sabato 8 novembre 2025

Santo è il tempio di Dio che siete voi

«In quei giorni, [un uomo, il cui aspetto era come di bronzo,] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente.» (Ez 47,1-2.8-9.12)

«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.» (1Cor 3,9c.-11.16-17)

«“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo. » (Gv 2,13-22)

Anche questa domenica, come la scorsa settimana, la liturgia domenicale cede il posto a una festa che ha la precedenza: la dedicazione della Basilica Lateranense, la cattedrale del vescovo di Roma, la prima chiesa cristiana ufficiale, praticamente la chiesa madre della cristianità.

«Fratelli, voi siete edificio di Dio.» L’apostolo Paolo nella seconda lettura,  ci ricorda che festeggiare un edificio sacro, per quanto così importante e vetusto, deve sempre rimandare al significato simbolico che esso porta con sé: il tempio di Dio non è fatto di sassi e suppellettili, ma di pietre vive.

Come dicevo prima, la Basilica Lateranense essendo la cattedrale del Sommo Pontefice, il vescovo di Roma, è chiesa madre di tutte le chiese del mondo, e presiede alla carità e all’unità di tutta la Chiesa. Questo è il primo tema di riflessione: come un edificio non si regge se non ha un solido fondamento e se le sue pietre non sono perfettamente disposte e accostate tra loro, così il tempio di Dio, fatto di quelle pietre vive che siamo noi, richiede unità e concordia tra i suoi membri ma, soprattutto, che tutti quanti poggiamo saldamente su quella pietra angolare che è Cristo (Cfr Ef 2,20).

Nella pagina di Vangelo ascoltiamo il racconto dell’episodio conosciuto impropriamente come la “purificazione del tempio”. In realtà Gesù sta sancendo la fine del culto nel tempio. Da ora in poi Cristo è il vero tempio, il luogo dove possiamo incontrare Dio; la Chiesa è tempio di Dio solo se vive come un corpo il cui capo è Cristo e in cui non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Come ricorda l’evangelista, infatti, riportando la risposta alla domanda dei Giudei su come possa Gesù ricostruire in tre giorni un tempio che aveva richiesto quarantasei anni di lavori: «Egli parlava del tempio del suo corpo

«… vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro.» La Prima Lettura, ci presenta alcuni frammenti di una visione del profeta Ezechiele, fatta al tempo in cui Gerusalemme e il tempio erano stati distrutti. L’immagine del fiume che sgorga dal lato destro del tempio portando ovunque vita e risanando persino le acque del Mar Morto è evocativa, e i Padri della Chiesa non hanno faticato a vedervi una prefigurazione della scena della crocifissione: «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (cfr. Gv 19,33-35). È dal fianco squarciato di Gesù che scaturiscono i Sacramenti che ci rendono Chiesa e che la Chiesa amministra: un fiume che rallegra la città di Dio, come siamo invitati a ripetere al Salmo Responsoriale.

«… non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». Di questo tempio di Dio che siamo noi, come singoli battezzati e come comunità ecclesiale, dobbiamo avere cura, tenendo lontana ogni logica mercantile, ogni tentazione di entrare in una sorta di rapporto commerciale con Dio. È a questa perversione del culto che il Maestro reagisce: Israele ha “addomesticato” il suo Signore intraprendendo con Lui una sorta di mercato: osservanza formale scrupolosa in cambio di prodigi. L’amore e la comunione con Dio non trova più posto in questa logica mercantile. Gesù, per come oggi ci viene presentato nel Vangelo, appare quasi irriconoscibile: il più mite degli uomini si scaglia, con una “violenza” che ricorda quella del profeta Elia, contro la mentalità in cui il culto (i sacrifici) e le offerte sono intese come un “accumulare crediti” dinanzi a Dio; non si cerca Dio, ma il proprio interesse; non c’è più posto per la preghiera, il dialogo d’amore cercato da Dio.

Ricordando allora che siamo tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in noi, ringraziamo il Signore e coltiviamo il rapporto d’Amore con Lui per essere sempre più conformi a Cristo, il “luogo santo” in cui ogni uomo può incontrare Dio.

