domenica 7 dicembre 2025

Rallègrati, piena di grazia!

 «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,9-15.20)

«Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza.» (Rm 15,4-9)

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te … Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,26-38)

La Parola di Dio della solennità dell’Immacolata concezione di Maria si apre con il racconto delle conseguenze immediate del peccato dei progenitori: la rottura di ogni rapporto di amicizia: tra l’uomo e Dio («Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»), tra l’uomo e la donna («La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato») e tra l’uomo e il creato («Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato»).

Questa inimicizia e la conseguente morte dell’anima, questa incapacità di vedere Dio come il Padre che ci ama al di là di ogni nostra immaginazione e i fratelli e il creato come un dono d’amore, è la conseguenza del peccato originale che si tramanda per ogni generazione. La prima lettura però, si conclude con quello che viene chiamato il “proto-vangelo”: l’annuncio che la stirpe della donna avrebbe schiacciato il serpente antico.

È quello che avviene in Maria la quale, in vista dei meriti di Cristo, è da Lui redenta fin dal grembo materno e quindi resa capace, con la sua obbedienza fiduciosa al progetto del Padre, di essere “aurora della redenzione”, colei attraverso la quale è giunto nel mondo il Redentore.

In questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, però, vorrei che riflettessimo su ciò che questo dogma dice a noi per la nostra salvezza. Maria oggi ci viene presentata come “modello di santità e avvocata di grazia” (prefazio). L’opera salvifica di Cristo Redentore, che ci raggiunge nei sacramenti, compie in noi ciò che ha operato in Maria fin dal concepimento: Maria è immacolata fin dal grembo materno, noi diventiamo immacolati con il Battesimo.

A differenza di Maria, però, noi raramente corrispondiamo in maniera piena a questa Grazia: non aderiamo al progetto d’amore del Padre e ci rendiamo colpevoli con i nostri peccati volontari (mai compiuti da Maria). Per questo il Signore, che ci vuole santi e immacolati di fronte a lui nella carità, ha istituito il Sacramento della Riconciliazione: se ben celebrato (con un vero pentimento e un sincero proposito di non peccare più), la confessione ci restituisce la santità battesimale. Con il Sacramento della Comunione, inoltre, riceviamo in noi Gesù Cristo vivo e vero, la Grazia di Dio apparsa nel mondo, come lo chiama S. Paolo scrivendo a Tito (Cfr. Tt 2,11); anche noi, quindi, siamo pieni di Grazia!

Non sprechiamo tali doni d’amore, ma impegniamoci a corrispondere alla Grazia di cui Dio vuole colmarci e a compiere la volontà del Padre nella nostra vita.

La seconda lettura oggi ci invita a perseverare e a tenere viva la Speranza. Guardando a Maria tutta bella, ricolma di ogni virtù e senza alcuna macchia di peccato, la Chiesa tutta e ogni singolo battezzato oggi può contemplare ciò che il Signore vuole fare con ciascuno di noi e con la Chiesa nel suo insieme: un capolavoro di Santità.

Contemplando Maria la nostra madre immacolata, anche noi impegniamoci ogni giorno per dire a Dio la nostra risposta di obbedienza fiduciosa: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Fr. Marco

sabato 6 dicembre 2025

Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!

«In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.» (Is 11, 1-10)

«Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio.» (Rom 15, 4-9)

«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! … Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”» (Mt 3, 1-12)

​La Parola di Dio della seconda domenica di Avvento ci presenta i due testimoni della venuta del Signore: Isaia e Giovanni il Battista. Essi sono gli araldi del Signore, coloro che invitano il popolo a prepararsi ad accogliere il Signore che viene.

«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse» Nella prima lettura Isaia profetizza la venuta del Signore come un evento che dà speranza dove sembra non esservi più alcuna speranza. L’immagine è quella di un albero secolare abbattuto: la sua vita è finita; dalle radici però spunta un pollone, un germoglio dal quale tutto può ricominciare. La venuta del Signore è perciò oggi presentata come un evento di speranza. Un evento gioioso. Quello presentatoci da Isaia è un Dio che si piega sull’umanità disperata; un Dio che si “converte” a noi.

