sabato 31 maggio 2025

Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.

«Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”» (At 1,1-11)

«… abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.» (Eb 9,24-28;10,19-23)

«… alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.» (Lc 24,46-53)

​​Ogni anno nella festa dell’ Ascensione contempliamo il Signore Gesù Cristo che porta nel seno del Padre la nostra umanità glorificata. Gesù, il Verbo eterno del Padre, che incarnato nel grembo della Vergine Maria ha assunto la nostra natura umana ed è nato a Betlemme; lui che ha vissuto in mezzo a noi condividendo le nostre miserie (tranne il peccato); che ha offerto la sua vita sulla croce per amore, adesso, dopo la resurrezione e dopo avere istruito i suoi, ascende al Cielo.

«Abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio» L’autore della lettera agli Ebrei nella seconda lettura di oggi ci invita ad avere fiducia: abbiamo “nella casa di Dio” un Sommo Sacerdote che ha sperimentato e quindi conosce e compatisce le nostre miserie e i nostri condizionamenti. Siamo invitati, quindi, ad avere Fede, a vivere con “il Cuore puro”, a testimoniare la nostra Speranza.

La Fede, infatti, si manifesta in una vita “con il Cuore sincero e purificato”, cioè non “contaminato”, “unificato”, non diviso tra vari “amori”, ma tutto rivolto a Dio e, quindi, ai fratelli; una vita all’insegna della Carità, animata dalla Speranza certa che il nostro destino è nei cieli dove raggiungeremo il nostro Signore Gesù Cristo. La Speranza cristiana fondata sulla Fede non è la speranza aleatoria di cui solitamente si  afferma: “Chi di speranza vive, disperato muore”; non è una speranza incerta e senza fondamento, la speranza degli illusi. La Speranza Cristiana è la Speranza Certa (come la chiama S. Francesco) di chi sa che è degno di fede colui che ha promesso: Cristo che è la Via la Verità e la Vita.

«Ordinò loro … di attendere l’adempimento della promessa del Padre». La Parola di Dio di oggi sottolinea l’atteggiamento dell’attesa che sempre caratterizza la Speranza: attesa dell’adempimento della Promessa, del dono dello Spirito; l’attesa del ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi quando il Signore «verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Gli angeli ricordano ai discepoli che la loro deve essere un’attesa operosa. La virtù della Speranza, infatti, non è ciò che Marx chiamava “l’oppio dei popoli”, ma ci rimanda ad un impegno concreto perché questo mondo si trasformi nel Regno dei Cieli.

«Mentre li benediceva, si staccò da loro …» Il brano del Vangelo, infine, ci fa conoscere che tutta la nostra vita, se lo vogliamo, è sotto la benedizione del Nostro Signore: Gesù entra in Cielo, nell’eternità di Dio, “mentre” benedice la Sua Chiesa, non “dopo averli benedetti”: la Sua benedizione, quindi, non è conclusa. La benedizione di Cristo continua a riversarsi sui suoi discepoli disposti a “prostrarsi”, a riconoscerlo Signore della loro vita.

Il Vangelo di Luca si conclude lì dove era iniziato (Cfr Lc 1,5ss): nel Tempio e in un contesto di lode, con la sottolineatura della grande gioia che pervade gli apostoli. Una gioia dovuta sicuramente all’esperienza misteriosa della costante presenza del Signore: «l’Ascensione – infatti – non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi.» (Papa Francesco, Udienza Generale, Aprile 2013)

Tornando alla nostra quotidianità, allora, viviamo la nostra vita tenendo sempre presente che  la nostra meta è il Cielo; confidiamo nella Benedizione eterna del nostro Signore, perché il mondo attorno a noi, anche grazie alla nostra testimonianza, si trasformi nel Regno di Dio.