Fr. Marco

domenica 2 novembre 2025

Venite, benedetti del Padre mio

«In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte un banchetto di grasse vivande.» (Is 25,6a.7-9)

«Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». (Rm 8,14-23)

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 31-46)

Ogni anno, i primi due giorni di Novembre la Liturgia ci fa contemplare “le cose ultime”: giorno 1 contempliamo la nostra meta, la Gerusalemme del Cielo e la “Chiesa gloriosa”; giorno 2 ci uniamo in preghiera per commemorare i nostri fratelli e sorelle defunti; contempliamo la “Chiesa purgante” e il nostro pensiero si sposta su una tappa obbligata della nostra esistenza: sorella morte «dalla quale nullo homo vivente può scampare» (s. Francesco d’Assisi) e che ci apre le porte dell’eternità.

Il secondo schema della liturgia della Parola, che qui ho scelto di seguire, ci conforta sul destino dei nostri cari defunti e quindi sul destino a cui andiamo incontro anche noi: abbiamo ricevuto lo Spirito del Figlio e, se abbiamo lasciato che ci conformasse a Lui con i fatti e nella verità e non a parole e con la lingua (Cfr. 1 Gv 3,18), saremo riconosciuti benedetti ed introdotti al banchetto del Cielo preparato per noi fin dalla creazione del mondo.

Il Vangelo di oggi, infatti, aprendoci uno squarcio sul compimento del Tempo (che esistenzialmente per noi coinciderà con il compimento del nostro tempo), ci indica anche su cosa saremo valutati, quale sarà il criterio di discrimine tra i benedetti del Padre e i maledetti: l’amore concreto che avremo saputo vivere verso gli ultimi i piccoli, quelli dai quali non possiamo aspettarci niente in cambio e nei quali il Figlio eterno del Padre ha voluto essere riconosciuto.

«Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere …?» mi colpisce che sia i giusti sia i reprobi, restino stupiti della identificazione del Signore nei fratelli bisognosi. I primi operano con carità sincera e non interessata; i secondi, invece, ignorano i fratelli nel bisogno forse perché interessati solo a se stessi.

«Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» Mi conforta sempre notare che il fuoco eterno, l’inferno, non è preparato per noi: il Padre non vuole nessuno all’inferno. Siamo noi che con le nostre scelte di chiusura all’Amore e quindi agli altri da aiutare e da cui essere soccorsi, ci condanniamo all’inferno, a quella bruciante solitudine che lascia in noi un vuoto incolmabile. Vita eterna e fuoco eterno, infatti, iniziano ad essere sperimentati qui con le nostre scelte di amore o egoismo.

In questa giornata affidiamo alla Misericordia del Signore i nostri fratelli e sorelle defunti, intercediamo per loro nella sicura speranza che l’Amore che hanno vissuto e che ci ha uniti in vita sia loro moltiplicato e li purifichi dalle imperfezioni che hanno macchiato la loro esistenza terrena. Oggi, però è anche un’occasione preziosa per fare il punto sulla nostra vita, sull’orientamento che le stiamo dando, sull’Amore concreto che stiamo vivendo: se oggi il Signore mi chiamasse a Sé, sarei riconosciuto Figlio e annoverato tra i benedetti del Padre?

Intercedendo per i nostri cari che hanno concluso la loro esistenza terrena, chiediamo anche la loro preghiera perché possiamo fare tesoro del tempo che ci resta e fare opere di vita eterna. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco

venerdì 31 ottobre 2025

Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare

 «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». (Ap 7,2-4.9-14)

«Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.» (1Gv 3,1-3)

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». (Mt 5,1-12)

La liturgia di oggi, solennità di Tutti i Santi, celebra tutti cristiani che hanno vissuto pienamente il loro battesimo e hanno realizzato la chiamata alla santità, anche quelli “anonimi”, non canonizzati. Oggi, infatti, la Chiesa ci ricorda anche che tutti siamo chiamati alla santità,

É importante, però, chiarire cosa significhi essere santo. Fare miracoli? Leggere le coscienze? Avere il dono della bilocazione? … No! Queste sono solo manifestazioni visibili, doni che il Signore può concedere per il bene della Chiesa. Essere santo significa principalmente e fondamentalmente vivere il proprio Battesimo, fare giungere a pienezza quella conformità a Cristo che ci è stata donata, cioè vivere la Fede, la Speranza e la Carità.