Nel Vangelo, Giovanni il Battista ci invita a rispondere, a questo Dio che si piega su di noi con amore misericordioso, con la nostra conversione: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» Siamo chiamati a correggere le nostre strade, a percorrere strade rette per incontrare il Signore che viene. Cosa significa convertirsi? Significa cambiare direzione alla nostra vita, “correggere la rotta”. La nostra vita è come una nave in balia dei venti e delle correnti: se non correggiamo continuamente la rotta tenendo fisso lo sguardo sulla “stella polare”, rischiamo di fare naufragio, di fallire, di vivere una vita senza senso. Per convertirci e raggiungere la meta della nostra salvezza bisogna sempre tenere lo sguardo fisso al Signore “che viene, che è venuto e che verrà”, e correggere tutti quei moti che ci spingono invece verso il nostro Io: egoismo, superbia, vanagloria ecc.

«Fate dunque un frutto degno della conversione.» Giovanni ci esorta ad una conversione che abbia ricadute concrete, visibili, una conversione che porti frutti. Non basta dire: “Sono cristiano. Vado a messa quasi ogni domenica”. Non basta dire “Appartengo al gruppo/comunità/fraternità …” . Ciò che è veramente importante è l’avere accolto nella propria vita il Signore e i fratelli; imparare a rinnegare costantemente il proprio Io per fare spazio al Tu di Dio e del fratello bisognoso. La nostra conversione deve tradursi in opere buone fatte a gloria di Dio. Opere fatte «senza che la destra sappia ciò che fa la sinistra».

«Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome» Prendendo spunto da S. Paolo, mi permetto di suggerire un esercizio per crescere nel decentramento: impariamo a dire “Grazie”. Principalmente a Dio per tutto ciò che ci dona. Riconosciamo che tutto è dono di Dio, di nostro abbiamo solo il peccato. Impariamo a dire grazie ai fratelli; ci aiuterà a ricordarci che ciò che loro ci danno o fanno per noi non ci è dovuto: non siamo noi il centro del mondo! Teniamo viva la speranza nel Signore che viene a manifestare la Sua fedeltà misericordiosa.

Fra Marco.

sabato 29 novembre 2025

Tenetevi pronti. Vegliate!

«“Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.» (Is 2,1-5)

«Fratelli … è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.» (Rm 13,11-14)

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti» (Mt 24,37-44)

​Il tempo liturgico dell’Avvento, che inizia oggi, è caratterizzato dall’attesa e dà il carattere a tutto l’Anno Liturgico e a tutto il Tempo della Chiesa che sempre celebra “nell’attesa della Tua venuta” (vedi per es. il Mistero della fede). I Padri della Chiesa ci parlano di una triplice venuta del Signore da attendere e a cui fare attenzione: Egli viene oggi in mezzo a noi nella liturgia, perché è già venuto nella nostra natura umana nella pienezza dei tempi ed alla fine del Tempo verrà nella gloria.

Nella pagina di vangelo il Maestro ci invita a “vegliare” «perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Al verbo vegliare possono corrispondere almeno tre atteggiamenti che siamo chiamati ad assumere: “stare svegli”, “stare vigili” (attenti) e “fare vigilia”.

Oggi siamo invitati a “stare svegli”, a non cadere nel torpore spirituale nel quale il mondo vorrebbe indurci. «Come furono i giorni di Noè … non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» All’inizio del brano evangelico, Gesù riporta l’esempio dei contemporanei di Noè: si erano lasciati “stordire” dalla vita presente e non avevano prestato ascolto agli avvertimenti ricevuti. Il diluvio li ha quindi trovati impreparati e sono stati perduti. Il mondo e la vita di ogni giorno possono indurci ad “assopirci”, ad accontentarci della vita presente senza aspettare più niente, con rassegnazione, senza Speranza. Lo “stare svegli” significa, allora, non lasciare spegnere la Speranza e l’attesa del Regno. Stare svegli, inoltre, significa essere pronti a riconoscere il Signore quando viene a visitarci, nel povero o nel malato, e accoglierlo.

Siamo invitati, quindi, ad “essere vigili”, pronti a cogliere le occasioni di grazia per vivere la Carità e attenti a non cadere nelle trappole del diavolo che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). La più pericolosa tra queste trappole è l’insinuazione, nei momenti bui della vita, che il Padre non ci ama, che ci ha abbandonati, che dobbiamo salvarci la vita da soli perché nessuno si prende cura di noi. Vigiliamo usando bene del dono della vita e del tempo che il Signore ci concede: ne dovremo rendere conto; non dubitiamo mai, però, dell’amore del nostro Padre celeste che mai ci abbandona e sempre si prende cura di noi; anche quando ci chiede di entrare con lui nella valle oscura, il Suo bastone e il Suo vincastro ci danno sicurezza. (cfr. Sal 22/23).

