sabato 25 ottobre 2025

O Dio, abbi pietà di me peccatore

«Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.» (Sir. 35, 15-17.20-22)

«Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.» (2Tm 4, 6-8.16-18)

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

La pagina di Vangelo della XXX domenica del Tempo Ordinario ci presenta la virtù dell’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli. Caratteristica fondamentale della preghiera continua che ci era raccomandata domenica scorsa.

Mi sembra importante chiarire che l’umiltà è una “virtù particolare”: come e più delle altre virtù va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario. Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà (I lettura). Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere (II lettura).

L’evangelista Luca è chiaro nel presentare la motivazione per cui il Maestro dice la parabola: «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.

«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Il Vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, inoltre, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo pensa di non avere bisogno di Dio!

Purtroppo mi è capitato di ascoltare “confessioni” che assomigliano alla “preghiera” del fariseo: iniziano con l’affermazione di non avere peccati (almeno non peccati gravi) e continuano con un elenco di opere buone. Sostanzialmente questi fratelli e sorelle vanno a “confessarsi” per formalità, perché è l’ennesima “opera buona” da aggiungere all’elenco, ma non sembrano convinti di avere bisogno della Misericordia del Padre.

«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso da quello del fariseo: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.

Ritengo sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio “cuore malato” potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro termine di riferimento, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.

A questo punto sarebbe facile (e comodo) cadere nella tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari incorrere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Come ci ricorda P. Raniero Cantalamessa, «Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.».

Fr. Marco

sabato 18 ottobre 2025

Il Padre farà loro giustizia prontamente

  «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk» (Es 17, 8-13)

«Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.» (2Tm 3,14 – 4,2)

«… Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». (Lc 18, 1-8)

Oggi, XXIX domenica del tempo ordinario, già dal primo versetto della pagina di Vangelo la Parola di Dio ci presenta quale insegnamento Gesù vuole darci: la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. Per farlo il Maestro utilizza un ragionamento a fortiori conosciuto dai sapienti del suo tempo: se l’insistenza della vedova ottiene giustizia dal giudice iniquo, quanto più il Padre ci darà ciò che ci serve? Solo bisogna perseverare nella preghiera con fiducia.

Come ci ricorda la prima lettura, infatti, solo con la preghiera possiamo trovare vittoria contro il nostro “avversario”, il “nemico” dei figli di Dio: il satana (in ebraico satàn indica proprio il nemico, l’avversario, l’accusatore), il diavolo (dal greco diàballo: “che separa”) che vuole separarci da Dio che è la Vita. Solo nella preghiera, inoltre, possiamo ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

«il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Voglio iniziare proprio da questo interrogativo con cui si conclude la pagina evangelica. Per pregare sempre senza stancarsi, infatti, è necessario mantenere desta la fede. Per contro, stancarsi di pregare significa non avere più fede/fiducia, convincersi che la nostra preghiera sia inutile, che Dio non ci ascolta e che “dobbiamo salvarci da soli”.

La preghiera autentica, quindi, si alimenta di fiducia, è l’espressione di un cuore di figlio che si fida del Padre e confida in Lui dal quale si sa amato. La preghiera, infatti, non è una “formula magica” con la quale convinciamo Dio a darci ciò che vogliamo. Chi intendesse così la preghiera dimostrerebbe di non avere fede in Dio: non sa (o almeno non ci crede veramente) che Dio è il Padre che conosce e vuole darci ciò che è buono per noi.

 In proposito San Giovanni Crisostomo ci ricorda che: «La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera.». La preghiera è un dialogo con Dio, tuttavia non è “questione di parole”: «Quando pregate, non sprecate parole come i pagani,  i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7).

Essendo dialogo, la preghiera ci mette in comunione con Dio, ci illumina, ci fa comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ecco l’esigenza del pregare sempre: la preghiera non serve a convincere Dio a darci ciò che vogliamo, ma a rimanere in comunione d’amore con Lui, a comprendere quale progetto d’amore il Padre ha per noi e ad avere la forza per realizzarlo anche quando passa per la “croce”. Le formule che i santi e la Chiesa ci hanno consegnato, i luoghi e i tempi particolarmente consacrati al dialogo con Dio, sono tutte cose buone nella misura in cui non spengono, ma ravvivano e “incanalano”, la spontaneità del cuore che si affida al Padre e confida in Lui.