Vivere la Fede non significa credere che Dio esiste: questo lo credono anche i filosofi e lo sanno anche i demòni. Avere la Fede, vivere la Fede ricevuta nel nostro Battesimo, significa credere che Dio è il Padre che ci ama dall’eternità; che Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre, si è fatto uomo, è morto in croce per la nostra giustificazione ed è risorto per la nostra salvezza; che lo Spirito Santo, uno con il Padre e il Figlio, è stato effuso nei nostri cuori e ci guida alla Vita eterna. Avere Fede significa fidarsi del Signore e riconoscere la Sua Signoria nella nostra vita.

La Speranza virtù teologale che abbiamo ricevuto nel Battesimo, non ha niente a che fare con la “speranza incerta” di chi “spera” di vincere il super enalotto, una speranza di cui giustamente il proverbio dice «chi di speranza vive, disperato muore». La Speranza cristiana è “Speranza Certa”, come direbbe S. Francesco: è la consapevolezza, fondata sulla Fede, che il Padre ci ha salvati, ci ha destinati alla Vita eterna e ad essa ci conduce se noi ci lasciamo guidare. Come dice S. Giovanni nella seconda lettura di oggi: «noi fin d’ora sappiamo di essere Figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato …»

Vivere la Carità, infine, ha ben poco a che fare con “l’elemosina” fatta dando il nostro superfluo perché il fratello bisognoso smetta di importunarci. La Carità è l’amore stesso di Dio che arde nei nostri cuori e che ci spinge ad Amare Dio e i fratelli più di noi stessi. È la capacità di amare gratuitamente, di donare amore anche quando non siamo contraccambiati.

Vivendo pienamente la Fede, la Speranza e la Carità, cioè la conformità a Cristo ricevuta nel Battesimo, saremo santi, sperimenteremo quella Vita pienamente realizzata che il Padre ha pensato per noi. Solo così riusciremo a vivere le Beatitudini, che oggi ci vengono riproposte: potremo essere realmente “poveri in spirito” perché sapremo che la nostra vita non dipende da ciò che possediamo, ma è nelle mani di un Padre che si prende cura di noi. Potremo essere misericordiosi perché avremo fatto esperienza della misericordia del Padre che nel suo Figlio ci ha liberati dai peccati … ecc.

Come si fa ad avere la Fede, la Speranza e la Carità? È questione di “impegnarsi”? No! Per essere santi è importante lasciare operare Dio nella nostra vita, abbandonarsi a Lui: «Cercare il Signore, custodire la sua Parola, cercare di rispondere ad essa con la propria vita, crescere nelle virtù, questo rende forti i cuori dei giovani. Per questo occorre mantenere la “connessione” con Gesù, essere “in linea” con Lui, perché non crescerai nella felicità e nella santità solo con le tue forze e la tua mente» (Christus Vivit n. 158)

È Gesù che ci ha conformati a sé e che ci ha donato Fede, Speranza e Carità. Sono dono gratuito di Dio che ci è stato consegnato al momento del Battesimo: ogni battezzato ha in se il seme della Fede che produce i frutti della Speranza e della Carità. Un dono che ci chiama a responsabilità: se ci regalano una pianta che fa fiori meravigliosi, ma noi non la concimiamo, non la innaffiamo, non togliamo le erbacce e magari la teniamo al buio in un angolo nascosto della nostra casa, è forse colpa della pianta se non potrà fare fiori? Così è della nostra Fede: il Padre ce la dona con il Suo Spirito al momento del Battesimo; sta a noi però coltivarla, nutrirla, purificarla. Il Padre ce ne dà pure l’occasione con i Sacramenti. Nutriamo allora la nostra Fede, procuriamo di farla crescere e vedremo nascere nella nostra vita i frutti della Speranza e della Carità. Diventeremo così realmente ciò che siamo chiamati ad essere: santi che con la loro vita bella e piena saranno capaci di testimoniare al mondo la Bellezza di Dio perché il mondo possa trasformarsi ogni giorno di più nel Regno di Dio. Il Signore ce lo conceda anche per l’intercessione dei suoi santi che contemplano già la Sua Gloria. Auguri di santità.

Fr. Marco

 

sabato 25 ottobre 2025

O Dio, abbi pietà di me peccatore

«Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.» (Sir. 35, 15-17.20-22)

«Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.» (2Tm 4, 6-8.16-18)

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: … Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 9-14)

La pagina di Vangelo della XXX domenica del Tempo Ordinario ci presenta la virtù dell’umiltà, lo “stare al nostro posto” davanti a Dio e a i fratelli. Caratteristica fondamentale della preghiera continua che ci era raccomandata domenica scorsa.

Mi sembra importante chiarire che l’umiltà è una “virtù particolare”: come e più delle altre virtù va vissuta come una tensione costante. Chi affermasse di “avere raggiunto l’umiltà”, sostanzialmente “vantandosi di essere umile” (anche solo dinanzi a se stesso),  dimostrerebbe il contrario. Umile è colui che riconosce la Signoria di Dio nella sua vita e si sottomette al Suo giudizio riconoscendo la propria povertà (I lettura). Ciò non lo esime dal fare tutto quanto deve fare, ma ha sempre la consapevolezza che è il Signore a dargli la grazia e la forza di compiere il suo dovere (II lettura).

L’evangelista Luca è chiaro nel presentare la motivazione per cui il Maestro dice la parabola: «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Gesù non intende condannare le opere di giustizia del fariseo, né tanto meno approva i peccati del pubblicano. Ciò che rispettivamente è condannato e approvato è il modo di porsi dinanzi a Dio: è errato quello del fariseo e corretto quello del pubblicano.

«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Il Vangelo sottolinea che il fariseo sta in piedi, nell’atteggiamento esteriore di chi è eretto e fiero; sale sul piedistallo della sua “giustizia” e da lì condanna i fratelli e si compiace della sua “perfezione”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano … ». Il fariseo, inoltre, “prega tra sé”. Apparentemente si rivolge al Signore, ma la sua “preghiera” è tutta ripiegata su di sé, sull’autoglorificazione: presenta al Signore i suoi meriti sottolineando il suo essere migliore degli altri. Non cerca la giustizia salvifica del Giusto Giudice perché si è già giudicato e salvato da solo. In sostanza, afferma che Dio gli è debitore della giusta ricompensa per le sue opere. Il fariseo pensa di non avere bisogno di Dio!

Purtroppo mi è capitato di ascoltare “confessioni” che assomigliano alla “preghiera” del fariseo: iniziano con l’affermazione di non avere peccati (almeno non peccati gravi) e continuano con un elenco di opere buone. Sostanzialmente questi fratelli e sorelle vanno a “confessarsi” per formalità, perché è l’ennesima “opera buona” da aggiungere all’elenco, ma non sembrano convinti di avere bisogno della Misericordia del Padre.

«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». L’atteggiamento esteriore è totalmente diverso da quello del fariseo: non c’è fierezza, ma consapevolezza della propria indegnità. Si batte il petto, sede del cuore, perché consapevole che il suo cuore è malato, incapace di amare Dio e i fratelli. La sua preghiera, inoltre, pur se “non osa alzare gli occhi al cielo”, è tutta rivolta al Giusto Giudice al quale chiede pietà. Sappiamo che solo quest’ultimo torna a casa giustificato.

Ritengo sia importante notare che, al contrario del fariseo, il pubblicano non si paragona agli altri uomini, ma si pone al cospetto di Dio. Questo è fondamentale per coltivare l’umiltà: finché il mio confronto saranno i fratelli e le sorelle con le loro debolezze e miserie, il mio “cuore malato” potrà sempre trovare qualcuno “peggiore” di me che mi faccia sentire “a posto”. Il nostro termine di riferimento, colui col quale siamo chiamati a confrontarci, allora, non siano i fratelli e sorelle verso i quali dobbiamo avere misericordia, ma il nostro Maestro Gesù che ci ha mostrato l’Uomo secondo il progetto del Padre e ci ha conformati a Lui nel Battesimo.

A questo punto sarebbe facile (e comodo) cadere nella tentazione di identificarci con il pubblicano salvato e magari incorrere nell’errore di “disprezzare” i farisei di tutti i tempi. Come ci ricorda P. Raniero Cantalamessa, «Pochissimi (forse nessuno) sono o sempre dalla parte del fariseo, o sempre dalla parte del pubblicano, cioè giusti in tutto o peccatori in tutto. I più abbiamo un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. La cosa peggiore sarebbe comportarci come il pubblicano nella vita e come il fariseo nel tempio. I pubblicani erano dei peccatori, uomini senza scrupoli che mettevano il denaro e gli affari al di sopra di tutto; i farisei, al contrario, erano, nella vita pratica, molto austeri e osservanti della Legge. Noi somigliamo, dunque, al pubblicano nella vita e al fariseo nel tempio, se, come il pubblicano, siamo dei peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti.».

Fr. Marco

sabato 18 ottobre 2025

Il Padre farà loro giustizia prontamente

  «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk» (Es 17, 8-13)

«Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.» (2Tm 3,14 – 4,2)

«… Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». (Lc 18, 1-8)

Oggi, XXIX domenica del tempo ordinario, già dal primo versetto della pagina di Vangelo la Parola di Dio ci presenta quale insegnamento Gesù vuole darci: la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. Per farlo il Maestro utilizza un ragionamento a fortiori conosciuto dai sapienti del suo tempo: se l’insistenza della vedova ottiene giustizia dal giudice iniquo, quanto più il Padre ci darà ciò che ci serve? Solo bisogna perseverare nella preghiera con fiducia.

Come ci ricorda la prima lettura, infatti, solo con la preghiera possiamo trovare vittoria contro il nostro “avversario”, il “nemico” dei figli di Dio: il satana (in ebraico satàn indica proprio il nemico, l’avversario, l’accusatore), il diavolo (dal greco diàballo: “che separa”) che vuole separarci da Dio che è la Vita. Solo nella preghiera, inoltre, possiamo ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

«il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Voglio iniziare proprio da questo interrogativo con cui si conclude la pagina evangelica. Per pregare sempre senza stancarsi, infatti, è necessario mantenere desta la fede. Per contro, stancarsi di pregare significa non avere più fede/fiducia, convincersi che la nostra preghiera sia inutile, che Dio non ci ascolta e che “dobbiamo salvarci da soli”.

La preghiera autentica, quindi, si alimenta di fiducia, è l’espressione di un cuore di figlio che si fida del Padre e confida in Lui dal quale si sa amato. La preghiera, infatti, non è una “formula magica” con la quale convinciamo Dio a darci ciò che vogliamo. Chi intendesse così la preghiera dimostrerebbe di non avere fede in Dio: non sa (o almeno non ci crede veramente) che Dio è il Padre che conosce e vuole darci ciò che è buono per noi.

 In proposito San Giovanni Crisostomo ci ricorda che: «La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera.». La preghiera è un dialogo con Dio, tuttavia non è “questione di parole”: «Quando pregate, non sprecate parole come i pagani,  i quali credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7).

Essendo dialogo, la preghiera ci mette in comunione con Dio, ci illumina, ci fa comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ecco l’esigenza del pregare sempre: la preghiera non serve a convincere Dio a darci ciò che vogliamo, ma a rimanere in comunione d’amore con Lui, a comprendere quale progetto d’amore il Padre ha per noi e ad avere la forza per realizzarlo anche quando passa per la “croce”. Le formule che i santi e la Chiesa ci hanno consegnato, i luoghi e i tempi particolarmente consacrati al dialogo con Dio, sono tutte cose buone nella misura in cui non spengono, ma ravvivano e “incanalano”, la spontaneità del cuore che si affida al Padre e confida in Lui.

L’evangelista Luca è quello che più degli altri tratta della preghiera e specialmente della preghiera di Gesù. Il Maestro è spesso presentato in preghiera, ma non certo per chiedere “cose”. La preghiera di Gesù presentataci da Luca consiste nel mettersi alla presenza del Padre, sperimentare la comunione con Lui per potere sempre meglio compiere la Sua volontà. Questo il Maestro ci ha insegnato consegnandoci il modello di ogni preghiera, il Padre Nostro, nel quale ci insegna a chiedere “Sia fatta la Tua volontà”. Questo è il modo in cui gli evangelisti ci presentano Gesù in preghiera al Getsèmani, nel momento della sofferenza: «Padre, passi da me questo calice, ma sia fatta la Tua e non la mia volontà» (Cfr. Lc 22,43 e paralleli)

L’esortazione a pregare sempre senza stancarsi, ha influenzato molto la spiritualità cristiana ed ha prodotto, nella spiritualità ortodossa, la “preghiera del cuore”, o “preghiera di Gesù” di cui si tratta anche nella Filocalìa e che è stata largamente diffusa dai Racconti di un Pellegrino Russo. Si tratta della ripetizione, collegata al ritmo del respiro ed ai battiti del cuore, della preghiera pronunciata nel vangelo dal cieco di Gerico (Lc 18, 38): «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Una preghiera quindi, volta a mettersi dinanzi a Gesù, il nostro Signore, nell’atteggiamento di chi non chiede qualcosa di particolare, ma tutto si aspetta da Dio di cui riconosce la maestà. Penso possa essere annoverata in questo genere di preghiera anche quella fatta da S. Francesco durante le lunghe notti di veglia: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?» (FF 1915).

Accogliamo l’insegnamento del Vangelo, manteniamo desta la nostra Fede, la Fiducia nell’amore del Padre; riconoscendoci figli amati, coltiviamo la comunione d’Amore con Dio per potere compiere la Sua Volontà.

Fr. Marco.

 

sabato 11 ottobre 2025

Rendiamo Grazie a Dio

 «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele …» (2Re 5,14-17)

« … se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà» (2Tm  2, 8-13)

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 11-19)

Questa domenica, XXVIII del tempo ordinario, la liturgia della Parola ci presenta l’importanza della relazione con Dio, Datore di ogni Bene, in un percorso che va dalla guarigione, al riconoscimento e alla riconoscenza.

Sia la prima lettura tratta dal libro dei Re che la pagina evangelica, infatti, raccontano due guarigioni miracolose dalla lebbra. La lebbra è una malattia che ha una grande valenza simbolica della condizione del peccatore: il peccatore, come il lebbroso, vive una vita in cui sperimenta la morte. Il peccato, infatti, ci allontana dalla fonte della Vita facendoci sperimentare la morte in una vita che ha perso il suo senso.

Ritengo sia importante notare come in entrambi questi racconti di guarigione è richiesto un rapporto di fiducia personale in colui che compie la guarigione. Una fiducia che chiede di lasciare da parte le nostre precomprensioni e attese: a Naamàn il Siro, che si aspettava complicati rituali “magici”, Eliseo, senza neanche incontrarlo (Cf. 2Re 5,10), manda a dire semplicemente di bagnarsi nel Giordano; ai dieci lebbrosi Gesù chiede di presentarsi ai sacerdoti che avrebbero dovuto verificare una guarigione che, al momento in cui li invia, non è ancora avvenuta. Soltanto in questo rapporto personale di fiducia può avvenire il miracolo.

Il miracolo, infatti, ha senso come “segno”: indica l’identità di colui che lo compie. Per questo Naamàn guarito proclama l’unicità di Dio e il lebbroso si prostra dinanzi a Gesù: hanno saputo comprendere il segno e per loro la guarigione diventa salvezza.

È in quest’ambito del rapporto personale e del riconoscimento del segno che trova posto il ringraziamento. Ringraziare, infatti ci pone nel giusto rapporto con il datore del dono e con il dono stesso. Ringraziando mi riconosco debitore nei confronti del datore del dono; riconosco che il dono non mi è dovuto, ma è una grazia, un regalo, che mi è stato fatto. In tal  modo, inoltre, sarò capace di riconoscere nel dono ricevuto l’amore del donatore e ne avrò la giusta considerazione.

Va sottolineato, inoltre, il fatto che l’unico lebbroso che torna ringraziare Gesù sia un Samaritano, uno scismatico. È da supporre che gli altri nove fossero Israeliti, appartenenti al popolo eletto. Forse i nove lebbrosi Israeliti davano per scontata la guarigione, pensavano fosse loro dovuta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che mentre tutti e dieci sono stati “purificati”, solo al Samaritano Gesù parla di salvezza.