Fr. Marco

sabato 24 maggio 2025

Vi lascio la pace, vi do la mia pace

«Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. … È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie» (At 15,1-2.22-29)

«La città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. … In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,10-14.22-23)

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. … il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.» (Gv 14,23-29)

Avvicinandosi la solennità della Pentecoste, in questa VI domenica di Pasqua, la Parola di Dio ci invita a cercare ciò che è essenziale nella nostra vita e a non lasciarci prendere da paura e turbamento. Lo Spirito Santo, l’Amore che è Dio, sarà riversato nei nostri cuori e ci insegnerà ogni cosa: ciò che è essenziale, ciò che è importante. Il “di più”, ciò che è motivo di paura e turbamento, non viene dall’Amore. Dove c’è Amore, infatti, non c’è paura e turbamento.

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola.» Oggi il Signore ci dona un criterio per scoprire se veramente lo amiamo: osservare la Parola, fidarci di Lui e quindi fare ciò che ci chiede. È questo ciò che conta. Anche a noi può capitare l’esperienza raccontata nella prima lettura: “falsi pastori” che vengono a sconvolgere i nostri animi imponendoci pesi e comportamenti gravosi o chiedendoci l’adesione a questo o quel movimento quasi che la nostra salvezza dipenda da essi.

«È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie». Le parole del primo concilio di Gerusalemme, riportate nella prima lettura, ci invitano a tornare a ciò che è necessario, all’essenziale, e a non lasciarci opprimere da obblighi e gravami che se da una parte rendono la nostra vita più pesante, dall’altra ci fanno sentire “a posto” e ci distolgono da ciò che realmente conta; un atteggiamento spesso rimproverato da Gesù: «Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l'amore di Dio.» (Lc 11,42)

Nella pagina evangelica di questa domenica, preparando i discepoli alla sua ascensione al Cielo, il Maestro ci presenta ciò che veramente è necessario nella vita dei credenti: amarLo, ascoltare la Sua Parola e vivere la comunione con Lui. Tutto il resto può anche avere il suo posto, purché non sia fonte di turbamento e paura, chiaro sintomo che non viene da Dio.

«… noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.» Questo è ciò che avverrà quando, accostandoci alla Comunione, riceveremo in noi il Signore vivo e vero, inseparabile dal Padre e dallo Spirito Santo. È anche ciò che avviene ogniqualvolta accogliamo nel nostro cuore lo Spirito Santo e ci lasciamo istruire da Lui su come comportarci.

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.» La presenza in noi del Signore è fonte di una Pace che il mondo non conosce, della Vera Pace che è il dono pasquale per eccellenza. Una pace che non è solo assenza di conflitto, ma vera riconciliazione. Questa Pace è il perdono del Padre, la comunione con Lui, si diffonde anche nelle nostre relazioni. La Pace di Cristo, però non è neanche assenza di tribolazioni. È, invece, forza nelle tribolazioni, consapevolezza che Cristo è più forte del mondo con le sue tribolazioni e che queste, quindi, non potranno prevalere.

Osserviamo la Parola di Cristo, cerchiamo l’amore di Lui al di sopra di tutto, accogliamo la Sua adorabile presenza nella nostra vita. Sperimenteremo la vera Pace e saremo suoi testimoni nel mondo.

Fr. Marco

sabato 17 maggio 2025

Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri

 «Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. » (At 14, 21b-27)

​«E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” » (Ap 21,1-5)

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. » (Gv 13, 31-33.34-35)

La liturgia della Parola della quinta domenica di pasqua anno C, è caratterizzata dalla tematica della “novità”: il Signore fa cose nuove, ci dà un comandamento nuovo, ci rende nuovi. L’aggettivo “nuovo” si oppone a “vecchio”, “obsoleto”, aggettivi che identificano qualcosa che ormai non è più efficace. Nuovo è, allora, qualcosa di efficace, migliore. L’aggettivo “nuovo”, inoltre, ci apre alla speranza, accende le nostre attese: da qui la gioia che accompagna l’inizio di un nuovo anno.

«Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Nella seconda lettura abbiamo sentito che Signore fa cose nuove, inedite. Non a caso il “comandamento nuovo” ci viene consegnato nell’ultima Cena, dopo che Gesù avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (cf. Gv 13, 1); dopo che Giuda è uscito nella notte per compiere gli ultimi atti che porteranno Gesù alla donazione totale di sé sulla croce.

«Vi do un comandamento nuovo» I discepoli conoscevano sicuramente il comandamento dell’amore espresso nell’Antico Testamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev. 19,18). Gesù stesso nel Vangelo lo presenta, insieme all’amore per Dio, come compendio di tutta la legge (Cfr. Mt 22,37-39). Amare il prossimo come se stessi è già arduo: sono chiamato a fare al prossimo ciò che vorrei fosse fatto a me: come vorrei essere soccorso nel bisogno, così devo soccorrere il fratello; come vorrei essere accolto, così devo accogliere il fratello; come voglio essere perdonato quando sbaglio, così devo perdonare il fratello. Il comandamento che ci dà oggi Gesù, però, è “nuovo” perché supera l’antico: parametro di confronto non è più l’amore per se stessi, ma l’amore che Gesù ci ha mostrato in tutta la sua vita di donazione che si conclude con l’estrema donazione sulla Croce. L’amore per se stessi non è più il limite all’amore per il fratello: Gesù ci ha donato un amore capace di espropriarsi, di dimenticarsi di se, di donarsi totalmente e gratuitamente.

«Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». La novità del comandamento, tuttavia, non è solo nella formulazione, ma anche nella capacità nuova che Gesù ci dà. Il “come” che leggiamo nel Vangelo, infatti, ha sicuramente il significato di avverbio di modo: «Allo stesso modo in cui io ho amato voi …»; tuttavia il “come” ha anche il valore di congiunzione causale: «Siccome (poiché) io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri». Perché possiamo Amare come Gesù ci Ama, è necessario accogliere il Suo amore, credere nel Suo Amore, lasciare che questo Amore ci raggiunga nei sacramenti e non opporre resistenze alle mozioni dello Spirito.

Per l’uomo “carnale”, l’uomo vecchio non vivificato dallo Spirito e non innestato nella morte e resurrezione di Cristo, è già arduo amare il prossimo come se stesso; tanto più non sarà capace di amare come Gesù, espropriandosi, facendosi pane spezzato. L’uomo nuovo, invece, l’uomo “spirituale” morto e risorto con Cristo che ha ricevuto lo Spirito di Dio, costui trova in sé una forza sconosciuta che gli permette di amare come Gesù ci ama. Per questo al capitolo 15 del Vangelo di Giovanni il Maestro ci esorta: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Innestati in Cristo con il Battesimo, abbiamo in noi lo Spirito Santo, l’Amore che è Dio, che ci rende capaci di Amare. Spesso, però, questa capacità è sopita, come un seme gettato che non può portare frutto senza le condizioni essenziali al suo sviluppo.

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» Dalla nostra disponibilità ad accogliere la Vita nuova in Cristo e a vivere il comandamento nuovo dell’Amore, dipende non solo la nostra credibilità, ma anche il nostro discepolato: solo amandoci gli uni gli altri come Gesù ci ama possiamo dirci ed essere riconosciuti suoi discepoli. Solo accogliendo realmente Gesù come nostro Maestro e Signore potremo sperimentare la Vita piena ed eterna che Egli ci ha regalato.

Come fare a essere uomini e donne “nuovi” capaci di vivere il comandamento nuovo? La prima cosa è lasciarci Amare e credere nell’Amore di Gesù fidandoci di Lui. Ritengo possa esserci d’aiuto l’esempio di San Francesco d’Assisi. Il Serafico Padre, infatti, si lascia amare da Gesù, crede veramente nel Suo Amore e lo accoglie come maestro; si pone dinanzi il Vangelo in atteggiamento di estrema obbedienza: compie immediatamente ciò che comprende e, facendo, comprende sempre meglio. La stessa cosa vale per il comandamento dell’Amore, per la vita nuova presente in noi: nutrendoci dei sacramenti, segni efficaci dell’Amore di Dio per noi, amiamo come meglio possiamo, amiamo nella misura in cui siamo capaci; ciò ci trasformerà, “dilaterà” la nostra capacità di amare, ci farà sempre più nuovi. Dicendolo con S. Agostino: «È questo amore che ci rinnova, rendendoci uomini nuovi, eredi del Testamento nuovo, cantori del cantico nuovo». Solo così saremo riconoscibili come discepoli del Signore e il nostro annuncio sarà credibile.