L’evangelista Luca è quello che più degli altri tratta della preghiera e specialmente della preghiera di Gesù. Il Maestro è spesso presentato in preghiera, ma non certo per chiedere “cose”. La preghiera di Gesù presentataci da Luca consiste nel mettersi alla presenza del Padre, sperimentare la comunione con Lui per potere sempre meglio compiere la Sua volontà. Questo il Maestro ci ha insegnato consegnandoci il modello di ogni preghiera, il Padre Nostro, nel quale ci insegna a chiedere “Sia fatta la Tua volontà”. Questo è il modo in cui gli evangelisti ci presentano Gesù in preghiera al Getsèmani, nel momento della sofferenza: «Padre, passi da me questo calice, ma sia fatta la Tua e non la mia volontà» (Cfr. Lc 22,43 e paralleli)

L’esortazione a pregare sempre senza stancarsi, ha influenzato molto la spiritualità cristiana ed ha prodotto, nella spiritualità ortodossa, la “preghiera del cuore”, o “preghiera di Gesù” di cui si tratta anche nella Filocalìa e che è stata largamente diffusa dai Racconti di un Pellegrino Russo. Si tratta della ripetizione, collegata al ritmo del respiro ed ai battiti del cuore, della preghiera pronunciata nel vangelo dal cieco di Gerico (Lc 18, 38): «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Una preghiera quindi, volta a mettersi dinanzi a Gesù, il nostro Signore, nell’atteggiamento di chi non chiede qualcosa di particolare, ma tutto si aspetta da Dio di cui riconosce la maestà. Penso possa essere annoverata in questo genere di preghiera anche quella fatta da S. Francesco durante le lunghe notti di veglia: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915).

Accogliamo l’insegnamento del Vangelo, manteniamo desta la nostra Fede, la Fiducia nell’amore del Padre; riconoscendoci figli amati, coltiviamo la comunione d’Amore con Dio per potere compiere la Sua Volontà.

Fr. Marco.

 

sabato 11 ottobre 2025

Rendiamo Grazie a Dio

 «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)

« … se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm  2, 8-13)

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 11-19)

Questa domenica, XXVIII del tempo ordinario, la liturgia della Parola ci presenta l’importanza della relazione con Dio, Datore di ogni Bene, in un percorso che va dalla guarigione, al riconoscimento e alla riconoscenza.

Sia la prima lettura tratta dal libro dei Re che la pagina evangelica, infatti, raccontano due guarigioni miracolose dalla lebbra. La lebbra è una malattia che ha una grande valenza simbolica della condizione del peccatore: il peccatore, come il lebbroso, vive una vita in cui sperimenta la morte. Il peccato, infatti, ci allontana dalla fonte della Vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il suo senso.

Ritengo sia importante notare come in entrambi questi racconti di guarigione è richiesto un rapporto di fiducia personale in colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le nostre precomprensioni e attese: a Naamàn il Siro, che si aspettava complicati rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto personale di fiducia può avvenire il miracolo.

Il miracolo, infatti, ha senso come “segno”: indica l’identità di colui che lo compie. Per questo Naamàn guarito proclama l’unicità di Dio e il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per loro la guarigione diventa salvezza.

È in quest’ambito del rapporto personale e del riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare, infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti del datore del dono; riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia, un regalo, che mi è stato fatto. In tal  modo, inoltre, sarò capace di riconoscere nel dono ricevuto l’amore del donatore e ne avrò la giusta considerazione.

Va sottolineato, inoltre, il fatto che l’unico lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto. Forse i nove lebbrosi Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati “purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.

Fiducia e gratitudine, allora, ci vengono presentati oggi come l’antidoto alla lebbra del peccato e atteggiamenti per accogliere la Salvezza. Il peccato, infatti, è non volere accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli come capaci di darci la vita e metterli al posto del Donatore.

Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per darGli gloria.

Fr. Marco

giovedì 2 ottobre 2025

Il giusto vivrà per la sua fede

 «Scrivi la visione … È una visione che  attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». (Ab 1,2-3;2,2-4)

« … Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro … » (2Tm 1,6-8.13-14)

​«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. … quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17,5-10)

​​In questa XXVII domenica del tempo ordinario la liturgia della Parola ci fa invocare insieme agli apostoli: «Accresci in noi la fede!». Basta guardare un telegiornale, infatti, per rimanere sgomenti dinanzi la violenza e l’iniquità del mondo: guerre, genocidi, cambiamenti climatici amplificati da una cattiva gestione del Creato, crisi economica, criminalità …

«Fino a quando, Signore … ?» Anche il profeta Abacuc (I lettura) resta sgomento dinanzi il male nel mondo e chiede al Signore di intervenire. A lui e a noi il Signore risponde che tutto ciò avrà un termine. La violenza, l’iniquità e la follia del mondo non hanno l’ultima parola: «soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». Oggi il Signore ci invita a fidarci e a Sperare. La Fede, infatti, non può essere vissuta separata dalla Speranza che si fonda sull’ascolto della Parola.

«Il giusto vivrà per la sua fede.» Siamo chiamati a fidarci, a non indurire il nostro cuore, ad ascoltare la sua Parola con un ascolto attivo e operoso. Non possiamo, infatti, limitarci a professare delle “verità teoriche”. Vivere per la Fede, significa vivere conseguentemente a ciò che crediamo. È a questo che ci esorta s. Paolo nella seconda lettura scrivendo a Timoteo: rinnoviamo il dono della fede che abbiamo ricevuto con il nostro Battesimo, non vergogniamoci di testimoniare Cristo, non conformiamoci al mondo. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.

Facciamo attenzione, però, a non cadere nell’errore di comportarci come “salariati” e non come figli; di credere di “fare qualcosa per Dio”, di “accumulare meriti” dinanzi a Lui, di renderlo “nostro debitore”. Anche questo, infatti, sarebbe sintomo della nostra mancanza di fede: significherebbe che pensiamo di doverci “guadagnare” la salvezza  e, quindi, che non conosciamo il Padre che esaudisce le preghiere del suo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito e aggiunge ciò che la preghiera non osa sperare (preghiera Colletta).

«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» Per aiutarci a non cadere in questo errore, Gesù ci esorta oggi a riconoscerci “servi inutili”, che fanno ciò che devono fare senza aspettarsi niente in cambio. Guardiamoci dalla mentalità mercantile del “io faccio perché tu mi dia”. Assumiamo la mentalità dei figli che, animati dalla Carità, dall’Amore per il Padre e per i fratelli, non chiedono altro che di servire perché il Padre possa rallegrarsi di loro e con loro.

Oggi, quindi il Signore ci invita a vivere le tre Virtù Teologali che ci conformano a Cristo, il solo giusto: Fede, Speranza e Carità, ricevute nel Battesimo, indivisibili, che possono essere possedute e vissute solo insieme.

È grazie alla Fede, vissuta insieme alla Speranza e alla Carità, infine, che potremo convertirci, che potremo cambiare mentalità, luogo a cui attingiamo vita: è l’immagine del gelso che si sradica per trapiantarsi in mare. Siamo chiamati a cambiare il nostro modo di vedere, il nostro modo di vivere, attingendo vita là dove il mondo pensa che sia assurdo: attingendo Vita dal Vangelo. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 26 settembre 2025

Guai agli spensierati di Sion, cesserà l’orgia dei dissoluti!

 «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!» (Am 6,1.4-7)

«Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.» (1Tm 6,11-16)

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe … » (Lc 16, 19-31) 

​​Questa domenica, XXVI del Tempo Ordinario, la Parola di Dio ci mostra un esempio di chi non è stato capace di imitare la scaltrezza dei figli di questo mondo nell’usare saggiamente della ricchezza per farsi degli amici tra i poveri, tra “coloro che contano” dinanzi a Dio. La parabola raccontata nella pagina di Vangelo, infatti,  non è rivolta ai poveri perché si rassegnino sperando in un “al di là” in cui le cose saranno diverse, ma ai ricchi: Gesù parla in prima istanza ai Farisei amanti del denaro (v. 14).