Fiducia e gratitudine, allora, ci vengono presentati oggi come l’antidoto alla lebbra del peccato e atteggiamenti per accogliere la Salvezza. Il peccato, infatti, è non volere accettare il giusto rapporto con Dio, non riconoscere i Suoi infiniti doni di grazia come segni del Suo amore, ma considerarli come dovuti; assolutizzarli come capaci di darci la vita e metterli al posto del Donatore.

Accogliamo l’invito della Parola e impariamo a dire grazie a Dio per tutti i suoi doni. Un “grazie” non forzato, ma di cuore e che si manifesti soprattutto nel tenere in giusto conto i doni di Dio usandoli per darGli gloria.

Fr. Marco

giovedì 2 ottobre 2025

Il giusto vivrà per la sua fede

 «Scrivi la visione … È una visione che  attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». (Ab 1,2-3;2,2-4)

« … Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro … » (2Tm 1,6-8.13-14)

​«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. … quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17,5-10)

​​In questa XXVII domenica del tempo ordinario la liturgia della Parola ci fa invocare insieme agli apostoli: «Accresci in noi la fede!». Basta guardare un telegiornale, infatti, per rimanere sgomenti dinanzi la violenza e l’iniquità del mondo: guerre, genocidi, cambiamenti climatici amplificati da una cattiva gestione del Creato, crisi economica, criminalità …

«Fino a quando, Signore … ?» Anche il profeta Abacuc (I lettura) resta sgomento dinanzi il male nel mondo e chiede al Signore di intervenire. A lui e a noi il Signore risponde che tutto ciò avrà un termine. La violenza, l’iniquità e la follia del mondo non hanno l’ultima parola: «soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». Oggi il Signore ci invita a fidarci e a Sperare. La Fede, infatti, non può essere vissuta separata dalla Speranza che si fonda sull’ascolto della Parola.

«Il giusto vivrà per la sua fede.» Siamo chiamati a fidarci, a non indurire il nostro cuore, ad ascoltare la sua Parola con un ascolto attivo e operoso. Non possiamo, infatti, limitarci a professare delle “verità teoriche”. Vivere per la Fede, significa vivere conseguentemente a ciò che crediamo. È a questo che ci esorta s. Paolo nella seconda lettura scrivendo a Timoteo: rinnoviamo il dono della fede che abbiamo ricevuto con il nostro Battesimo, non vergogniamoci di testimoniare Cristo, non conformiamoci al mondo. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.

Facciamo attenzione, però, a non cadere nell’errore di comportarci come “salariati” e non come figli; di credere di “fare qualcosa per Dio”, di “accumulare meriti” dinanzi a Lui, di renderlo “nostro debitore”. Anche questo, infatti, sarebbe sintomo della nostra mancanza di fede: significherebbe che pensiamo di doverci “guadagnare” la salvezza  e, quindi, che non conosciamo il Padre che esaudisce le preghiere del suo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito e aggiunge ciò che la preghiera non osa sperare (preghiera Colletta).

«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» Per aiutarci a non cadere in questo errore, Gesù ci esorta oggi a riconoscerci “servi inutili”, che fanno ciò che devono fare senza aspettarsi niente in cambio. Guardiamoci dalla mentalità mercantile del “io faccio perché tu mi dia”. Assumiamo la mentalità dei figli che, animati dalla Carità, dall’Amore per il Padre e per i fratelli, non chiedono altro che di servire perché il Padre possa rallegrarsi di loro e con loro.

Oggi, quindi il Signore ci invita a vivere le tre Virtù Teologali che ci conformano a Cristo, il solo giusto: Fede, Speranza e Carità, ricevute nel Battesimo, indivisibili, che possono essere possedute e vissute solo insieme.

È grazie alla Fede, vissuta insieme alla Speranza e alla Carità, infine, che potremo convertirci, che potremo cambiare mentalità, luogo a cui attingiamo vita: è l’immagine del gelso che si sradica per trapiantarsi in mare. Siamo chiamati a cambiare il nostro modo di vedere, il nostro modo di vivere, attingendo vita là dove il mondo pensa che sia assurdo: attingendo Vita dal Vangelo. Il Signore ce lo conceda.

Fr. Marco