Permettetemi, prima di concludere, di invitarvi a pregare per Papa Leone XIV che oggi inaugura solennemente il suo pontificato. Il Signore lo custodisca sempre nel Suo Amore perché possa essere testimone credibile della Resurrezione di Cristo e convertire il mondo.

Fr. Marco

venerdì 9 maggio 2025

Le mie pecore ascoltano la mia voce

 «Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani.» (At 13,14.43-52)

«… Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7, 9.14b-17).

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna … » (Gv 10, 27-30).

​Questa domenica, quarta di Pasqua, è detta domenica del Buon Pastore perché la pagina evangelica ci presenta Gesù come il Pastore che conosce e ama le sue pecore e dà loro la vita eterna. Nei versetti precedenti a quelli proclamati nella liturgia odierna (Gv 10 12-13) Gesù fa una chiara distinzione tra se stesso, il Pastore che è dà la vita per le sue pecore, e i mercenari che vogliono solo trarre un profitto per loro stessi e scappano appena vedono arrivare il lupo.

«Io le conosco». Trovo consolante questa affermazione: il Signore della Vita ci conosce, singolarmente, uno per uno, e ci ama. Ci garantisce la vita eterna: la nostra vita non sarà perduta. Tutto ciò, però, a condizione di essere Sue pecore, cioè di riconoscere e ascoltare la Sua voce e seguire il nostro Pastore.

«Le mie pecore ascoltano la mia voce» Ciò che ci identifica come appartenenti a Lui, infatti, è l’ascolto della Sua Voce, della Sua Parola, e il fatto di seguirlo. Quanti appartengono a Gesù, seguono Lui e obbediscono alla Sua Parola vivendo nella logica del Vangelo e da Lui ottengono Vita. L’ascolto della Parola, infatti,  insieme al nutrirsi della Sua Carne e del Suo Sangue (Cfr. Gv 6, 52-59), sono esigenze imprescindibili per rimanere uniti a Lui ed avere da Lui la Vita eterna. Quanti seguono i “falsi pastori”, i “mercenari”, e vivono nella logica del mondo alla ricerca del potere, dell’avere, del piacere, non appartengono a Gesù e non hanno in sé la Vita.

Oggi, purtroppo, sembra avere preso campo la convinzione che partecipare alla celebrazione eucaristica sia quasi superfluo, un optional: basta volersi bene, comportarsi bene … Certamente per partecipare degnamente alla celebrazione eucaristica bisogna assumere la logica dell’Amore, la logica del Vangelo, nella vita di ogni giorno; la partecipazione ai Sacramenti, tuttavia, il nutrirsi del Suo Corpo e del Suo Sangue, l’ascolto della Sua Parola nel contesto della Assemblea eucaristica, restano imprescindibili per avere in noi la Sua Vita.

«Io do loro la vita eterna» Credo sia il caso di soffermarci brevemente a riflettere sulla vita eterna che il Signore quest’oggi ci promette usando il tempo presente. La vita eterna non è quella “futura”, che segue questa vita terrena; non è un’utopia che ci fa “stringere i denti” nelle tribolazioni del mondo in vista di una felicità futura di cui non abbiamo altra certezza che la Fede. Una “vita eterna” che fosse solo questo, può a ragione essere definita “oppio dei popoli”. La vita eterna comincia qui: comincia con il nostro Battesimo, nel momento in cui veniamo innestati in Cristo, nella Sua morte e resurrezione. Qui, in questa vita terrena cominciamo a sperimentare la Vita eterna come una Vita piena di senso. Una Vita che non è “perduta”, cioè che non è sprecata. L’unico modo per sperimentare questa vita, però, è seguire il nostro Pastore sulla via della donazione d’amore. Perché la nostra vita non sia perduta, sprecata, siamo chiamati a spenderla bene! Il modo per non sprecare la vita è donarla per amore. Solo allora sperimenteremo quella pienezza di senso che nessun altro potrà darci, sperimenteremo che stiamo vivendo veramente. «Meglio aggiungere vita ai giorni che giorni alla vita» (Rita Levi Montalcini) è un aforisma che ci invita a vivere veramente. Nella vita, infatti, non è importante il numero di attimi o anni che si susseguono, ma l’intensità con la quale questi attimi sono vissuti.

«… esse mi seguono» La via percorsa da Gesù, lo sappiamo, passa dalla croce, dalla donazione della vita per amore. Seguendo il nostro Maestro e Pastore, anche noi passeremo per le tribolazioni, ma esse non saranno subite passivamente, stringendo i denti, ma accolte e valorizzate come occasioni per fare della nostra vita una donazione d’amore. Al versetto 18 del capitolo 10 di Giovanni, lo stesso da cui è tratta la pericope odierna, Gesù chiarisce: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (cfr. Gv 10,18). Il nostro Maestro non subisce gli eventi e l’ingiustizia che scatenano contro di Lui, ma li assume, li vive pienamente, e li trasforma in occasione per donare la vita.

Certamente, in tutto ciò non può mancare il volgere lo sguardo “in alto”, alle cose di lassù dove Cristo è assiso alla destra del Padre (cfr Col 3,1): è necessario sapere che la nostra vita è destinata ad un’ulteriorità che ci permette di dare il giusto valore alle tribolazioni presenti.

Oggi, giorno in cui la Chiesa intera prega per le vocazioni di speciale consacrazione, siamo invitati a pregare anche e soprattutto per Papa Leone XIV che il Signore a chiamato a pascere le Sue Pecorelle. Il Pastore Grande delle Pecore (Cfr. Eb 13,20) lo custodisca sempre nel Suo Amore. 

Permettetemi di concludere con l’appello ad ascoltare la voce del Buon Pastore: accogliamo il suo progetto d’amore per ciascuno di noi e la nostra vita non andrà perduta, ma andrà di pienezza in pienezza per l’eternità.

Fr. Marco

sabato 3 maggio 2025

Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene

 «… “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” … Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. » (At 5,27b-32.40b-41)

«L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione
». (Ap 5, 11-14)

«Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». […] Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». (Gv 21, 1-19)

Questa domenica, terza di pasqua, nella pagina di Vangelo contempliamo ancora la misericordia di Dio, Cristo Risorto, che si china sulla debolezza dei suoi. Il racconto evangelico, infatti, si apre con l’ennesima notte in cui i discepoli, andati a pescare, non presero nulla. Quando facciamo esperienza del fallimento, della nostra incapacità e debolezza, siamo invitati a non scoraggiarci, ma a confidare nella grandezza del Signore capace di compiere grandi cose a partire dalla nostra pochezza.

«Io vado a pescare» … ma quella notte non presero nulla. Finché il protagonista è il nostro Io, finché siamo senza il Signore e quindi nella notte, non possiamo far nulla. Solo l’incontro con il Risorto e l’obbedienza alla Sua Parola garantiscono un risultato insperato e sovrabbondante. L’evangelista Giovanni, dietro l’immagine della pesca, presenta le difficoltà dei missionari della Chiesa delle origini: fanno esperienza della loro inadeguatezza e incapacità, ma scoprono anche che il Signore Risorto li accompagna ed assiste.

«È il Signore!» Riconoscere che Gesù è il Signore significa già entrare nella salvezza. Significa, infatti, riconoscere la sua signoria e porsi sotto di essa. Nel Vangelo si dice che i demoni conoscono Gesù, ma sempre lo chiamano «il Figlio di Dio» o «il santo di Dio»; mai possono riconoscerlo Signore perché questo significherebbe porsi sotto la Sua Signoria che loro rifiutano. La Signoria di Cristo, però, non è come quella del mondo: Gesù non viene per essere servito, ma perché abbiamo la Vita in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Ponendoci sotto la Sua signoria, quindi, obbedendo a Lui, sperimentiamo quella Vita piena ed eterna che solo Lui vuole e può donarci.

«Venite a mangiare». La seconda scena evangelica ci mostra Gesù che ha già preparato da mangiare per i suoi, ma chiede ugualmente ai discepoli di portare il frutto della loro pesca. È il Signore a preparare a noi il banchetto della Vita, senza di Lui non avremmo nulla da mangiare, ma vuole comunque la nostra collaborazione. È quello che il sacerdote ci invita a fare prima della preghiera di offertorio: «Pregate, fratelli e sorelle, perché portando all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, ci disponiamo a offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente.» Siamo invitati ad accostarci alla mensa eucaristica portando la nostra vita in offerta perché, unita a quella di Gesù, possa essere mensa di salvezza per il mondo intero.

«… mi ami più di costoro?». … «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» La terza scena del Vangelo, infine, ci fa assistere al dialogo tra Gesù e Pietro: la triplice professione d’amore richiama e ripara il triplice rinnegamento e fonda la missione di pascere il gregge. I verbi greci usati sono agapao e fileo. Il primo (agapao) indica l’amore “allocentrico”, che sposta il proprio centro sull’amato, che si china sull’amato: un amore di donazione che non è condizionato dalla reciprocità (la reciprocità è sempre sperata/desiderata dall’amore, ma qui non è la condizione). Il verbo fileo, invece, indica l’amore in cui il soggetto, mantenendo il proprio centro in sé, porta nella sua intimità l’amato: è un amore più condizionato dalla reciprocità e in cui è ancora presente la ricerca di sé. Rivolgendosi a Pietro, il Signore le prime due volte usa il verbo agapao (“mi ami?”). Pietro risponde con fileo (“ti voglio bene”, “ti sono amico”). Alla terza volta, Gesù, quasi a chinarsi sulla debolezza di Pietro, usa anch’egli fileo.

«Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» Il Maestro chiede a Pietro un amore capace di donarsi gratuitamente, di dimenticarsi di sé. Pietro, però, ha già fatto esperienza della propria debolezza e, forse ricordando il triplice rinnegamento, non è più certo di sé, non si sbilancia: è capace di accoglierlo nella propria intimità, ma non è capace di espropriarsi ed ha bisogno di sentire forte la Sua presenza e le Sue consolazioni. Pietro non più fondato su se stesso, non è più quell’uomo che nel cenacolo aveva impulsivamente, ma forse con superficialità, affermato «Darò la mia vita per te!» (Gv 13, 37). Ha fatto esperienza della propria debolezza.

La debolezza umana, tuttavia, posta sotto la Signoria di Cristo, non è ostacolo alla potenza di Dio: nella prima lettura abbiamo letto di come, dopo la Pentecoste, Pietro e gli apostoli, avendo sperimentato la Vita che Cristo ha donato loro, non cercano più di salvare se stessi, ma anzi sono lieti di soffrire per amore di Gesù.

«Pasci le mie pecore … Seguimi!» Proprio fondandosi sulla disponibilità ad amare e sulla consapevolezza di Pietro della propria debolezza, Gesù affida a lui il compito di pascere il Suo gregge. Conoscendo la debolezza umana e la potenza di Dio, Pietro ora può guidare, confortare e nutrire i suoi fratelli. Così il racconto evangelico che iniziava con il protagonismo di Pietro («Io vado a pescare»), si chiude invece con l'invito alla sequela: «Seguimi!».

Fr. Marco