Siamo invitati, infine, a “fare vigilia”, a vivere questo tempo come un tempo di attesa gioiosa e piena di entusiasmo: viene il Signore della Vita, viene a incontrarci e ad introdurci nella comunione piena con Lui! La nostra attesa vigiliare è caratterizzata dalla gioia: un’attesa piena di speranza che non resterà delusa. Il tempo della vigilia, però, oltre che dalla gioia, è caratterizzato anche dalla necessità di “tenersi pronti”, di prepararsi all’incontro con il Signore, perché possiamo entrare con Lui nella Gloria del Padre. È questo il senso della “penitenza” cui ci richiama il Tempo liturgico dell’Avvento, una penitenza che è un “convertirci”, un cambiare la direzione della nostra vita, un decentrarci per fare spazio a Colui che viene.

Proprio nel contesto della “penitenza”, vi ripropongo un piccolo esercizio cui mi richiama la Parola di Dio: in queste domeniche di Avvento, celebrando i vespri, ci sentiremo rivolgere l’esortazione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Mettendo al centro dei nostri pensieri la gioia per la vicinanza del Signore, siamo invitati a non stare ripiegati su noi stessi e sulle inevitabili contrarietà della vita. Accogliendo questo invito di S. Paolo, vi propongo un esercizio di “conversione”, di decentramento: provare ad avere sempre un volto sorridente per tutti, disporci sempre ad accogliere l’altro. Spesso, presi dalle difficoltà della vita e dai nostri malumori, non sarà semplice (chi mi conosce sa quanto sia difficile per me), ma … il Signore è vicino!

Fr. Marco

sabato 22 novembre 2025

Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno

 

«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». (2Sam 5, 1-3)

«Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.» (Col 1, 12-20)

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava […] E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”». (Lc 23, 35-43)

Questa domenica, ultima dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo. La regalità che ci presenta la pagina evangelica di oggi, tuttavia, è una regalità diversa da quella che intende il mondo: Cristo è un re che regna dalla Croce. È proprio in questo contesto così lontano dalla regalità mondana, però, che il “buon ladrone” è capace di riconoscere in quell’uomo crocifisso il Messia atteso, il re il cui regno non avrà mai fine: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Mi colpisce che tanti personaggi della pagina di Vangelo di oggi usino i termini “Cristo” e “re”; termini che appartengono intrinsecamente a Gesù, ma che qui vengono usati per scherno. Il “buon ladrone” non ha bisogno di usare questi titoli, che il mondo ha snaturato del loro senso, per riconoscere la regalità di Colui che è suo compagno di supplizio; è uno dei pochi personaggi del Vangelo di Luca che chiama il Signore per nome: Gesù, "Dio salva". Proprio perché consapevole della propria miseria e che nessun uomo potrà salvarlo né potrà salvarsi da solo, questo malfattore può dire in tutta verità "Gesù" e affidarsi alla salvezza che viene da Dio. E Gesù manifesta la sua regalità concedendo la Grazia: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Altrove Gesù aveva affermato: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Sulla Croce, infatti, Gesù è veramente Re secondo il cuore del Padre: non si lascia condizionare, non si lascia sopraffare da tutta la cattiveria e il male del mondo; non subisce gli eventi, ma li vive trasformandoli in un’offerta d’Amore. Elevato sulla Croce per amore nostro, Gesù manifesta pienamente la sua regalità: vince contro il peccato del mondo offrendo la propria vita e perdonando i suoi crocifissori; vince contro il tentatore che, attraverso chi gli sta attorno, continua a chiedergli di salvare se stesso.

«Salva te stesso». Un invito che torna tre volte in questa breve pagina di Vangelo. È la prospettiva egoistica ed egocentrica che regola il mondo. Attraverso i capi, i soldati e uno dei malfattori crocifissi con Lui,  il tentatore continua a suggerire a Gesù di preferire l’egoismo all’amore;  continua a suggerire l’illusione di salvare se stesso non fidandosi dell’amore del Padre. Gesù, però, non cade nell’inganno e, con una libertà veramente regale, si offre per Amore.

Celebrando la regalità di Cristo, oggi siamo chiamati a fare memoria anche della “nostra” regalità, di quella regalità di cui Gesù ci ha resi partecipi nel Battesimo conformandoci a Lui Re, Sacerdote e Profeta.