Ritengo sia importante notare, inoltre, che “Ricchezza” e “povertà” non vanno intese solo come abbondanza o mancanza di beni; sono principalmente atteggiamenti del cuore: essere attaccati, accecati, dai beni (molti o pochi) che si possiedono o confidare in Dio ponendo in lui la nostra fiducia. Si può essere “ricchi” anche possedendo pochissimo, se a quel poco che possediamo attacchiamo il cuore convinti che da esso dipenda la salvezza della nostra vita. Conseguenza immediata, infatti, è che non siamo capaci di condividere ciò che abbiamo con i fratelli. Per la spiritualità giudaico-cristiana questa condivisione è un atto di giustizia senza la quale non può esserci pace con Dio e con i fratelli; è un “restituire” a Dio i suoi doni. San Francesco d’Assisi lo sa bene. Nella Legenda dei tre compagni leggiamo che una volta «disse a se stesso: «“Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che ricambia tanto largamente”. Da quel giorno incontrava volentieri i poveri e distribuiva loro elemosine in abbondanza» (FF 1397). Per Francesco comportarsi diversamente equivale a rubare al povero ciò che è suo perché ne ha bisogno.

«C’era un uomo ricco … » Il protagonista della parabola odierna, non è il povero Lazzaro, ma il ricco senza nome di cui sappiamo soltanto che banchettava lautamente e vestiva in modo regale. È significativo il fatto che del ricco neanche si sappia il nome: mentre il povero Lazzaro (il cui nome, non a caso, significa “Dio aiuta”) è conosciuto e amato da Dio in cui pone tutta la sua fiducia, il ricco, accecato dai suoi beni, si è sottratto a questo amore. Il dramma di quest’uomo non è quello di avere ricchezze materiali, ma quello di essersi fatto accecare da esse tanto da non vedere il bisogno del fratello davanti la sua porta. Peggio ancora, il dramma è nell’avere chiuso il cuore al bisogno del fratello e quindi, direbbe san Giovanni, nell’avere chiuso il cuore all’amore di Dio (Cfr. 1Gv 3,17). È il pericolo della ricchezza che diventa idolo: ci illude che possa darci la vita, che possa spegnere la “sete di Vita” che ogni uomo sente in se.

Il secondo quadro della prima parte della parabola, narrando la fine di questa vita terrena, mette in luce l’inganno: il povero, che ha confidato in Dio, è accolto in paradiso, “nel seno di Abramo”; il ricco è sepolto. Sperimentano entrambi la sorte che si sono scelti: il povero Lazzaro che confidava in Dio, ora gode di Dio in maniera piena; il ricco che confidava nelle cose, nel cibo e nei vestiti, segue la sorte di questi ultimi: finisce nella terra a disfarsi.

La seconda parte della parabola, aprendo uno spiraglio sull’Eternità, mostra che Lazzaro vede ora appagata la sua “sete di Vita”; il ricco che si illudeva di appagare la sua sete, sperimenta ora una “fiamma bruciante”: una sete inestinguibile che le cose non sono state capaci di placare e che ora lo divora per l’eternità. Il dramma del ricco, inoltre, sta nell’incapacità di vedere Lazzaro come un fratello: in vita non lo vedeva davanti la sua porta; in morte lo vede come servo («manda Lazzaro intingere … manda Lazzaro ad ammonire»). Facciamo attenzione a come vediamo quanti ci stanno accanto, soprattutto i più poveri e piccoli; attenti alla loro dignità, riconosciamoli fratelli.

«Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro» La risposta di Abramo alla richiesta del ricco di mandare Lazzaro a mettere in guardia i fratelli, infine, costituisce un ammonimento ad ascoltare la Parola. L’ascolto che viene chiesto è un “ascolto obbediente”. Il ricco e i suoi fratelli conoscono la Parola, probabilmente partecipano pure alle liturgie, ma questo non cambia la loro vita. Non sia così per noi. Lasciamo che la Parola ci metta in crisi e cambiamo la nostra vita per potere godere di quella pienezza di Vita che solo Gesù può donarci.

