venerdì 26 settembre 2025

Guai agli spensierati di Sion, cesserà l’orgia dei dissoluti!

 «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!» (Am 6,1.4-7)

«Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.» (1Tm 6,11-16)

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe … » (Lc 16, 19-31) 

​​Questa domenica, XXVI del Tempo Ordinario, la Parola di Dio ci mostra un esempio di chi non è stato capace di imitare la scaltrezza dei figli di questo mondo nell’usare saggiamente della ricchezza per farsi degli amici tra i poveri, tra “coloro che contano” dinanzi a Dio. La parabola raccontata nella pagina di Vangelo, infatti,  non è rivolta ai poveri perché si rassegnino sperando in un “al di là” in cui le cose saranno diverse, ma ai ricchi: Gesù parla in prima istanza ai Farisei amanti del denaro (v. 14).

Ritengo sia importante notare, inoltre, che “Ricchezza” e “povertà” non vanno intese solo come abbondanza o mancanza di beni; sono principalmente atteggiamenti del cuore: essere attaccati, accecati, dai beni (molti o pochi) che si possiedono o confidare in Dio ponendo in lui la nostra fiducia. Si può essere “ricchi” anche possedendo pochissimo, se a quel poco che possediamo attacchiamo il cuore convinti che da esso dipenda la salvezza della nostra vita. Conseguenza immediata, infatti, è che non siamo capaci di condividere ciò che abbiamo con i fratelli. Per la spiritualità giudaico-cristiana questa condivisione è un atto di giustizia senza la quale non può esserci pace con Dio e con i fratelli; è un “restituire” a Dio i suoi doni. San Francesco d’Assisi lo sa bene. Nella Legenda dei tre compagni leggiamo che una volta «disse a se stesso: «“Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che ricambia tanto largamente”. Da quel giorno incontrava volentieri i poveri e distribuiva loro elemosine in abbondanza» (FF 1397). Per Francesco comportarsi diversamente equivale a rubare al povero ciò che è suo perché ne ha bisogno.

«C’era un uomo ricco … » Il protagonista della parabola odierna, non è il povero Lazzaro, ma il ricco senza nome di cui sappiamo soltanto che banchettava lautamente e vestiva in modo regale. È significativo il fatto che del ricco neanche si sappia il nome: mentre il povero Lazzaro (il cui nome, non a caso, significa “Dio aiuta”) è conosciuto e amato da Dio in cui pone tutta la sua fiducia, il ricco, accecato dai suoi beni, si è sottratto a questo amore. Il dramma di quest’uomo non è quello di avere ricchezze materiali, ma quello di essersi fatto accecare da esse tanto da non vedere il bisogno del fratello davanti la sua porta. Peggio ancora, il dramma è nell’avere chiuso il cuore al bisogno del fratello e quindi, direbbe san Giovanni, nell’avere chiuso il cuore all’amore di Dio (Cfr. 1Gv 3,17). È il pericolo della ricchezza che diventa idolo: ci illude che possa darci la vita, che possa spegnere la “sete di Vita” che ogni uomo sente in se.

Il secondo quadro della prima parte della parabola, narrando la fine di questa vita terrena, mette in luce l’inganno: il povero, che ha confidato in Dio, è accolto in paradiso, “nel seno di Abramo”; il ricco è sepolto. Sperimentano entrambi la sorte che si sono scelti: il povero Lazzaro che confidava in Dio, ora gode di Dio in maniera piena; il ricco che confidava nelle cose, nel cibo e nei vestiti, segue la sorte di questi ultimi: finisce nella terra a disfarsi.

La seconda parte della parabola, aprendo uno spiraglio sull’Eternità, mostra che Lazzaro vede ora appagata la sua “sete di Vita”; il ricco che si illudeva di appagare la sua sete, sperimenta ora una “fiamma bruciante”: una sete inestinguibile che le cose non sono state capaci di placare e che ora lo divora per l’eternità. Il dramma del ricco, inoltre, sta nell’incapacità di vedere Lazzaro come un fratello: in vita non lo vedeva davanti la sua porta; in morte lo vede come servo («manda Lazzaro intingere … manda Lazzaro ad ammonire»). Facciamo attenzione a come vediamo quanti ci stanno accanto, soprattutto i più poveri e piccoli; attenti alla loro dignità, riconosciamoli fratelli.

«Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro» La risposta di Abramo alla richiesta del ricco di mandare Lazzaro a mettere in guardia i fratelli, infine, costituisce un ammonimento ad ascoltare la Parola. L’ascolto che viene chiesto è un “ascolto obbediente”. Il ricco e i suoi fratelli conoscono la Parola, probabilmente partecipano pure alle liturgie, ma questo non cambia la loro vita. Non sia così per noi. Lasciamo che la Parola ci metta in crisi e cambiamo la nostra vita per potere godere di quella pienezza di Vita che solo Gesù può donarci.

Fr. Marco

sabato 20 settembre 2025

Usiamo bene dei beni in vista del Sommo Bene

 

«Il Signore mi disse: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese […]. Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere”». (Am 8,4-7)

«Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.» (1Tm 2,1-8)

«Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.» (Lc 16, 1-13)

Questa domenica, XXV del Tempo ordinario, la pagina di Vangelo ​ci presenta qualcosa che, a prima vista, risulta sconvolgente: nella parabola raccontata Gesù viene lodato l’amministratore disonesto!

Soffermandoci con più attenzione, però, scopriamo che ad essere lodata non è, ovviamente, la disonestà, ma la scaltrezza, o più precisamente la previdenza: l’amministratore disonesto si rende conto di ciò che sta per avvenire, fa i suoi calcoli, e prende provvedimenti. La scaltrezza che il padrone loda sta nel non lasciarsi ingannare dalla “disonesta ricchezza”; disonesta perché promette ciò che non può dare: vita e felicità. La prima lettura, inoltre, ci mette in guardia dall’usare le persone, in particolare i poveri, per i nostri egoistici fini, per accumulare la disonesta ricchezza; chi agisse così è avvisato: «Non dimenticherò mai tutte le loro opere»

«So io che cosa farò … “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”» L’amministratore della parabola non si lascia travolgere dagli eventi: prende in mano la situazione ed è capace di fare scelte, anche costose, per assicurarsi un avvenire. Nel chiamare i debitori del suo padrone, infatti, rinuncia al suo immediato e disonesto guadagno, il ricarico che faceva sui crediti del suo padrone, per “farsi degli amici” che lo accolgano in futuro.

«Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta …» Oggi il Maestro ci invita ad essere scaltri e previdenti: il Regno è vicino e saremo chiamati a rendere conto di come abbiamo amministrato i beni che ci sono stati affidati: facciamo scelte che ci assicurino la salvezza eterna. Gesù oggi ci invita a farci amici coloro che possono accoglierci nel Regno: i poveri, gli ultimi, i più piccoli; tutti coloro dei quali Gesù ha detto: «Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me» (Cfr. Mt 25, 31-46).

I “figli di questo mondo” conoscono bene questa scaltrezza: sono disposti a rinunce e sacrifici per ottenere “l’amicizia” di qualcuno la cui parola conti. La loro prospettiva è, però, molto limitata: pensano che il potere e la ricchezza in questo mondo potranno dare loro la Vita di cui ogni uomo è assetato; sperimentano, invece, che potere e ricchezza non bastano mai. Che tristezza quando anche i “figli della luce” si fanno accecare dalla limitata prospettiva intramondana e vanno in cerca di ricchezza e potere; magari proprio a scapito di quegli “amici di Dio” che sono i piccoli e i poveri!

Gesù oggi ci invita ad alzare lo sguardo e a “farci furbi”: la nostra prospettiva è il Regno dei Cieli, la Vita vera che Lui solo può darci. Usiamo bene dei doni che siamo chiamati ad amministrare, non lasciamoci accecare dalle ricchezze come se queste potessero darci la vita con il solo accumularle. Impariamo a condividerle con gli “amici di Dio” per essere accolti nella vera Vita. Una Vita eterna che comincia qui nella gioia della condivisione, nell’amare e sentirsi amati, ma che andrà di pienezza in pienezza per l’Eternità. Voglio concludere con un pensiero di San Basilio Magno il quale ci ricorda che i beni della terra non sono “miei”, ma “nostri” e vanno condivisi: «Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato.  Il vestito che è appeso nel vostro armadio è il vestito di chi è nudo. Le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo. Il denaro che voi tenete nascosto è il denaro del povero». Ricordiamoci che le persone vanno amate e le cose usate; mai il contrario.