«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne». Nella prima lettura le tribù d’Israele fanno una professione di appartenenza a Davide che richiama il libro della Genesi (cfr. Gen 2,23). Un’espressione che allude ad un’appartenenza intima. Sappiamo che Davide è “un’immagine” (un typos) di Gesù Re Messia. Anche noi possiamo dire a Gesù Cristo “Ecco noi siamo tue ossa e tua carne”. Come ci ricorda S. Paolo nella seconda lettura, infatti, la Chiesa, l’assemblea dei fedeli innestati in Cristo per il Battesimo, è il corpo di Cristo.

Come Cristo, che oggi contempliamo re, anche noi siamo chiamati a vivere la nostra regalità sul peccato, sulle passioni e sul giudizio del mondo. Anche noi abbiamo ricevuto quella libertà regale che ci permette di trasformare la nostra vita in un’offerta d’amore. Non viviamo più, allora, come schiavi delle nostre passioni e dei piaceri passeggeri; facciamo il bene senza lasciarci condizionare dal giudizio del mondo (“che penseranno?”); non lasciamoci ingannare dall’illusione che “se non ci salviamo da soli, saremo persi”; è esattamente il contrario: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24).

Celebrando Cristo re dell’universo, allora, riconosciamo la Signoria di Cristo sulla nostra vita. Obbediamo a Lui per sperimentare la pienezza della regalità nella nostra vita. Impariamo dal nostro maestro Gesù Cristo la regalità “a gloria di Dio Padre” (Cfr. Fil 2,11).

Fr. Marco

sabato 15 novembre 2025

Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina

«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno … Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.» (Ml 3,19-20)

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.» (2Ts 3,7-12)

«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta … Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno … sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». (Lc 21, 5-19)

Siamo ​ormai prossimi alla fine dell’anno liturgico, per questo motivo la liturgia della Parola di questa XXXIII domenica del Tempo Ordinario ci invita a guardare la nostra vita avendo come orizzonte le “realtà ultime”.

«Maestro, quando dunque accadranno queste cose …?» Il Maestro non risponde alla domanda sul quando se non descrivendo segni riscontrabili in ogni epoca: «Si solleverà nazione contro nazione …, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze…». Non è importante per noi conoscere “quando” verrà il giorno del Signore, ma è fondamentale vivere ogni giorno in modo da essere trovati pronti.

«Badate di non lasciarvi ingannare …» Gesù, inoltre, ci mette in guardia dai “falsi profeti”, ci invita a diffidare da profezie millenaristiche, messaggi autoreferenziali («Sono io») e segni grandiosi dal cielo che starebbero ad indicare la ormai prossima fine del mondo. Diffidiamo anche da coloro che per guadagno ci predicono il futuro. Il nostro futuro lo costruiamo ogni giorno collaborando al progetto d’amore che il Padre ha per noi (o, per nostra rovina, discostandoci da esso). Cercare di conoscere/controllare il futuro con la magia è una grave mancanza di Fede; è incompatibile con il dirsi cristiani. Oggi il Vangelo ci invita a perseverare nella Fede, a riconoscere, coi fatti e nella verità, Gesù come nostro Signore e a mettere la nostra vita nella Sue mani con la consapevolezza che il nostro tempo va verso il compimento: in qualunque momento può venire “il giorno” in cui per me il mondo sarà finito e sarò chiamato ad aprire gli occhi all’Eternità.

«Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» Il messaggio del profeta Malachìa, riportato nella prima lettura, assume toni minacciosi per tutti coloro che con superbia non tengono conto del giudizio di Dio e commettono ogni sorta di ingiustizia: verrà il giorno del Signore e costoro, che si pensavano al di sopra di ogni giudizio, dovranno rendere conto della loro vita. Per coloro, invece, che riconoscono la Signoria di Dio sulla loro vita e vivono protesi verso il suo Regno, quel giorno verrà come il compimento della loro Speranza.

È a questo giorno che si riferisce Gesù invitando i suoi a relativizzare le realtà terrene: «... di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra». È costante per l’uomo la tentazione di “farsi da se”, di idolatrare il proprio lavoro quasi che esso possa dargli la Vita. Magari con la speranza di “sconfiggere la morte” realizzando opere che ci facciano continuare ad esistere nella memoria di chi verrà dopo di noi. Gesù, però, ci ricorda che la nostra Vita (la nostra salvezza) non dipende da ciò che siamo capaci di realizzare: passa la scena di questo mondo e non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Ciò che conta, quindi, non è tanto ciò che abbiamo realizzato, ma il motivo per cui lo abbiamo realizzato, l’orientamento che abbiamo dato alla nostra vita, il rinnegamento del proprio io per fare posto all’amore per Dio e per i fratelli (cfr. Mt 16,24-25). In questa prospettiva trova posto anche la persecuzione. Una conseguenza inevitabile se ci facciamo testimoni della logica evangelica, una logica diversa da quella del mondo e che il mondo non può accogliere.