Fr. Marco

sabato 20 settembre 2025

Usiamo bene dei beni in vista del Sommo Bene

 

«Il Signore mi disse: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese […]. Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere”». (Am 8,4-7)

«Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.» (1Tm 2,1-8)

«Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.» (Lc 16, 1-13)

Questa domenica, XXV del Tempo ordinario, la pagina di Vangelo ​ci presenta qualcosa che, a prima vista, risulta sconvolgente: nella parabola raccontata Gesù viene lodato l’amministratore disonesto!

Soffermandoci con più attenzione, però, scopriamo che ad essere lodata non è, ovviamente, la disonestà, ma la scaltrezza, o più precisamente la previdenza: l’amministratore disonesto si rende conto di ciò che sta per avvenire, fa i suoi calcoli, e prende provvedimenti. La scaltrezza che il padrone loda sta nel non lasciarsi ingannare dalla “disonesta ricchezza”; disonesta perché promette ciò che non può dare: vita e felicità. La prima lettura, inoltre, ci mette in guardia dall’usare le persone, in particolare i poveri, per i nostri egoistici fini, per accumulare la disonesta ricchezza; chi agisse così è avvisato: «Non dimenticherò mai tutte le loro opere»

«So io che cosa farò … “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”» L’amministratore della parabola non si lascia travolgere dagli eventi: prende in mano la situazione ed è capace di fare scelte, anche costose, per assicurarsi un avvenire. Nel chiamare i debitori del suo padrone, infatti, rinuncia al suo immediato e disonesto guadagno, il ricarico che faceva sui crediti del suo padrone, per “farsi degli amici” che lo accolgano in futuro.

«Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta …» Oggi il Maestro ci invita ad essere scaltri e previdenti: il Regno è vicino e saremo chiamati a rendere conto di come abbiamo amministrato i beni che ci sono stati affidati: facciamo scelte che ci assicurino la salvezza eterna. Gesù oggi ci invita a farci amici coloro che possono accoglierci nel Regno: i poveri, gli ultimi, i più piccoli; tutti coloro dei quali Gesù ha detto: «Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me» (Cfr. Mt 25, 31-46).

I “figli di questo mondo” conoscono bene questa scaltrezza: sono disposti a rinunce e sacrifici per ottenere “l’amicizia” di qualcuno la cui parola conti. La loro prospettiva è, però, molto limitata: pensano che il potere e la ricchezza in questo mondo potranno dare loro la Vita di cui ogni uomo è assetato; sperimentano, invece, che potere e ricchezza non bastano mai. Che tristezza quando anche i “figli della luce” si fanno accecare dalla limitata prospettiva intramondana e vanno in cerca di ricchezza e potere; magari proprio a scapito di quegli “amici di Dio” che sono i piccoli e i poveri!

Gesù oggi ci invita ad alzare lo sguardo e a “farci furbi”: la nostra prospettiva è il Regno dei Cieli, la Vita vera che Lui solo può darci. Usiamo bene dei doni che siamo chiamati ad amministrare, non lasciamoci accecare dalle ricchezze come se queste potessero darci la vita con il solo accumularle. Impariamo a condividerle con gli “amici di Dio” per essere accolti nella vera Vita. Una Vita eterna che comincia qui nella gioia della condivisione, nell’amare e sentirsi amati, ma che andrà di pienezza in pienezza per l’Eternità. Voglio concludere con un pensiero di San Basilio Magno il quale ci ricorda che i beni della terra non sono “miei”, ma “nostri” e vanno condivisi: «Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato.  Il vestito che è appeso nel vostro armadio è il vestito di chi è nudo. Le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo. Il denaro che voi tenete nascosto è il denaro del povero». Ricordiamoci che le persone vanno amate e le cose usate; mai il contrario.

Fr.  Marco.

venerdì 12 settembre 2025

Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce

«In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”.  … Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”» (Nm 21,4-9)

«Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.» (Fil 2,6-11)

«E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.» (Gv 3,13-17)

Questa domenica celebriamo la festa della esaltazione della Croce che ci mette dinanzi all’amore salvifico di Dio. Egli ha mandato il suo Figlio perché il mondo si salvi. A noi chiede solo di accogliere questa salvezza compiendo con Lui il cammino salvifico che, passando dalla Croce, ci libera dalla schiavitù del peccato e ci rende figli di Dio.

La Croce, infatti, non è un incidente della vita Cristiana, qualcosa che può pure mancare: è imprescindibile. Lo sappiamo bene, Gesù ha detto «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua Croce e mi segua». Come ci ha ricordato Papa Leone XIV nell’angelus del 24 agosto scorso, nel contesto dell’anno giubilare: « Gesù non ha scelto la via facile del successo o del potere ma, pur di salvarci, ci ha amati fino ad attraversare la “porta stretta” della Croce. Lui è la misura della nostra fede, Lui è la porta che dobbiamo attraversare per essere salvati (Cfr Gv 10,9), vivendo il suo stesso amore e diventando, con la nostra vita, operatori di giustizia e di pace.»

La liturgia della Parola si apre con l’affermazione che il popolo, liberato dalla schiavitù d’Egitto e chiamato a percorrere il cammino verso la Terra promessa, non sopporta il viaggio e mormora contro Mosè e contro Dio. È quello che spesso facciamo anche noi: mormoriamo, ci comportiamo da ingrati, chiediamo sempre di più.

Questa mormorazione avvelena il rapporto d’amore tra il popolo e Dio; quel rapporto d’amore e di reciproca appartenenza che rendeva quella “gente raccogliticcia” che era uscita dall’Egitto, il Popolo di Dio. Per questa ragione, con i serpenti, il Signore rende visibile l’effetto mortifero della mormorazione. Il popolo si pente del suo peccato e torna al Signore per avere vita.

«Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta» Il Signore invita il popolo a contemplare la conseguenza del proprio peccato dalla quale il Suo Amore lo ha liberato. Il serpente di bronzo diventa quindi memoriale della morte, conseguenza del proprio peccato, e della salvezza che viene dal Signore.

Anche noi, nelle fatiche di ogni giorno, siamo invitati a contemplare la conseguenza del nostro peccato che ci dà anche la misura dell’Amore di Dio per noi: il Signore Gesù Cristo crocifisso per i nostri peccati e risorto come primizia di molti fratelli. Da questa contemplazione siamo invitati ad accenderci d’amore per Lui per portare con Lui la nostra Croce quotidiana.

La Croce, infatti, non è una sofferenza che subiamo nostro malgrado, con rassegnazione, perché non possiamo farne a meno; la croce è un’offerta d’amore, una sofferenza accolta per amore di Cristo e dei fratelli, un mettere da parte “noi stessi” per Amore.

La Croce, quindi, non va “sopportata”, subita; tanto meno va evitata. La Croce va abbracciata per amore e con amore. Questo amore non toglie che si sperimenti tutto il peso della Croce. P. Pio, in una epistola d una figlia spirituale, ci rivela in che modo non cadere sotto il peso della Croce: «Conosco per propria esperienza che il rimedio per non cadere è l’appoggiarsi alla Croce di Cristo, con la confidenza in Lui solo, che per la nostra salvezza volle esservi appeso»

«... perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Cosa significa credere in Lui? Fidarsi di Lui, obbedire a Lui, seguire le Sue orme. Quelle orme che puntano con decisione verso il Calvario per offrire la vita per amore. Quelle orme che, dopo il Calvario, giungono alla gloria eterna della resurrezione. 

La Croce, infatti, lo ribadisco è la sorgente della nostra salvezza: è attraverso la Croce che l’Amore misericordioso di Dio giunge al suo culmine e salva tutti gli uomini. È con la Croce, quindi, che siamo chiamati a seguire Gesù: siamo chiamati a fare della nostra vita un’offerta d’amore, rinnegando noi stessi, il nostro orgoglio e la nostra vanagloria, per Amore di Dio e dei fratelli.

Fr. Marco