nomi per identificare il Verbo che si è fatto carne nel grembo di Maria: Gesù, che significa “Dio salva”, ed Emmanuele che, oltre a collegare quanto sta avvenendo alla profezia di Isaia, significa “Dio con Noi”. Egli è infatti il Dio che cammina con noi: non ci abbandona, non si dimentica di noi, ma è venuto per salvarci, perché abbiamo la Vita, perché la nostra gioia sia piena. Fidiamoci di Lui. Lasciamo che sia Lui ad insegnarci la Via della Vita.

Prepariamoci al Natale con l’obbedienza della fede perché possiamo accogliere e generare Gesù nello spirito nostro e dei fratelli ed essere in tal modo apostoli a gloria del suo nome.

Fr. Marco.

sabato 13 dicembre 2025

Costanti nell'attesa fiduciosa: il Signore è vicino!

   «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.» (Is 35,1-10)

«Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge … Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati» (Gc 5, 7-10)

«“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”». (Mt 11, 2-11)

La pagina di Vangelo di questa terza domenica di Avvento, detta domenica “gaudete” dalla prima parola dell’antifona d’ingresso («Rallegratevi sempre nel Signore …»), ci presenta la piena realizzazione dei segni messianici profetizzati dal profeta Isaia (prima lettura). Alla domanda di Giovani il Battista, Gesù risponde presentando le opere che compie a testimonianza del suo essere il Messia atteso: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.

«Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» Ritengo sia importante soffermarci su questa beatitudine. Gesù è il Messia atteso e realizza ciò che avevano annunciato i profeti; non si presenta, tuttavia, come re condottiero e vittorioso, come probabilmente lo immaginava Giovanni il Battista (vedi per esempio Mt 3,10-12), ma come un Messia mite che viene a donare la salvezza manifestando la paternità di Dio. Prima di proseguire vorrei sottolineare l’atteggiamento di Giovanni: pur avendo la sua idea del Messia atteso, non lascia che questa idea gli impedisca di riconoscere Gesù: rimane aperto alla novità di Dio. Anche noi siamo invitati a non pretendere di “ingabbiare” Dio nei nostri schemi: lasciamoci stupire dalle meraviglie che il Signore sa compiere al di là di ogni nostra attesa.

Oltre che a rallegrarci, questa domenica, siamo invitati ad imitare la costanza del contadino nel preservare la nostra speranza e la nostra attesa, a farci coraggio e ad attendere i frutti a suo tempo. Come ci ha ricordato papa Leone XIV nell’udienza del 17 settembre scorso: «La speranza cristiana non nasce nel rumore, ma nel silenzio di un’attesa abitata dall’amore»

Sembra, purtroppo, che molti dei nostri contemporanei abbiano perso il senso dell’attesa e della speranza: non ci si attende più nulla, il futuro appare come un vuoto che fa paura. Siamo disillusi, viviamo un presente disancorato da ogni attesa futura e, quindi, spesso senza senso. I nostri giovani (anche a causa di oggettive condizioni di precarietà) non sono più capaci di progettare o di sperare un futuro. Ciò che è peggio, però, è che non trovano più le forze per costruirlo questo futuro. Si accontentano di vivere un presente a cui manca il gusto e la pienezza perché vissuto senza speranza. La società dei consumi ci ha abituato a “tutto e subito” e ci troviamo incapaci di attendere, di desiderare. Il mito del “super uomo”, inoltre, ci ha convinti che dobbiamo salvarci da soli. Tutto ciò ci ha reso delusi, disillusi, sempre insoddisfatti e pronti a lamentarci di tutto e tutti.

Proprio in questo contesto di “deserto e terra arida” risuona l’invito di Isaia: rallegratevi, fatevi coraggio, non lasciatevi paralizzare dalla paura. Un invito a cui si associa S. Giacomo nella seconda lettura: siate costanti, imparate dall’agricoltore a sapere aspettare i frutti, e a lavorare animati dalla speranza. L’agricoltore, prepara il terreno, semina, irriga e attende. Non si accontenta del suo sacco di frumento, ma semina in attesa del più abbondante raccolto.

Facciamoci coraggio, allora, e ricominciamo a rallegrarci e a sperare. Per esercitarci in questo atteggiamento, S. Giacomo oggi ci da un consiglio molto pratico: «Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri». Smettiamo di lamentarci, sia dei fratelli che degli eventi. Accogliamoci e lasciamoci stupire dalle meraviglie di Dio.

Fr. Marco

domenica 7 dicembre 2025

Rallègrati, piena di grazia!

 «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,9-15.20)

«Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza.» (Rm 15,4-9)

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te … Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,26-38)

La Parola di Dio della solennità dell’Immacolata concezione di Maria si apre con il racconto delle conseguenze immediate del peccato dei progenitori: la rottura di ogni rapporto di amicizia: tra l’uomo e Dio («Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»), tra l’uomo e la donna («La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato») e tra l’uomo e il creato («Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato»).

Questa inimicizia e la conseguente morte dell’anima, questa incapacità di vedere Dio come il Padre che ci ama al di là di ogni nostra immaginazione e i fratelli e il creato come un dono d’amore, è la conseguenza del peccato originale che si tramanda per ogni generazione. La prima lettura però, si conclude con quello che viene chiamato il “proto-vangelo”: l’annuncio che la stirpe della donna avrebbe schiacciato il serpente antico.

È quello che avviene in Maria la quale, in vista dei meriti di Cristo, è da Lui redenta fin dal grembo materno e quindi resa capace, con la sua obbedienza fiduciosa al progetto del Padre, di essere “aurora della redenzione”, colei attraverso la quale è giunto nel mondo il Redentore.

In questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, però, vorrei che riflettessimo su ciò che questo dogma dice a noi per la nostra salvezza. Maria oggi ci viene presentata come “modello di santità e avvocata di grazia” (prefazio). L’opera salvifica di Cristo Redentore, che ci raggiunge nei sacramenti, compie in noi ciò che ha operato in Maria fin dal concepimento: Maria è immacolata fin dal grembo materno, noi diventiamo immacolati con il Battesimo.

A differenza di Maria, però, noi raramente corrispondiamo in maniera piena a questa Grazia: non aderiamo al progetto d’amore del Padre e ci rendiamo colpevoli con i nostri peccati volontari (mai compiuti da Maria). Per questo il Signore, che ci vuole santi e immacolati di fronte a lui nella carità, ha istituito il Sacramento della Riconciliazione: se ben celebrato (con un vero pentimento e un sincero proposito di non peccare più), la confessione ci restituisce la santità battesimale. Con il Sacramento della Comunione, inoltre, riceviamo in noi Gesù Cristo vivo e vero, la Grazia di Dio apparsa nel mondo, come lo chiama S. Paolo scrivendo a Tito (Cfr. Tt 2,11); anche noi, quindi, siamo pieni di Grazia!

Non sprechiamo tali doni d’amore, ma impegniamoci a corrispondere alla Grazia di cui Dio vuole colmarci e a compiere la volontà del Padre nella nostra vita.

La seconda lettura oggi ci invita a perseverare e a tenere viva la Speranza. Guardando a Maria tutta bella, ricolma di ogni virtù e senza alcuna macchia di peccato, la Chiesa tutta e ogni singolo battezzato oggi può contemplare ciò che il Signore vuole fare con ciascuno di noi e con la Chiesa nel suo insieme: un capolavoro di Santità.

Contemplando Maria la nostra madre immacolata, anche noi impegniamoci ogni giorno per dire a Dio la nostra risposta di obbedienza fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Fr. Marco

sabato 6 dicembre 2025

Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!

«In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.» (Is 11, 1-10)

«Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio.» (Rom 15, 4-9)

«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! … Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”» (Mt 3, 1-12)

​La Parola di Dio della seconda domenica di Avvento ci presenta i due testimoni della venuta del Signore: Isaia e Giovanni il Battista. Essi sono gli araldi del Signore, coloro che invitano il popolo a prepararsi ad accogliere il Signore che viene.

«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse» Nella prima lettura Isaia profetizza la venuta del Signore come un evento che dà speranza dove sembra non esservi più alcuna speranza. L’immagine è quella di un albero secolare abbattuto: la sua vita è finita; dalle radici però spunta un pollone, un germoglio dal quale tutto può ricominciare. La venuta del Signore è perciò oggi presentata come un evento di speranza. Un evento gioioso. Quello presentatoci da Isaia è un Dio che si piega sull’umanità disperata; un Dio che si “converte” a noi.

Nel Vangelo, Giovanni il Battista ci invita a rispondere, a questo Dio che si piega su di noi con amore misericordioso, con la nostra conversione: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» Siamo chiamati a correggere le nostre strade, a percorrere strade rette per incontrare il Signore che viene. Cosa significa convertirsi? Significa cambiare direzione alla nostra vita, “correggere la rotta”. La nostra vita è come una nave in balia dei venti e delle correnti: se non correggiamo continuamente la rotta tenendo fisso lo sguardo sulla “stella polare”, rischiamo di fare naufragio, di fallire, di vivere una vita senza senso. Per convertirci e raggiungere la meta della nostra salvezza bisogna sempre tenere lo sguardo fisso al Signore “che viene, che è venuto e che verrà”, e correggere tutti quei moti che ci spingono invece verso il nostro Io: egoismo, superbia, vanagloria ecc.

«Fate dunque un frutto degno della conversione.» Giovanni ci esorta ad una conversione che abbia ricadute concrete, visibili, una conversione che porti frutti. Non basta dire: “Sono cristiano. Vado a messa quasi ogni domenica”. Non basta dire “Appartengo al gruppo/comunità/fraternità …” . Ciò che è veramente importante è l’avere accolto nella propria vita il Signore e i fratelli; imparare a rinnegare costantemente il proprio Io per fare spazio al Tu di Dio e del fratello bisognoso. La nostra conversione deve tradursi in opere buone fatte a gloria di Dio. Opere fatte «senza che la destra sappia ciò che fa la sinistra».

«Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome» Prendendo spunto da S. Paolo, mi permetto di suggerire un esercizio per crescere nel decentramento: impariamo a dire “Grazie”. Principalmente a Dio per tutto ciò che ci dona. Riconosciamo che tutto è dono di Dio, di nostro abbiamo solo il peccato. Impariamo a dire grazie ai fratelli; ci aiuterà a ricordarci che ciò che loro ci danno o fanno per noi non ci è dovuto: non siamo noi il centro del mondo! Teniamo viva la speranza nel Signore che viene a manifestare la Sua fedeltà misericordiosa.

Fra Marco.

sabato 29 novembre 2025

Tenetevi pronti. Vegliate!

«“Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.» (Is 2,1-5)

«Fratelli … è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.» (Rm 13,11-14)

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti» (Mt 24,37-44)

​Il tempo liturgico dell’Avvento, che inizia oggi, è caratterizzato dall’attesa e dà il carattere a tutto l’Anno Liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta” (vedi per es. il Mistero della fede). I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore da attendere e a cui fare attenzione: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

Nella pagina di vangelo il Maestro ci invita a “vegliare” «perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Al verbo vegliare possono corrispondere almeno tre atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: “stare svegli”, “stare vigili” (attenti) e “fare vigilia”.

Oggi siamo invitati a “stare svegli”, a non cadere nel torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. «Come furono i giorni di Noè … non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» All’inizio del brano evangelico, Gesù riporta l’esempio dei contemporanei di Noè: si erano lasciati “stordire” dalla vita presente e non avevano prestato ascolto agli avvertimenti ricevuti. Il diluvio li ha quindi trovati impreparati e sono stati perduti. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, ad accontentarci della vita presente senza aspettare più niente, con rassegnazione, senza Speranza. Lo “stare svegli” significa, allora, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Stare svegli, inoltre, significa essere pronti a riconoscere il Signore quando viene a visitarci, nel povero o nel malato, e accoglierlo.

Siamo invitati, quindi, ad “essere vigili”, pronti a cogliere le occasioni di grazia per vivere la Carità e attenti a non cadere nelle trappole del diavolo che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). La più pericolosa tra queste trappole è l’insinuazione, nei momenti bui della vita, che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Vigiliamo usando bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede: ne dovremo rendere conto; non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che mai ci abbandona e sempre si prende cura di noi; anche quando ci chiede di entrare con lui nella valle oscura, il Suo bastone e il Suo vincastro ci danno sicurezza. (cfr. Sal 22/23).

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La nostra attesa vigiliare è caratterizzata dalla gioia: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia, è caratterizzato anche dalla necessità di “tenersi pronti”, di prepararsi all’incontro con il Signore, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della “penitenza” cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento, una penitenza che è un “convertirci”, un cambiare la direzione della nostra vita, un decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della “penitenza”, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio: in queste domeniche di Avvento, celebrando i vespri, ci sentiremo rivolgere l’esortazione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Mettendo al centro dei nostri pensieri la gioia per la vicinanza del Signore, siamo invitati a non stare ripiegati su noi stessi e sulle inevitabili contrarietà della vita. Accogliendo questo invito di S. Paolo, vi propongo un esercizio di “conversione”, di decentramento: provare ad avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Spesso, presi dalle difficoltà della vita e dai nostri malumori, non sarà semplice (chi mi conosce sa quanto sia difficile per me), ma … il Signore è vicino!

Fr. Marco

sabato 22 novembre 2025

Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno

 

«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». (2Sam 5, 1-3)

«Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.» (Col 1, 12-20)

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava […] E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”». (Lc 23, 35-43)

Questa domenica, ultima dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo. La regalità che ci presenta la pagina evangelica di oggi, tuttavia, è una regalità diversa da quella che intende il mondo: Cristo è un re che regna dalla Croce. È proprio in questo contesto così lontano dalla regalità mondana, però, che il “buon ladrone” è capace di riconoscere in quell’uomo crocifisso il Messia atteso, il re il cui regno non avrà mai fine: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Mi colpisce che tanti personaggi della pagina di Vangelo di oggi usino i termini “Cristo” e “re”; termini che appartengono intrinsecamente a Gesù, ma che qui vengono usati per scherno. Il “buon ladrone” non ha bisogno di usare questi titoli, che il mondo ha snaturato del loro senso, per riconoscere la regalità di Colui che è suo compagno di supplizio; è uno dei pochi personaggi del Vangelo di Luca che chiama il Signore per nome: Gesù, "Dio salva". Proprio perché consapevole della propria miseria e che nessun uomo potrà salvarlo né potrà salvarsi da solo, questo malfattore può dire in tutta verità "Gesù" e affidarsi alla salvezza che viene da Dio. E Gesù manifesta la sua regalità concedendo la Grazia: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Altrove Gesù aveva affermato: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Sulla Croce, infatti, Gesù è veramente Re secondo il cuore del Padre: non si lascia condizionare, non si lascia sopraffare da tutta la cattiveria e il male del mondo; non subisce gli eventi, ma li vive trasformandoli in un’offerta d’Amore. Elevato sulla Croce per amore nostro, Gesù manifesta pienamente la sua regalità: vince contro il peccato del mondo offrendo la propria vita e perdonando i suoi crocifissori; vince contro il tentatore che, attraverso chi gli sta attorno, continua a chiedergli di salvare se stesso.

«Salva te stesso». Un invito che torna tre volte in questa breve pagina di Vangelo. È la prospettiva egoistica ed egocentrica che regola il mondo. Attraverso i capi, i soldati e uno dei malfattori crocifissi con Lui,  il tentatore continua a suggerire a Gesù di preferire l’egoismo all’amore;  continua a suggerire l’illusione di salvare se stesso non fidandosi dell’amore del Padre. Gesù, però, non cade nell’inganno e, con una libertà veramente regale, si offre per Amore.

Celebrando la regalità di Cristo, oggi siamo chiamati a fare memoria anche della “nostra” regalità, di quella regalità di cui Gesù ci ha resi partecipi nel Battesimo conformandoci a Lui Re, Sacerdote e Profeta.

«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne». Nella prima lettura le tribù d’Israele fanno una professione di appartenenza a Davide che richiama il libro della Genesi (cfr. Gen 2,23). Un’espressione che allude ad un’appartenenza intima. Sappiamo che Davide è “un’immagine” (un typos) di Gesù Re Messia. Anche noi possiamo dire a Gesù Cristo “Ecco noi siamo tue ossa e tua carne”. Come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura, infatti, la Chiesa, l’assemblea dei fedeli innestati in Cristo per il Battesimo, è il corpo di Cristo.

Come Cristo, che oggi contempliamo re, anche noi siamo chiamati a vivere la nostra regalità sul peccato, sulle passioni e sul giudizio del mondo. Anche noi abbiamo ricevuto quella libertà regale che ci permette di trasformare la nostra vita in un’offerta d’amore. Non viviamo più, allora, come schiavi delle nostre passioni e dei piaceri passeggeri; facciamo il bene senza lasciarci condizionare dal giudizio del mondo (“che penseranno?”); non lasciamoci ingannare dall’illusione che “se non ci salviamo da soli, saremo persi”; è esattamente il contrario: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24).

Celebrando Cristo re dell’universo, allora, riconosciamo la Signoria di Cristo sulla nostra vita. Obbediamo a Lui per sperimentare la pienezza della regalità nella nostra vita. Impariamo dal nostro maestro Gesù Cristo la regalità “a gloria di Dio Padre” (Cfr. Fil 2,11).

Fr. Marco

sabato 15 novembre 2025

Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina

«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno … Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.» (Ml 3,19-20)

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.» (2Ts 3,7-12)

«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta … Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». (Lc 21, 5-19)

Siamo ​ormai prossimi alla fine dell’anno liturgico, per questo motivo la liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo Ordinario ci invita a guardare la nostra vita avendo come orizzonte le “realtà ultime”.

«Maestro, quando dunque accadranno queste cose …?» Il Maestro non risponde alla domanda sul quando se non descrivendo segni riscontrabili in ogni epoca: «Si solleverà nazione contro nazione …, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze…». Non è importante per noi conoscere “quando” verrà il giorno del Signore, ma è fondamentale vivere ogni giorno in modo da essere trovati pronti.

«Badate di non lasciarvi ingannare …» Gesù, inoltre, ci mette in guardia dai “falsi profeti”, ci invita a diffidare da profezie millenaristiche, messaggi autoreferenziali («Sono io») e segni grandiosi dal cielo che starebbero ad indicare la ormai prossima fine del mondo. Diffidiamo anche da coloro che per guadagno ci predicono il futuro. Il nostro futuro lo costruiamo ogni giorno collaborando al progetto d’amore che il Padre ha per noi (o, per nostra rovina, discostandoci da esso). Cercare di conoscere/controllare il futuro con la magia è una grave mancanza di Fede; è incompatibile con il dirsi cristiani. Oggi il Vangelo ci invita a perseverare nella Fede, a riconoscere, coi fatti e nella verità, Gesù come nostro Signore e a mettere la nostra vita nella Sue mani con la consapevolezza che il nostro tempo va verso il compimento: in qualunque momento può venire “il giorno” in cui per me il mondo sarà finito e sarò chiamato ad aprire gli occhi all’Eternità.

«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» Il messaggio del profeta Malachìa, riportato nella prima lettura, assume toni minacciosi per tutti coloro che con superbia non tengono conto del giudizio di Dio e commettono ogni sorta di ingiustizia: verrà il giorno del Signore e costoro, che si pensavano al di sopra di ogni giudizio, dovranno rendere conto della loro vita. Per coloro, invece, che riconoscono la Signoria di Dio sulla loro vita e vivono protesi verso il suo Regno, quel giorno verrà come il compimento della loro Speranza.

È a questo giorno che si riferisce Gesù invitando i suoi a relativizzare le realtà terrene: «... di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra». È costante per l’uomo la tentazione di “farsi da se”, di idolatrare il proprio lavoro quasi che esso possa dargli la Vita. Magari con la speranza di “sconfiggere la morte” realizzando opere che ci facciano continuare ad esistere nella memoria di chi verrà dopo di noi. Gesù, però, ci ricorda che la nostra Vita (la nostra salvezza) non dipende da ciò che siamo capaci di realizzare: passa la scena di questo mondo e non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Ciò che conta, quindi, non è tanto ciò che abbiamo realizzato, ma il motivo per cui lo abbiamo realizzato, l’orientamento che abbiamo dato alla nostra vita, il rinnegamento del proprio io per fare posto all’amore per Dio e per i fratelli (cfr. Mt 16,24-25). In questa prospettiva trova posto anche la persecuzione. Una conseguenza inevitabile se ci facciamo testimoni della logica evangelica, una logica diversa da quella del mondo e che il mondo non può accogliere.

In questa logica, infine, anche “la grazia di lavorare”, usando l’espressione di S. Francesco, trova la sua giusta collocazione come collaborazione all’opera creatrice di Dio e condizione in cui giungere alla piena realizzazione della nostra vita: la santità (cfr. Gaudium et Spes 67 e Lumen Gentium 41).

Alla tentazione di salvarsi la vita con il proprio lavoro e con i beni di questo mondo (una tentazione attualissima), San Paolo, nella seconda lettura, ne affianca una opposta: la tentazione di non lavorare e di attendere passivamente il giorno del Signore. A Tessalonica probabilmente la comunità cristiana, o alcuni suoi membri, era caduta in questo inganno. L’Apostolo, prima con il suo esempio e poi con il suo insegnamento, ribadisce la dignità, il senso e la necessità del lavoro.

Non preoccupiamoci, dunque, del quando sarà il giorno del Signore; preoccupiamoci piuttosto di come ci troverà quel giorno: intenti a gozzovigliare, indaffarati nelle nostre cose e dimentichi di Lui; oppure occupati nel lavoro che Lui ci ha assegnato e tutti protesi verso l’incontro?

Fr. Marco

sabato 8 novembre 2025

Santo è il tempio di Dio che siete voi

«In quei giorni, [un uomo, il cui aspetto era come di bronzo,] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente.» (Ez 47,1-2.8-9.12)

«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.» (1Cor 3,9c.-11.16-17)

«“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. » (Gv 2,13-22)

Anche questa domenica, come la scorsa settimana, la liturgia domenicale cede il posto a una festa che ha la precedenza: la dedicazione della Basilica Lateranense, la cattedrale del vescovo di Roma, la prima chiesa cristiana ufficiale, praticamente la chiesa madre della cristianità.

«Fratelli, voi siete edificio di Dio.» L’apostolo Paolo nella seconda lettura,  ci ricorda che festeggiare un edificio sacro, per quanto così importante e vetusto, deve sempre rimandare al significato simbolico che esso porta con sé: il tempio di Dio non è fatto di sassi e suppellettili, ma di pietre vive.

Come dicevo prima, la Basilica Lateranense essendo la cattedrale del Sommo Pontefice, il vescovo di Roma, è chiesa madre di tutte le chiese del mondo, e presiede alla carità e all’unità di tutta la Chiesa. Questo è il primo tema di riflessione: come un edificio non si regge se non ha un solido fondamento e se le sue pietre non sono perfettamente disposte e accostate tra loro, così il tempio di Dio, fatto di quelle pietre vive che siamo noi, richiede unità e concordia tra i suoi membri ma, soprattutto, che tutti quanti poggiamo saldamente su quella pietra angolare che è Cristo (Cfr Ef 2,20).

Nella pagina di Vangelo ascoltiamo il racconto dell’episodio conosciuto impropriamente come la “purificazione del tempio”. In realtà Gesù sta sancendo la fine del culto nel tempio. Da ora in poi Cristo è il vero tempio, il luogo dove possiamo incontrare Dio; la Chiesa è tempio di Dio solo se vive come un corpo il cui capo è Cristo e in cui non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Come ricorda l’evangelista, infatti, riportando la risposta alla domanda dei Giudei su come possa Gesù ricostruire in tre giorni un tempio che aveva richiesto quarantasei anni di lavori: «Egli parlava del tempio del suo corpo

«… vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro.» La Prima Lettura, ci presenta alcuni frammenti di una visione del profeta Ezechiele, fatta al tempo in cui Gerusalemme e il tempio erano stati distrutti. L’immagine del fiume che sgorga dal lato destro del tempio portando ovunque vita e risanando persino le acque del Mar Morto è evocativa, e i Padri della Chiesa non hanno faticato a vedervi una prefigurazione della scena della crocifissione: «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (cfr. Gv 19,33-35). È dal fianco squarciato di Gesù che scaturiscono i Sacramenti che ci rendono Chiesa e che la Chiesa amministra: un fiume che rallegra la città di Dio, come siamo invitati a ripetere al Salmo Responsoriale.

«… non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». Di questo tempio di Dio che siamo noi, come singoli battezzati e come comunità ecclesiale, dobbiamo avere cura, tenendo lontana ogni logica mercantile, ogni tentazione di entrare in una sorta di rapporto commerciale con Dio. È a questa perversione del culto che il Maestro reagisce: Israele ha “addomesticato” il suo Signore intraprendendo con Lui una sorta di mercato: osservanza formale scrupolosa in cambio di prodigi. L’amore e la comunione con Dio non trova più posto in questa logica mercantile. Gesù, per come oggi ci viene presentato nel Vangelo, appare quasi irriconoscibile: il più mite degli uomini si scaglia, con una “violenza” che ricorda quella del profeta Elia, contro la mentalità in cui il culto (i sacrifici) e le offerte sono intese come un “accumulare crediti” dinanzi a Dio; non si cerca Dio, ma il proprio interesse; non c’è più posto per la preghiera, il dialogo d’amore cercato da Dio.

Ricordando allora che siamo tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in noi, ringraziamo il Signore e coltiviamo il rapporto d’Amore con Lui per essere sempre più conformi a Cristo, il “luogo santo” in cui ogni uomo può incontrare Dio.

Fr. Marco

domenica 2 novembre 2025

Venite, benedetti del Padre mio

«In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte un banchetto di grasse vivande.» (Is 25,6a.7-9)

«Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». (Rm 8,14-23)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 31-46)

Ogni anno, i primi due giorni di Novembre la Liturgia ci fa contemplare “le cose ultime”: giorno 1 contempliamo la nostra meta, la Gerusalemme del Cielo e la “Chiesa gloriosa”; giorno 2 ci uniamo in preghiera per commemorare i nostri fratelli e sorelle defunti; contempliamo la “Chiesa purgante” e il nostro pensiero si sposta su una tappa obbligata della nostra esistenza: sorella morte «dalla quale nullo homo vivente può scampare» (s. Francesco d’Assisi) e che ci apre le porte dell’eternità.

Il secondo schema della liturgia della Parola, che qui ho scelto di seguire, ci conforta sul destino dei nostri cari defunti e quindi sul destino a cui andiamo incontro anche noi: abbiamo ricevuto lo Spirito del Figlio e, se abbiamo lasciato che ci conformasse a Lui con i fatti e nella verità e non a parole e con la lingua (Cfr. 1 Gv 3,18), saremo riconosciuti benedetti ed introdotti al banchetto del Cielo preparato per noi fin dalla creazione del mondo.

Il Vangelo di oggi, infatti, aprendoci uno squarcio sul compimento del Tempo (che esistenzialmente per noi coinciderà con il compimento del nostro tempo), ci indica anche su cosa saremo valutati, quale sarà il criterio di discrimine tra i benedetti del Padre e i maledetti: l’amore concreto che avremo saputo vivere verso gli ultimi i piccoli, quelli dai quali non possiamo aspettarci niente in cambio e nei quali il Figlio eterno del Padre ha voluto essere riconosciuto.

«Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere …?» mi colpisce che sia i giusti sia i reprobi, restino stupiti della identificazione del Signore nei fratelli bisognosi. I primi operano con carità sincera e non interessata; i secondi, invece, ignorano i fratelli nel bisogno forse perché interessati solo a se stessi.

«Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» Mi conforta sempre notare che il fuoco eterno, l’inferno, non è preparato per noi: il Padre non vuole nessuno all’inferno. Siamo noi che con le nostre scelte di chiusura all’Amore e quindi agli altri da aiutare e da cui essere soccorsi, ci condanniamo all’inferno, a quella bruciante solitudine che lascia in noi un vuoto incolmabile. Vita eterna e fuoco eterno, infatti, iniziano ad essere sperimentati qui con le nostre scelte di amore o egoismo.

In questa giornata affidiamo alla Misericordia del Signore i nostri fratelli e sorelle defunti, intercediamo per loro nella sicura speranza che l’Amore che hanno vissuto e che ci ha uniti in vita sia loro moltiplicato e li purifichi dalle imperfezioni che hanno macchiato la loro esistenza terrena. Oggi, però è anche un’occasione preziosa per fare il punto sulla nostra vita, sull’orientamento che le stiamo dando, sull’Amore concreto che stiamo vivendo: se oggi il Signore mi chiamasse a Sé, sarei riconosciuto Figlio e annoverato tra i benedetti del Padre?

Intercedendo per i nostri cari che hanno concluso la loro esistenza terrena, chiediamo anche la loro preghiera perché possiamo fare tesoro del tempo che ci resta e fare opere di vita eterna. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 31 ottobre 2025

Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare

 «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7,2-4.9-14)

«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.» (1Gv 3,1-3)

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». (Mt 5,1-12)

La liturgia di oggi, solennità di Tutti i Santi, celebra tutti cristiani che hanno vissuto pienamente il loro battesimo e hanno realizzato la chiamata alla santità, anche quelli “anonimi”, non canonizzati. Oggi, infatti, la Chiesa ci ricorda anche che tutti siamo chiamati alla santità,

É importante, però, chiarire cosa significhi essere santo. Fare miracoli? Leggere le coscienze? Avere il dono della bilocazione? … No! Queste sono solo manifestazioni visibili, doni che il Signore può concedere per il bene della Chiesa. Essere santo significa principalmente e fondamentalmente vivere il proprio Battesimo, fare giungere a pienezza quella conformità a Cristo che ci è stata donata, cioè vivere la Fede, la Speranza e la Carità.

Vivere la Fede non significa credere che Dio esiste: questo lo credono anche i filosofi e lo sanno anche i demòni. Avere la Fede, vivere la Fede ricevuta nel nostro Battesimo, significa credere che Dio è il Padre che ci ama dall’eternità; che Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, si è fatto uomo, è morto in croce per la nostra giustificazione ed è risorto per la nostra salvezza; che lo Spirito Santo, uno con il Padre e il Figlio, è stato effuso nei nostri cuori e ci guida alla Vita eterna. Avere Fede significa fidarsi del Signore e riconoscere la Sua Signoria nella nostra vita.

La Speranza virtù teologale che abbiamo ricevuto nel Battesimo, non ha niente a che fare con la “speranza incerta” di chi “spera” di vincere il super enalotto, una speranza di cui giustamente il proverbio dice «chi di speranza vive, disperato muore». La Speranza cristiana è “Speranza Certa”, come direbbe S. Francesco: è la consapevolezza, fondata sulla Fede, che il Padre ci ha salvati, ci ha destinati alla Vita eterna e ad essa ci conduce se noi ci lasciamo guidare. Come dice S. Giovanni nella seconda lettura di oggi: «noi fin d’ora sappiamo di essere Figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato …»

Vivere la Carità, infine, ha ben poco a che fare con “l’elemosina” fatta dando il nostro superfluo perché il fratello bisognoso smetta di importunarci. La Carità è l’amore stesso di Dio che arde nei nostri cuori e che ci spinge ad Amare Dio e i fratelli più di noi stessi. È la capacità di amare gratuitamente, di donare amore anche quando non siamo contraccambiati.

Vivendo pienamente la Fede, la Speranza e la Carità, cioè la conformità a Cristo ricevuta nel Battesimo, saremo santi, sperimenteremo quella Vita pienamente realizzata che il Padre ha pensato per noi. Solo così riusciremo a vivere le Beatitudini, che oggi ci vengono riproposte: potremo essere realmente “poveri in spirito” perché sapremo che la nostra vita non dipende da ciò che possediamo, ma è nelle mani di un Padre che si prende cura di noi. Potremo essere misericordiosi perché avremo fatto esperienza della misericordia del Padre che nel suo Figlio ci ha liberati dai peccati … ecc.

Come si fa ad avere la Fede, la Speranza e la Carità? È questione di “impegnarsi”? No! Per essere santi è importante lasciare operare Dio nella nostra vita, abbandonarsi a Lui: «Cercare il Signore, custodire la sua Parola, cercare di rispondere ad essa con la propria vita, crescere nelle virtù, questo rende forti i cuori dei giovani. Per questo occorre mantenere la “connessione” con Gesù, essere “in linea” con Lui, perché non crescerai nella felicità e nella santità solo con le tue forze e la tua mente» (Christus Vivit n. 158)

È Gesù che ci ha conformati a sé e che ci ha donato Fede, Speranza e Carità. Sono dono gratuito di Dio che ci è stato consegnato al momento del Battesimo: ogni battezzato ha in se il seme della Fede che produce i frutti della Speranza e della Carità. Un dono che ci chiama a responsabilità: se ci regalano una pianta che fa fiori meravigliosi, ma noi non la concimiamo, non la innaffiamo, non togliamo le erbacce e magari la teniamo al buio in un angolo nascosto della nostra casa, è forse colpa della pianta se non potrà fare fiori? Così è della nostra Fede: il Padre ce la dona con il Suo Spirito al momento del Battesimo; sta a noi però coltivarla, nutrirla, purificarla. Il Padre ce ne dà pure l’occasione con i Sacramenti. Nutriamo allora la nostra Fede, procuriamo di farla crescere e vedremo nascere nella nostra vita i frutti della Speranza e della Carità. Diventeremo così realmente ciò che siamo chiamati ad essere: santi che con la loro vita bella e piena saranno capaci di testimoniare al mondo la Bellezza di Dio perché il mondo possa trasformarsi ogni giorno di più nel Regno di Dio. Il Signore ce lo conceda anche per l’intercessione dei suoi santi che contemplano già la Sua Gloria. Auguri di santità.

Fr. Marco

 

sabato 25 ottobre 2025

O Dio, abbi pietà di me peccatore

«Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.» (Sir. 35, 15-17.20-22)

«Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.» (2Tm 4, 6-8.16-18)

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

La pagina di Vangelo della XXX domenica del Tempo Ordinario ci presenta la virtù dell’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli. Caratteristica fondamentale della preghiera continua che ci era raccomandata domenica scorsa.

Mi sembra importante chiarire che l’umiltà è una “virtù particolare”: come e più delle altre virtù va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario. Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà (I lettura). Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere (II lettura).

L’evangelista Luca è chiaro nel presentare la motivazione per cui il Maestro dice la parabola: «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.

«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Il Vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, inoltre, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo pensa di non avere bisogno di Dio!

Purtroppo mi è capitato di ascoltare “confessioni” che assomigliano alla “preghiera” del fariseo: iniziano con l’affermazione di non avere peccati (almeno non peccati gravi) e continuano con un elenco di opere buone. Sostanzialmente questi fratelli e sorelle vanno a “confessarsi” per formalità, perché è l’ennesima “opera buona” da aggiungere all’elenco, ma non sembrano convinti di avere bisogno della Misericordia del Padre.

«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso da quello del fariseo: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.

Ritengo sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio “cuore malato” potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro termine di riferimento, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.

A questo punto sarebbe facile (e comodo) cadere nella tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari incorrere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Come ci ricorda P. Raniero Cantalamessa, «Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.».

Fr. Marco

sabato 18 ottobre 2025

Il Padre farà loro giustizia prontamente

  «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk» (Es 17, 8-13)

«Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.» (2Tm 3,14 – 4,2)

«… Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». (Lc 18, 1-8)

Oggi, XXIX domenica del tempo ordinario, già dal primo versetto della pagina di Vangelo la Parola di Dio ci presenta quale insegnamento Gesù vuole darci: la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. Per farlo il Maestro utilizza un ragionamento a fortiori conosciuto dai sapienti del suo tempo: se l’insistenza della vedova ottiene giustizia dal giudice iniquo, quanto più il Padre ci darà ciò che ci serve? Solo bisogna perseverare nella preghiera con fiducia.

Come ci ricorda la prima lettura, infatti, solo con la preghiera possiamo trovare vittoria contro il nostro “avversario”, il “nemico” dei figli di Dio: il satana (in ebraico satàn indica proprio il nemico, l’avversario, l’accusatore), il diavolo (dal greco diàballo: “che separa”) che vuole separarci da Dio che è la Vita. Solo nella preghiera, inoltre, possiamo ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

«il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Voglio iniziare proprio da questo interrogativo con cui si conclude la pagina evangelica. Per pregare sempre senza stancarsi, infatti, è necessario mantenere desta la fede. Per contro, stancarsi di pregare significa non avere più fede/fiducia, convincersi che la nostra preghiera sia inutile, che Dio non ci ascolta e che “dobbiamo salvarci da soli”.

La preghiera autentica, quindi, si alimenta di fiducia, è l’espressione di un cuore di figlio che si fida del Padre e confida in Lui dal quale si sa amato. La preghiera, infatti, non è una “formula magica” con la quale convinciamo Dio a darci ciò che vogliamo. Chi intendesse così la preghiera dimostrerebbe di non avere fede in Dio: non sa (o almeno non ci crede veramente) che Dio è il Padre che conosce e vuole darci ciò che è buono per noi.

 In proposito San Giovanni Crisostomo ci ricorda che: «La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera.». La preghiera è un dialogo con Dio, tuttavia non è “questione di parole”: «Quando pregate, non sprecate parole come i pagani,  i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7).

Essendo dialogo, la preghiera ci mette in comunione con Dio, ci illumina, ci fa comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ecco l’esigenza del pregare sempre: la preghiera non serve a convincere Dio a darci ciò che vogliamo, ma a rimanere in comunione d’amore con Lui, a comprendere quale progetto d’amore il Padre ha per noi e ad avere la forza per realizzarlo anche quando passa per la “croce”. Le formule che i santi e la Chiesa ci hanno consegnato, i luoghi e i tempi particolarmente consacrati al dialogo con Dio, sono tutte cose buone nella misura in cui non spengono, ma ravvivano e “incanalano”, la spontaneità del cuore che si affida al Padre e confida in Lui.

L’evangelista Luca è quello che più degli altri tratta della preghiera e specialmente della preghiera di Gesù. Il Maestro è spesso presentato in preghiera, ma non certo per chiedere “cose”. La preghiera di Gesù presentataci da Luca consiste nel mettersi alla presenza del Padre, sperimentare la comunione con Lui per potere sempre meglio compiere la Sua volontà. Questo il Maestro ci ha insegnato consegnandoci il modello di ogni preghiera, il Padre Nostro, nel quale ci insegna a chiedere “Sia fatta la Tua volontà”. Questo è il modo in cui gli evangelisti ci presentano Gesù in preghiera al Getsèmani, nel momento della sofferenza: «Padre, passi da me questo calice, ma sia fatta la Tua e non la mia volontà» (Cfr. Lc 22,43 e paralleli)

L’esortazione a pregare sempre senza stancarsi, ha influenzato molto la spiritualità cristiana ed ha prodotto, nella spiritualità ortodossa, la “preghiera del cuore”, o “preghiera di Gesù” di cui si tratta anche nella Filocalìa e che è stata largamente diffusa dai Racconti di un Pellegrino Russo. Si tratta della ripetizione, collegata al ritmo del respiro ed ai battiti del cuore, della preghiera pronunciata nel vangelo dal cieco di Gerico (Lc 18, 38): «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Una preghiera quindi, volta a mettersi dinanzi a Gesù, il nostro Signore, nell’atteggiamento di chi non chiede qualcosa di particolare, ma tutto si aspetta da Dio di cui riconosce la maestà. Penso possa essere annoverata in questo genere di preghiera anche quella fatta da S. Francesco durante le lunghe notti di veglia: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915).

Accogliamo l’insegnamento del Vangelo, manteniamo desta la nostra Fede, la Fiducia nell’amore del Padre; riconoscendoci figli amati, coltiviamo la comunione d’Amore con Dio per potere compiere la Sua Volontà.

Fr. Marco.