In questa logica, infine, anche “la grazia di lavorare”, usando l’espressione di S. Francesco, trova la sua giusta collocazione come collaborazione all’opera creatrice di Dio e condizione in cui giungere alla piena realizzazione della nostra vita: la santità (cfr. Gaudium et Spes 67 e Lumen Gentium 41).

Alla tentazione di salvarsi la vita con il proprio lavoro e con i beni di questo mondo (una tentazione attualissima), San Paolo, nella seconda lettura, ne affianca una opposta: la tentazione di non lavorare e di attendere passivamente il giorno del Signore. A Tessalonica probabilmente la comunità cristiana, o alcuni suoi membri, era caduta in questo inganno. L’Apostolo, prima con il suo esempio e poi con il suo insegnamento, ribadisce la dignità, il senso e la necessità del lavoro.

Non preoccupiamoci, dunque, del quando sarà il giorno del Signore; preoccupiamoci piuttosto di come ci troverà quel giorno: intenti a gozzovigliare, indaffarati nelle nostre cose e dimentichi di Lui; oppure occupati nel lavoro che Lui ci ha assegnato e tutti protesi verso l’incontro?

Fr. Marco

sabato 8 novembre 2025

Santo è il tempio di Dio che siete voi

«In quei giorni, [un uomo, il cui aspetto era come di bronzo,] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente.» (Ez 47,1-2.8-9.12)

«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.» (1Cor 3,9c.-11.16-17)

«“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. » (Gv 2,13-22)

Anche questa domenica, come la scorsa settimana, la liturgia domenicale cede il posto a una festa che ha la precedenza: la dedicazione della Basilica Lateranense, la cattedrale del vescovo di Roma, la prima chiesa cristiana ufficiale, praticamente la chiesa madre della cristianità.

«Fratelli, voi siete edificio di Dio.» L’apostolo Paolo nella seconda lettura,  ci ricorda che festeggiare un edificio sacro, per quanto così importante e vetusto, deve sempre rimandare al significato simbolico che esso porta con sé: il tempio di Dio non è fatto di sassi e suppellettili, ma di pietre vive.

Come dicevo prima, la Basilica Lateranense essendo la cattedrale del Sommo Pontefice, il vescovo di Roma, è chiesa madre di tutte le chiese del mondo, e presiede alla carità e all’unità di tutta la Chiesa. Questo è il primo tema di riflessione: come un edificio non si regge se non ha un solido fondamento e se le sue pietre non sono perfettamente disposte e accostate tra loro, così il tempio di Dio, fatto di quelle pietre vive che siamo noi, richiede unità e concordia tra i suoi membri ma, soprattutto, che tutti quanti poggiamo saldamente su quella pietra angolare che è Cristo (Cfr Ef 2,20).

Nella pagina di Vangelo ascoltiamo il racconto dell’episodio conosciuto impropriamente come la “purificazione del tempio”. In realtà Gesù sta sancendo la fine del culto nel tempio. Da ora in poi Cristo è il vero tempio, il luogo dove possiamo incontrare Dio; la Chiesa è tempio di Dio solo se vive come un corpo il cui capo è Cristo e in cui non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Come ricorda l’evangelista, infatti, riportando la risposta alla domanda dei Giudei su come possa Gesù ricostruire in tre giorni un tempio che aveva richiesto quarantasei anni di lavori: «Egli parlava del tempio del suo corpo

«… vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro.» La Prima Lettura, ci presenta alcuni frammenti di una visione del profeta Ezechiele, fatta al tempo in cui Gerusalemme e il tempio erano stati distrutti. L’immagine del fiume che sgorga dal lato destro del tempio portando ovunque vita e risanando persino le acque del Mar Morto è evocativa, e i Padri della Chiesa non hanno faticato a vedervi una prefigurazione della scena della crocifissione: «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (cfr. Gv 19,33-35). È dal fianco squarciato di Gesù che scaturiscono i Sacramenti che ci rendono Chiesa e che la Chiesa amministra: un fiume che rallegra la città di Dio, come siamo invitati a ripetere al Salmo Responsoriale.