Fr.  Marco.

venerdì 12 settembre 2025

Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce

«In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”.  … Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”» (Nm 21,4-9)

«Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.» (Fil 2,6-11)

«E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.» (Gv 3,13-17)

Questa domenica celebriamo la festa della esaltazione della Croce che ci mette dinanzi all’amore salvifico di Dio. Egli ha mandato il suo Figlio perché il mondo si salvi. A noi chiede solo di accogliere questa salvezza compiendo con Lui il cammino salvifico che, passando dalla Croce, ci libera dalla schiavitù del peccato e ci rende figli di Dio.

La Croce, infatti, non è un incidente della vita Cristiana, qualcosa che può pure mancare: è imprescindibile. Lo sappiamo bene, Gesù ha detto «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua Croce e mi segua». Come ci ha ricordato Papa Leone XIV nell’angelus del 24 agosto scorso, nel contesto dell’anno giubilare: « Gesù non ha scelto la via facile del successo o del potere ma, pur di salvarci, ci ha amati fino ad attraversare la “porta stretta” della Croce. Lui è la misura della nostra fede, Lui è la porta che dobbiamo attraversare per essere salvati (Cfr Gv 10,9), vivendo il suo stesso amore e diventando, con la nostra vita, operatori di giustizia e di pace.»

La liturgia della Parola si apre con l’affermazione che il popolo, liberato dalla schiavitù d’Egitto e chiamato a percorrere il cammino verso la Terra promessa, non sopporta il viaggio e mormora contro Mosè e contro Dio. È quello che spesso facciamo anche noi: mormoriamo, ci comportiamo da ingrati, chiediamo sempre di più.

Questa mormorazione avvelena il rapporto d’amore tra il popolo e Dio; quel rapporto d’amore e di reciproca appartenenza che rendeva quella “gente raccogliticcia” che era uscita dall’Egitto, il Popolo di Dio. Per questa ragione, con i serpenti, il Signore rende visibile l’effetto mortifero della mormorazione. Il popolo si pente del suo peccato e torna al Signore per avere vita.

«Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta» Il Signore invita il popolo a contemplare la conseguenza del proprio peccato dalla quale il Suo Amore lo ha liberato. Il serpente di bronzo diventa quindi memoriale della morte, conseguenza del proprio peccato, e della salvezza che viene dal Signore.

Anche noi, nelle fatiche di ogni giorno, siamo invitati a contemplare la conseguenza del nostro peccato che ci dà anche la misura dell’Amore di Dio per noi: il Signore Gesù Cristo crocifisso per i nostri peccati e risorto come primizia di molti fratelli. Da questa contemplazione siamo invitati ad accenderci d’amore per Lui per portare con Lui la nostra Croce quotidiana.

La Croce, infatti, non è una sofferenza che subiamo nostro malgrado, con rassegnazione, perché non possiamo farne a meno; la croce è un’offerta d’amore, una sofferenza accolta per amore di Cristo e dei fratelli, un mettere da parte “noi stessi” per Amore.

La Croce, quindi, non va “sopportata”, subita; tanto meno va evitata. La Croce va abbracciata per amore e con amore. Questo amore non toglie che si sperimenti tutto il peso della Croce. P. Pio, in una epistola d una figlia spirituale, ci rivela in che modo non cadere sotto il peso della Croce: «Conosco per propria esperienza che il rimedio per non cadere è l’appoggiarsi alla Croce di Cristo, con la confidenza in Lui solo, che per la nostra salvezza volle esservi appeso»

«... perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Cosa significa credere in Lui? Fidarsi di Lui, obbedire a Lui, seguire le Sue orme. Quelle orme che puntano con decisione verso il Calvario per offrire la vita per amore. Quelle orme che, dopo il Calvario, giungono alla gloria eterna della resurrezione. 

La Croce, infatti, lo ribadisco è la sorgente della nostra salvezza: è attraverso la Croce che l’Amore misericordioso di Dio giunge al suo culmine e salva tutti gli uomini. È con la Croce, quindi, che siamo chiamati a seguire Gesù: siamo chiamati a fare della nostra vita un’offerta d’amore, rinnegando noi stessi, il nostro orgoglio e la nostra vanagloria, per Amore di Dio e dei fratelli.

Fr. Marco

sabato 6 settembre 2025

Se uno viene a me

 «A stento immaginiamo le cose della terra … ma chi ha investigato le cose del cielo?» (Sap 9, 13-18)

«… perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 1, 9-10.12-17)

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.» (Lc 14, 25-33)

​La Parola di Dio della  XXIII domenica del Tempo Ordinario, già dalla prima lettura ci pone una questione fondamentale per la realizzazione della nostra vita: Quale uomo può conoscere il volere di Dio?

Si tratta di avere o non avere quella Sapienza che dà sapore alla nostra vita (“sapienza” e “sapore” hanno la stessa radice nel latino sapio: “aver sapore”). Dal conoscere e fare la volontà di Dio, infatti, dipende la realizzazione della nostra vita. Viviamo veramente quando sappiamo e facciamo la volontà di Dio. Senza questa Sapienza, quindi, la nostra vita risulta insipida, vuota, una vita in cui “tiriamo a campare”. Ecco perché è importane cercare di conoscere il volere di Dio.

«A stento immaginiamo le cose della terra …» Facciamo continuamente, purtroppo, esperienza della nostra inadeguatezza: a stento riusciamo a conoscere le cose a noi vicine; spesso non conosciamo pienamente neanche noi stessi, tanto da restare sorpresi da alcune nostre reazioni e da non riuscire a dominarci pienamente. Il Padre stesso, però, ci viene incontro donandoci la Sua Sapienza. Nell’antico patto ha donato la Legge; nella pienezza dei tempi ci ha donato il Figlio e lo Spirito perché l’Amore, riversato nei nostri cuori, ci rendesse capaci di vivere la Legge.

Gesù, infatti, è la piena rivelazione del Padre, il Verbo eterno che ci rivela pienamente la Via e la Verità della Vita. Per questo noi conosciamo il volere di Dio: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23); «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27).

Anche conoscendo il volere di Dio, tuttavia, non sempre viviamo con sapienza, non sempre sappiamo ordinare i valori nella giusta gerarchia: difficilmente rinneghiamo noi stessi per mettere Dio al primo posto. Con difficoltà rinunciamo a tutti i nostri averi (rinunciamo a possedere  e a “possederci”) per camminare dietro il Maestro. Troppo spesso confondiamo le cose importanti con le cose “urgenti”: sappiamo che è importante l’Eucarestia domenicale, ma poi veniamo bloccati da mille cose che ci impediscono l’incontro con il nostro Signore; sappiamo che è importante pregare e meditare la Parola di Dio, ma le “urgenze” di ogni giorno fanno sì che non troviamo tempo da dedicare al Signore; sappiamo che Gesù ci chiede di perdonare “settanta volte sette”, ma spesso l’amor proprio (magari camuffato da “amore di giustizia”) ci impedisce di obbedire al nostro Signore.

«Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.» Il Maestro oggi si mostra esigente: ai suoi discepoli chiede un amore che lo metta al di sopra di tutto, anche della propria vita. Il Signore oggi ci ricorda che la vita cristiana, la vita da discepoli, è una vita impegnativa e va presa seriamente. Siamo chiamati a camminare dietro a Lui facendo della nostra vita un dono d’Amore: questo significa prendere la croce.

Non è raro, tuttavia, che il nostro modo di vivere la fede ci renda simili a quel tale che ha iniziato a costruire una torre, ma l’ha lasciata incompiuta. Una vita cristiana vissuta con superficialità è una vita che dà scandalo: noi non gustiamo la bellezza della vita e chi ci osserva non è attratto alla sequela (quante volte sentiamo il commento: «Se questi sono quelli che vanno in Chiesa … »)

Accogliamo l’invito del Maestro: prendiamo seriamente l’impegno della sequela e viviamo la vita con sapienza. La nostra vita sarà più bela, più “saporita”, vivremo pienamente.

Fr. Marco