«… non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». Di questo tempio di Dio che siamo noi, come singoli battezzati e come comunità ecclesiale, dobbiamo avere cura, tenendo lontana ogni logica mercantile, ogni tentazione di entrare in una sorta di rapporto commerciale con Dio. È a questa perversione del culto che il Maestro reagisce: Israele ha “addomesticato” il suo Signore intraprendendo con Lui una sorta di mercato: osservanza formale scrupolosa in cambio di prodigi. L’amore e la comunione con Dio non trova più posto in questa logica mercantile. Gesù, per come oggi ci viene presentato nel Vangelo, appare quasi irriconoscibile: il più mite degli uomini si scaglia, con una “violenza” che ricorda quella del profeta Elia, contro la mentalità in cui il culto (i sacrifici) e le offerte sono intese come un “accumulare crediti” dinanzi a Dio; non si cerca Dio, ma il proprio interesse; non c’è più posto per la preghiera, il dialogo d’amore cercato da Dio.

Ricordando allora che siamo tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in noi, ringraziamo il Signore e coltiviamo il rapporto d’Amore con Lui per essere sempre più conformi a Cristo, il “luogo santo” in cui ogni uomo può incontrare Dio.

Fr. Marco

domenica 2 novembre 2025

Venite, benedetti del Padre mio

«In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte un banchetto di grasse vivande.» (Is 25,6a.7-9)

«Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». (Rm 8,14-23)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 31-46)

Ogni anno, i primi due giorni di Novembre la Liturgia ci fa contemplare “le cose ultime”: giorno 1 contempliamo la nostra meta, la Gerusalemme del Cielo e la “Chiesa gloriosa”; giorno 2 ci uniamo in preghiera per commemorare i nostri fratelli e sorelle defunti; contempliamo la “Chiesa purgante” e il nostro pensiero si sposta su una tappa obbligata della nostra esistenza: sorella morte «dalla quale nullo homo vivente può scampare» (s. Francesco d’Assisi) e che ci apre le porte dell’eternità.

Il secondo schema della liturgia della Parola, che qui ho scelto di seguire, ci conforta sul destino dei nostri cari defunti e quindi sul destino a cui andiamo incontro anche noi: abbiamo ricevuto lo Spirito del Figlio e, se abbiamo lasciato che ci conformasse a Lui con i fatti e nella verità e non a parole e con la lingua (Cfr. 1 Gv 3,18), saremo riconosciuti benedetti ed introdotti al banchetto del Cielo preparato per noi fin dalla creazione del mondo.

Il Vangelo di oggi, infatti, aprendoci uno squarcio sul compimento del Tempo (che esistenzialmente per noi coinciderà con il compimento del nostro tempo), ci indica anche su cosa saremo valutati, quale sarà il criterio di discrimine tra i benedetti del Padre e i maledetti: l’amore concreto che avremo saputo vivere verso gli ultimi i piccoli, quelli dai quali non possiamo aspettarci niente in cambio e nei quali il Figlio eterno del Padre ha voluto essere riconosciuto.

«Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere …?» mi colpisce che sia i giusti sia i reprobi, restino stupiti della identificazione del Signore nei fratelli bisognosi. I primi operano con carità sincera e non interessata; i secondi, invece, ignorano i fratelli nel bisogno forse perché interessati solo a se stessi.

«Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» Mi conforta sempre notare che il fuoco eterno, l’inferno, non è preparato per noi: il Padre non vuole nessuno all’inferno. Siamo noi che con le nostre scelte di chiusura all’Amore e quindi agli altri da aiutare e da cui essere soccorsi, ci condanniamo all’inferno, a quella bruciante solitudine che lascia in noi un vuoto incolmabile. Vita eterna e fuoco eterno, infatti, iniziano ad essere sperimentati qui con le nostre scelte di amore o egoismo.

In questa giornata affidiamo alla Misericordia del Signore i nostri fratelli e sorelle defunti, intercediamo per loro nella sicura speranza che l’Amore che hanno vissuto e che ci ha uniti in vita sia loro moltiplicato e li purifichi dalle imperfezioni che hanno macchiato la loro esistenza terrena. Oggi, però è anche un’occasione preziosa per fare il punto sulla nostra vita, sull’orientamento che le stiamo dando, sull’Amore concreto che stiamo vivendo: se oggi il Signore mi chiamasse a Sé, sarei riconosciuto Figlio e annoverato tra i benedetti del Padre?

Intercedendo per i nostri cari che hanno concluso la loro esistenza terrena, chiediamo anche la loro preghiera perché possiamo fare tesoro del tempo che ci resta e fare opere di vita eterna. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco